Paolo Costa, filosofo, è ricercatore presso il Centro per le Scienze Religiose della Fondazione Bruno Kessler di Trento. Profondo conoscitore e curatore di alcune opere italiane di Charles Taylor e Hans Joas, Costa è autore di diverse pubblicazione in ambito filosofico e dei fenomeni politico-culturali. Tra i suoi libri ricordiamo: P. Costa, La ragione e i suoi eccessi (Feltrinelli, 2014); P. Costa – D. Zordan, In una stanza buia. Filosofia e teologia in dialogo (FBK Press, 2014).
Ci sono vocaboli che sono divenuti di uso così corrente da far nascere l’impressione che essi siano praticamente auto-esplicativi, contrassegnati da un’evidenza indubitabile per cui ogni «distinguo» rispetto a essi viene messo rapidamente a tacere come segno di un’intolleranza insopportabile per la società illuminata. Generalmente, questo è il percorso lungo il quale le parole, e i fenomeni che esse raccontano, perdono spessore, diventano slogan o il fantasma di mulini a vento contro cui imbastire accanite battaglie. L’uso delle parole non è innocente, e il loro destino dipende in gran parte da esso.
Riscattare la secolarizzazione
Costruire eccessi strategici di univocità delle parole, dei concetti, dei fenomeni, vuol dire immiserirli nella loro forza di poter generare un buon pensiero. Assestarli come dati di fatto per sostituire una supremazia con un’altra, è impresa a cui cerchia di chierici, di ogni colore e schieramento, si impegnano da secoli. In un certo qual modo, il termine secolarizzazione ha finito col condensare parossisticamente in sé questa condizione e deriva del linguaggio pubblico all’interno delle nostre società occidentali.
Quando questo accade, il problema non è che non si lascia più spazio per ciò che viene scalzato, superato, lasciato alle spalle (in questo caso la religione, forse meglio la pratica religiosa, come condensato simbolico intorno al quale organizzare vissuti magari anche molto distanti da essa a livello personale), quanto piuttosto che non si lascia più spazio al pensiero stesso – che dovrebbe essere cosa che sta a cuore a tutti, ovunque si schierino quelle persuasioni personali che danno forma alla nostra identità morale (ammesso che qualcosa del genere esista ancora al giorno d’oggi).
L’esercizio del buon pensiero
Il libro di Paolo Costa La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione (Queriniana, 2019) ha l’indubbio e notevole merito di restituire la secolarizzazione all’esercizio del pensiero e dell’interpretazione critica. Riconsegnando il concetto alla sua dignità di voler dire il processo di qualcosa che è accaduto e che si è dipanato nel tempo, muovendosi sulle armoniche della complessità della vita sociale degli uomini.
Un’impresa, questa, che una teologia intelligente dovrebbe salutare con gratitudine; in primo luogo perché la costringe a pensare criticamente i profondi processi di trasformazione che la religione e le forme religiose hanno attraversato nel corso dell’epoca moderna. Processi questi che, in fin dei conti, fanno parte e costituiscono la complessità occidentale di quel fenomeno che chiamiamo, appunto, secolarizzazione.
L’importanza di descrivere ciò che è successo
Il lavoro di Costa è interessato, in primo luogo, a una restituzione alla realtà della secolarizzazione stessa. Ossia, detta in breve, a salvarla dal suo imperioso successo come parola magica intorno alla quale tutti si trovano paradossalmente d’accordo (sia i paladini più accesi che i detrattori più incalliti). Per riconsegnarla, così, a essere categoria intricata che attraversa vicende umane, politiche e culturali che non possono essere mai ricondotte a un’univoca linearità.
Qualcosa del genere è divenuto oggi possibile, anche se l’impresa è tutt’altro che semplice: questo perché sembra che qualcosa sia successo alla secolarizzazione stessa. Qualcosa che l’ha riconsegnata allo spazio della vita effettiva di cui è una categoria descrittiva. «In breve, la tesi è che negli ultimi cinquant’anni si sia verificato qualcosa di simile a un cambiamento di paradigma nel dibattito sulla secolarizzazione.
Più precisamente, ciò che è avvenuto è uno spostamento dell’onere della prova tra i sostenitori e i critici della teoria classica. […] Fuor di metafora, l’idea è che a livello teorico sia avvenuto una sorta di progressivo “spacchettamento” della metateoria del declino o trasmutazione della religione, che ha portato a un’articolazione in differenti narrazioni e resoconti locali o “regionali” della macrodialettica tra la sfera sacra (o religiosa) e quella profana (o secolare) dell’esistenza individuale e sociale» (p. 18).
Il rilievo teologico del lavoro di Costa
D’altro lato, la secolarizzazione diventa molto più intrigante proprio in quanto qualcosa che accade, che si ridisloca tratteggiando nuovi scenari nel quadro di un mutamento della funzione e collocazione della religione quale referente della configurazione dell’esistenza personale e delle relazioni sociali. Rimessa in vita e in circolo come fa Costa, la secolarizzazione e il dibattito che ruota intorno a essa diventano imprescindibili anche per la fede e la teologia. Non fosse altro perché è in essa che quest’ultime si attuano, quantomeno a partire dagli inizi del XX secolo e sicuramente nel momento attuale.
Certo, muoversi all’interno di questa costellazione di slittamenti di faglia che contraddistinguono la vicenda della secolarizzazione a partire della seconda metà del XX secolo non è affatto cosa semplice. Da soli non ce la potremmo fare, abbiamo bisogno di un affidabile compagno di via che conosce i territori in cui ci muoviamo – e possiede anche una buona scaltrezza rispetto agli imprevisti che ci possono sempre attendere. Proprio così funziona il libro di Paolo Costa: una mappatura degli spostamenti e slittamenti di paradigma che hanno contrassegnato, e contrassegnano tutt’ora, la categoria di secolarizzazione.
Non lasciamoci però sviare dalla modestia che caratterizza l’autore, che si riverbera nell’uso delle parole scelte per descrivere l’impianto strategico del volume. In primo luogo, in situazioni di «smarrimento» delle coordinate portanti una buona mappa diventa non solo imprescindibile, ma anche vitale. Questo non vale solo per gli «esploratori», così che essi possano non perdersi nell’intrico delle vie che devono seguire, ma anche per il territorio stesso da esplorare che, senza mappatura, rimarrebbe sostanzialmente inaccessibile e indecifrabile.
In secondo luogo, Costa offrendo una mappatura del dibattito sulla secolarizzazione negli ultimi cinquant’anni si assume anche la responsabilità di un pensiero onesto e leale che ci conduce per via. Non ci costringe alle sue scelte, ma illustrandole con schiettezza ci permette di comprenderne le ragioni e di apprezzarle nel loro argomento.
Un attraversamento, quindi, che è anche un orientamento alla formazione di un giudizio proprio e autonomo; un giudizio che, comunque, deve confrontarsi con la pertinenza stringente del percorso proposto da Costa. Dietro le «stazioni» di questo attraversamento della secolarizzazione c’è un’idea di lettura e comprensione della cultura dell’Occidente e dell’Europa, dei processi trasformativi che li caratterizzano, e delle dinamiche socio-civili che li rendono dei corpi inquieti.
Critica e manutenzione del paradigma della secolarizzazione
L’architettura del volume segue la traiettoria degli slittamenti e dei riposizionamenti delle forme della secolarizzazione negli ultimi decenni. In questo caso registrarne il dibattito vuol dire tracciare una sorta di sentiero possibile, che Costa tiene sempre aperto nelle variabili che esso stesso contiene. La prima parte del volume delinea i tratti che hanno portato a una sorta di revisione critica del paradigma della secolarizzazione, facendone slittare il posizionamento nel quadro della società occidentale e rivedendolo per riferimento ai processi globali di modernizzazione.
Per riferimento a Joas è possibile affermare che «la secolarità moderna non mette di per sé fuori gioco le religioni – non rappresenta, cioè, la fine della svolta assiale e l’inizio di una nuova rivoluzione spirituale di analoga portata – ma comporta comunque una ristrutturazione del campo di forze ideali entro cui si dispiega la creatività dell’agire umano. Principale sintomo di questa trasformazione è la crescente consapevolezza che la fede e la religione – a differenza dell’esperienza del sacro – non sono universali antropologici, ma opzioni significative offerte all’iniziativa individuale e collettiva» (p. 95).
La seconda parte prende in considerazione alcuni approcci che, consapevoli degli slittamenti subiti dalle forme della secolarizzazione e dalle pratiche di secolarità, intendono mettere mano a una sua riconfigurazione (in particolare Gauchet e Habermas) che non si attui però nella forma di un superamento del paradigma – e, quindi, della semplice constatazione di un «ritorno» delle religioni sulla scena pubblica occidentale.
L’ultimo capitolo prende in esame quella che si potrebbe chiamare la condizione odierna, nella sua iper-frantumazione e sfuggevolezza; quella in cui il «“mostro” partorito dalla modernità ha saturato ogni fessura, pur minima, del reale, con la conseguenza che il loro immaginario, la loro visione del mondo è governata dall’intuizione tacita che la realtà sia one-possibility thing. Questo, per altro, non li pacifica affatto, anzi li rende, se possibile, ancora più inquieti e spericolati, poiché il fatto che tutto sia apparentemente disponibile, a portata di mano, li spinge a una forma compulsiva di consumo che fa terra bruciata dietro di sé» (p. 192).
Ma appunto, queste non sono da intendere come le conseguenze della secolarizzazione, quasi che essa fosse un progetto studiato a tavolino e poi inesorabilmente applicato da una forza oscura altrettanto intangibile come quella del sacro. Il paradigma della secolarizzazione è, piuttosto, il tentativo di descrivere «qualcosa verificatosi nella società europea negli ultimi duecento anni» (p. 212); il filo di una lettura della nostra storia personale e comunitaria.
Pensare (anche Dio) nella nostra storia
Dentro la quale possono stare anche la fede e la religione, in un modo e in maniere che sono però tipiche e proprie all’Europa che transita dalla modernità al contemporaneo. Nei nostri territori, al di fuori di questo transito e di queste specificità sia fede che religione di fatto non esistono – perché questa è la loro stessa storia, come luogo in cui possono praticarsi ed essere praticate.
Per questa ragione la teologia può apprendere molto dalla lettura di questo libro; alla fin fine può apprendere addirittura se stessa, le ragioni del suo prodursi in un certo modo e in certi ambiti. Fa sempre bene essere guidati all’apprendimento delle ragioni del proprio posizionamento nella cultura e nella società; ossia al fatto che guardando unicamente a se stessa la teologia occidentale contemporanea non ha possibilità di cogliere ciò che essa di fatto è per la comunità umana alla quale vorrebbe destinarsi.
Paolo Costa, La città post-secolare. Il nuovo dibattito sulla secolarizzazione, Queriniana (BTC 193), Brescia 2019.