Io ho fatto il liceo scientifico, nella tragedia greca non mi sono mai davvero imbattuto, purtroppo o per fortuna. E invece questa estate non leggo altro. Edipo Re, Edipo a Colono, Antigone, Aiace. La colpa è soprattutto di un libro appena uscito in Italia per Marsilio, che si chiama La mente tragica, di Robert D. Kaplan, che mi sono letto a giugno in un weekend di mare. A Procida, nello specifico.
La mente tragica
Kaplan è un giornalista americano, un ex inviato di guerra ora diventato accademico, che da anni si interroga su che senso dare alle cose terribili che ha visto in Afghanistan, nell’Iraq di Saddam Hussein, nella Siria di Bashar al Assad.
Dopo l’11 settembre del 2001, ha appoggiato l’invasione militare americana dell’Iraq, perché aveva visto troppi orrori commessi da parte del dittatore per difendere il suo regime.
Oggi ha scritto questo libro − La mente tragica − anche come reazione alla depressione di cui ha sofferto per anni:
«Dopo l’errore di valutazione che avevo commesso rispetto alla guerra in Iraq, avevo fallito il mio test di realismo e addirittura sulla questione più importante della nostra epoca: mi sarebbe per sempre risuonata nella mente l’osservazione del filosofo persiano medievale Abu Hamid al Ghazali, secondo cui un anno di anarchia è peggiore di cent’anni di tirannide».
Capire e raccontare le guerre è difficile: dopo la fase iniziale, si alza quella che in gergo si chiama fog of war. Non si capisce più nulla, ogni giorno pare uguale a quello precedente, giornalisti e lettori non riescono a percepire davvero la differenza tra una strage con 10 morti e una con 100 o con mille.
Alla fine, resta soltanto la propaganda: si sceglie una fazione e, anche da osservatori, si racconta tutto attraverso un prisma interpretativo predefinito. In Ucraina c’è una resistenza che difende l’Europa, oppure c’è una prova di forza del complesso militare-industriale atlantico che sacrifica la pace in nome di interessi economici e ossessioni ideologiche. Scegliete da che parte stare e poi tutto diventa semplice.
Kaplan è rimasto traumatizzato da errori di valutazione che non si possono certo spiegare con la scarsa competenza, e allora sceglie un’altra bussola rispetto a quella più diffusa dell’appartenenza e dell’identità: la tragedia greca.
«Per i greci – scrive in La mente tragica – imparare a temere il caos, e quindi a evitarlo, aveva un enorme valore: il timore ci mette in guardia da moltissime cose, ed è molto ciò che non sappiamo su quanto può accaderci come nazione e come individui».
Questa analisi rievoca la celebre espressione dell’ex segretario della Difesa americano Donald Rumsfeld che, nel 2002, parlava di unknown unknowns: sono le cose che non sappiamo di non sapere quelle che dovrebbero ossessionarci. Le minacce note si possono gestire, ma quelle ignote sono più pericolose.
Le verità ignote
L’Edipo di Sofocle pensava di dover gestire una pestilenza, oggi diremmo una pandemia, ma erano le verità ignote – unknown unknowns – quelle che lo minacciavano davvero. Non sapeva di non sapere la sua vera origine, era convinto di aver sconfitto il proprio destino: se ne era andato dalla sua città natale per evitare di compiere la profezia che lo condannava a giacere con la propria madre e uccidere il proprio padre.
Ma non sapeva di non sapere, non sapeva di avere già ucciso il proprio padre Laio, e di aver sposato la madre Giocasta proprio come effetto delle scelte radicali che aveva preso per rivendicare il proprio libero arbitrio.
Kaplan, da giornalista, si è trovato tante volte a raccontare la tensione costante tra le forze del destino (della geopolitica, dell’economia, della finanza) e la volontà degli individui che provano a dominarle. Ecco, nel suo libro breve e denso, Kaplan argomenta che la tragedia greca funziona meglio dei manuali di relazioni internazionali per capire la guerra, la violenza, i disastri:
«Il pathos e il paradosso di chi occupa cariche importanti è che, indipendentemente dalla sua autorità, può trovarsi nella condizione di avere davanti a sé solo opzioni terribili».
A questo serve tornare a Sofocle, a Euripide, a Eschilo, a capire che «la tragedia non è il trionfo del male sul bene, ma il trionfo di un bene su un altro bene che provoca sofferenza».
Parole che potrebbe condividere perfino Vladimir Putin, che ha sempre raccontato l’invasione in Ucraina in un modo che sfugge alla razionalità occidentale ma pienamente inserito nello schema della tragedia: una scelta di violenza e di dolore imposta dalla doverosa risposta di un uomo – lui – alla necessità storica di compiere il destino del popolo russo.
Non è ovviamente necessario condividere o legittimare questa narrazione per rendersi conto che non si può contrastare con le armi del buonsenso o della razionalità, soltanto una spinta uguale e contraria – dunque pienamente tragica –: è una risposta proporzionata e, forse, efficace.
La sintesi di Kaplan del senso sociale della tragedia greca è tutto sommato molto simile all’idea di politica che hanno gli economisti: governare significa considerare i trade off, rinunciare a qualcosa per ottenere qualcos’altro. Per aumentare la spesa pubblica o si aumentano le tasse o si alza il debito, qualcuno ci guadagna, altri ci perdono, anche se i politici cercano sempre di convincerci che tutti possono guadagnare qualcosa.
Ecco, dopo aver letto il libro di Kaplan mi è venuta voglia di immergermi in quella tragedia greca che avevo soltanto sfiorato qua e là, più attraverso saggi che ne parlavano ma senza mai andare alla fonte.
Pietà e terrore
Per quel genere di coincidenze temporali che ricorrono spesso in tragedie che si svolgono nell’arco di poche ore o giorni, tornato dalla vacanza in cui avevo letto La mente tragica, ho scoperto che Einaudi mi aveva mandato il nuovo libro di Giulio Guidorizzi, Pietà e terrore.
Giulio Guidorizzi ha insegnato Letteratura greca e Antropologia del mondo antico nelle università di Milano e di Torino. Da anni è diventato, non so come definirlo, il principale divulgatore della cultura classica greca.
Ma divulgatore è riduttivo, perché Guidorizzi attinge al mito e lo racconta di nuovo e in ogni narrazione si illumina un significato diverso, storie tramandate per 2500 anni si evolvono e si attualizzano.
Un po’ forse perché tutto è già stato raccontato e, dunque, rievocare l’assedio a Troia e le peripezie di Odisseo significa soltanto confrontarsi con il nucleo dell’immaginario occidentale, qualunque declinazione poi segua.
Ma il lavoro di Guidorizzi non è soltanto quello di rendere accessibile la produzione culturale di un’epoca tanto fondamentale quanto lontana.
Piuttosto Guidorizzi, come Robert Kaplan, cerca nella tragedia greca strumenti per leggere la realtà. Non tanto sul piano dell’analisi, quanto su quello delle emozioni: la filosofa Martha Nussbaum ha dedicato una serie di lavori proprio all’importanza formativa del sentire, complementare a quella del capire.
Impariamo a gestire il mondo sia perché acquisiamo nozioni, riusciamo a stabilire nessi causali e a inferire da esperienze puntuali regole generali. Ma impariamo anche perché viviamo entusiasmi effimeri, dolori improvvisi, frustrazioni costanti e ambizioni inappagate.
Ecco, tutto questo viene esperito dalla tragedia greca alla quale, infatti, Martha Nussbaum dedica gran parte del suo celebre libro La fragilità del bene, dedicato alla tensione tra volontà di agire degli individui e necessità degli avvenimenti che seguono uno schema immutabile, voluto da dèi che si compiacciono nell’osservare l’inutile sforzo degli uomini e delle donne per cambiare un destino già scritto.
Eppure, come osserva Robert Kaplan, cosa c’è di più nobile che ribellarsi all’ineluttabilità del fato quando sai che ogni sforzo sarà vano ma che ogni resa comporta l’arrendersi a una vita di passività?
Mentre dedico la mia estate alla tragedia greca penso che i due argomenti di conversazione sui social sono i film dedicati a Barbie e al fisico Robert Oppenheimer: due storie, per quanto diverse, di sfida ai vincoli imposti da un destino già definito.
L’affermazione dell’individualità, però, nella tragedia greca e anche spesso nella vita, appaga il desiderio prometeico di ribellione agli dèi ma non garantisce la felicità, men che meno la serenità.
Due storie, in fondo, tragiche in senso greco.
Pubblicato sulla newsletter Appunti il 1º agosto 2023