La rilettura dei comandamenti del Decalogo che Vinicio Albanesi ha pubblicato a puntate su Settimana News è ora raccolta in un piccolo volume per la collana «Le ispiere» delle Edizioni Dehoniane Bologna (qui la scheda). Lo presentiamo volentieri riprendendo qui le parole della Introduzione del volume, nella quale l’autore spiega il senso della sua operazione.
Il commento al Decalogo che il lettore ha tra le mani è nato da un’esigenza molto pratica. Ogni anno, nell’imminenza della cresima e della prima comunione dei ragazzi della mia parrocchia, propongo due mattinate di «esercizi spirituali», che si concludono con la confessione.
Per aiutarli nell’esame di coscienza, utilizzo uno schema «antico», facendo riferimento ai comandamenti e ai sette vizi capitali. Ad alta voce spiego che cosa significano, tenendo conto della loro età e del contesto delle loro famiglie. Li invito a dare le risposte dentro di sé, per poi raccontare gli eventuali «peccati». Le difficoltà maggiori sono per i comandamenti «non uccidere», «non commettere atti impuri» e per il vizio capitale dell’«accidia» perché non sono nelle corde della loro età.
Alla fine dell’anno scorso ho scritto il commento al decimo comandamento per la rivista Settimana News. Il direttore della testata, Lorenzo Prezzi, mi ha in seguito proposto di commentarli tutti, perché avrebbe pubblicato le riflessioni a partire dall’ultimo comandamento: cosa che è avvenuta in questi mesi. Da qui la proposta delle Edizioni Dehoniane di raccogliere le riflessioni in questo Decalogo.
Sintesi geniale
I dieci comandamenti, insieme al Padre nostro e all’Ave Maria, sono i fondamenti di ogni iniziazione cristiana: ogni famiglia li conosce, anche se, almeno per alcuni, sono ridotti all’osso. Cresciuto negli anni e nel sacerdozio le riflessioni sono maturate in una sintesi che è «teologica e spirituale».
L’elenco dei comandamenti è ben strutturato: i primi tre riguardano Dio, gli altri sono rivolti al prossimo. Una sintesi geniale, perché ciascuno di noi ha bisogno di una guida che guardi il cielo e la terra; la luce e le tenebre, il bene e il male, il corpo e l’anima. Dio e le creature non sono due realtà separate: sono concatenate nella storia di ciascuno, in una sintesi misteriosa e reale.
Gli stimoli per questa sintesi sono nati dalla lettura delle Scritture: mi ha colpito profondamente il Salmo 148. Quello che ripete ossessivamente «lodate Dio» riferito ai cantori del cielo (gli angeli, l’esercito celeste, il sole, la luna…) le creature terrestri (i mostri, gli abissi, il fuoco, la grandine, la nebbia) e infine l’uomo (re, nazioni, principi, giovani, fanciulli, vecchi…). Anch’io faccio parte della lode a Dio.
Una seconda radice, dovuta alla vita che vivo, è l’immersione nella storia delle persone: non solo come guida, ma come vita quotidiana: tra malattie, disordini e fragilità. Altro passaggio illuminante: «Tu ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato: se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata […]. Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita». (Sap 11,24.26).
La fede s’incardina nella vita
Mi hanno pacificato le riflessioni della scuola di Gustavo Gutiérrez, il teologo della liberazione. Egli sostiene che la fede s’incardina nella vita. Dopo la venuta del Signore sulla terra, Dio non solo si è fatto presente nella storia, ma l’ha assunta come sua. Tutto ciò che si vive è inizio del Regno. Tornando indietro si rileggono, con altra impostazione, le parabole: racconti di ordinaria vita quotidiana che non sono solo immagini e analogie, ma la rappresentazione dei passaggi della storia umana verso il Regno di Dio.
Si comprendono in questo modo anche le Beatitudini. Il tesoro delle parole del Signore è ben compendiato nei capitoli cinque, sei e sette del Vangelo di Matteo, che iniziano con il Discorso della montagna. Spesso mi capita di suggerire, come penitenza nella confessione, di leggere e meditare questi capitoli. Essere umili, miti, consolatori, giusti, misericordiosi, sinceri, pacifici, fedeli non sono comandamenti, ma indicazioni per essere in pace con Dio e con il mondo. Così, seguendo le vie evangeliche, s’incontra Dio.
L’obiezione che si fa spesso a questa impostazione è che occorre proclamare il kerygma: Cristo, fatto uomo, è morto e risorto; si cadrebbe altrimenti in un umanesimo, senza la prospettiva della salvezza. Eppure nel kerygma è annunciata la realtà e la speranza; l’immanente e il trascendente. La vita del Nazareno in Palestina ha rappresentato la presenza di Dio nel mondo. Con tale presenza, in unione con il Padre, tema caro a san Giovanni, ha concretizzato la salvezza. La sua morte e la sua risurrezione confermano l’unità del corpo e dello spirito.
I comandamenti rappresentano i primi gradini di questa via. Altre strade non esistono. Solo così si possono superare i rischi di uno spiritualismo disincarnato e la presunzione di essere i salvatori del mondo. Il tutto evidentemente nella prospettiva di pace, di gioia e di gloria. I comandamenti non sono riducibili a dei «precetti», un rischio che corriamo nel voler tradurre concretamente le singole indicazioni. La visione di Dio, intravista nelle Scritture e nella storia di Israele, è portata a compimento con Gesù. Perché sia definitiva alla fine dei tempi.