Un bel commentario spiritual-esistenziale del monaco benedettino allo splendido libretto di Rut, un testo biblico non molto conosciuto ma molto importante nel canone biblico. Esso è preso a vademecum della crescita nella vita psicologica e spirituale del credente.
Alcuni ipotizzano che il libro di Rut sia stato composto nel tempo monarchico (nel canone esso segue immediatamente il libro dei Giudici), mentre altri lo riconducono al tempo esilico-postesilico di Israele. In quest’ultimo caso, al pari del libretto di Giona, esso contesterebbe la politica identitaria di Esdra e di Neemia che, per salvaguardare la continuità del popolo tornato dall’esilio, non esitarono a far sciogliere i matrimoni già contratti fra gli israeliti e le donne appartenenti alla zona esilica di Babilonia.
Rut appartiene al popolo di Moab, interdetto da Dt 23,4-5 dall’entrare nella comunità del popolo di Israele neppure alla decima generazione perché ostacolò il passaggio di Israele nel suo cammino di liberazione dall’Egitto e di entrata nella terra della promessa. (I rabbini però “recuperarono” la proselita Rut, superando l’interdetto deuteronomico dicendo: Queste cose le hanno fatte gli uomini, non le donne!).
La famiglia di Elimèlech (nome altisonante, “Il mio dio è re!”) e di “Noemi/Nŏomî) (la vocalizzazione ebraica però induce la lettura Noomi, “la Dolce”) emigra, per sopravvivere alla grave carestia e non per vivere, dalla “casa del pane”, Betlemme, ai campi di Moab, terra straniera e “nemica”.
Dopo dieci anni, Noemi si ritrova vedova e orfana dei suoi due figli (già contrassegnati da nomi “devitalizzati” come “languore” e “consunzione”). Accompagnata dalle sole due nuore, Orpa e Rut, Noemi rientra a Betlemme, poiché ha sentito dire che YHWH aveva visitato il suo popolo dandogli pane.
Orpa (“Colei che volge le spalle”) volge le spalle, legittimamente, alla suocera. Il libretto biblico non la giudica negativamente per questo.
Rut, l’“amica”, invece, “si incolla/dābaq” alla suocera, facendo corpo unico con lei, col suo paese, la sua cultura, il suo Dio, il tempo e il luogo della sua morte.
A Betlemme, Rut si metterà al lavoro come serva, forte e laboriosa, in qualità di spigolatrice (lqṭ). Finita “per caso” nel campo di Booz, suo parente con diritto di riscatto (ma Noemi glielo dirà solo più tardi…), Rut troverà la pienezza della sua vita nel matrimonio con Booz, generando Obed, il nonno di Davide. Booz, infatti, forzando (questo lo affermo io, non MichaelDavide) due istituti giuridici diversi – quello del levirato e quello del dovere di riscatto dei beni di un parente caduto in miseria, al fine di non disperdere l’eredità dei padri –, oltre al campo di Noemi in vendita, “compra” anche Rut, che fa corpo unico con la suocera, per dare un figlio al marito defunto di Rut. Rut è il vero “tesoro nel campo”, per il quale conviene vendere tutto per comperarlo (cf. Mt 13,44)…
Rut, “la moabita” – come sempre viene etichettata sino al termine della vicenda, quando finalmente tutto il popolo e gli anziani la riconoscono come “la donna” (cf. Rt 4,11) –, è simbolo di umile servizio, di grande amore per la suocera, di profondo rispetto delle persone e del loro cammino, di grande apertura alla religione del paese dove di trova a emigrare e a doversi integrare. Pur non essendo israelita, appartenente al popolo della Torah, essa diventa proselita vivendo concretamente a partire dal proprio intimo spirituale il cuore della Torah-legge: l’amore! Attraverso di lei, emigrante povera e vedova – annota MichaelDavide –, YHWH continua a tessere la carne del Figlio di Dio che si sarebbe incarnato come discendente di Davide, Gesù di Nazaret. Il gomitolo di lana che si vede in tante icone tenuto fra le mani da Maria, la madre di Gesù, è filato anche da Rut, la moabita…
In un tempo in cui non c’era ancora il re e ognuno si comportava come meglio credeva (Gdc 21,25, versetto che precede immediatamente il libretto di Rut), Rut compare come la donna – straniera e “nemica” – che incarna l’amore nel “din-rigore” e nello “ḥesed-amore fedele”. Vivendo con un lavoro assiduo e umile, corretto e rispettoso, quale “donna giusta al posto giusto”, essa trova l’amore dell’“uomo giusto al posto giusto”, Booz (“la Forza”).
Egli è potente, rinomato e ricco, ma anch’egli rispetta, senza prevaricare approfittando del suo stato, l’umile serva nella notte del profumo e dell’incontro sensuale sull’aia in cui si ventilava l’orzo.
Il commento di MichaelDavide intarsia il suo testo con molte annotazioni spirituali e psicologico-psicanalitiche, facendo vedere come l’ordine e l’amore conducano alla piena fioritura della vita. Rut è l’umile serva e serena, laboriosa, altruista fino a mettere in grembo alla suocera il proprio figlio Obed, come fosse lei la sua madre. Le donne di Betlemme riconoscono pubblicamente che la nuora di Noemi la ama più di sette figli: la pienezza dell’amore (cf. Rt 4,15). Da parte sua, la grande Noemi accompagna con delicatezza e sapienza tutta femminile la nuora perché si apra continuamente alla vita, senza intristirsi nel presente vivendolo senza speranza.
Rut, la straniera-vedova-povera, scomunicata dalle scritture di Israele, diventa l’anello insostituibile della catena genealogica che “costruisce” la casa di Israele, come le matriarche Rachele e Lea (un ordine non cronologico, ma d’amore, cf. Rt 4,11) e viene ricordata nella genealogia matteana di Gesù (cf. Mt 1,1,1-17), insieme ad altre quattro donne (!), tutte “particolari”: Tamar, la nuora di Giuda che concepisce con lui il figlio Perez (ricordato in Rt 4,18), mascherandosi da prostituta; Raab, la prostituta di Gerico che aiuta gli spie di Israele che sta per entrare nel paese; Betsabea, la moglie di Uria l’hittita che concepisce un figlio da Davide, adultero e omicida e, infine, Maria di Nazaret, che concepisce Gesù per potenza dello Spirito Santo.
Rut è un bellissimo libretto biblico, fine e profondo, che apre alla globalizzazione di una speranza che, accogliendo lo straniero, spera con fede certa che ci sarà vita ancor più abbondante, oltre ogni barriera e ogni preclusione.
Piccole osservazioni. A p. 166 r 11 leggi Rt 2,23; p. 167 r 16 leggi profùmati (così anche a p. 170 ad l.); a p. 170 13 leggi Làvati; a p. 194 r -11 leggi esprimono; a pp. 201-202 non vedo un motivo cogente per modificare la sequenza dei soggetti grammaticali del testo ebraico di 3,14-16a: lei (= Rut) si alzò prima che si potesse riconoscere una persona dall’altra nel buio dell’alba; lui (= Booz) dice che nessuno venga a sapere dell’incontro notturno e prosegue dando una misura abbondante di orzo a Rut; egli (= Booz) entra in città (3,15b), mentre in 3,16 si annota che “lei” (= Rut) arrivò dalla suocera; a p. 213 r -10 leggi portate; a p. 214 r 4 leggi la vita sia. In tutto il testo il termine ebraico ḥesed viene collegato all’articolo femminile, forse perché seguito dalla traduzione “carità”; nella lingua ebraica il termine è però di genere grammaticale maschile e quindi preferisco la dizione “lo ḥesed”, essendo il termine ebraico non ancora di uso corrente nella lingua italiana.
Non c’è la bibliografia, ma nelle note si vede come l’autore spazia da citazioni di padri della Chiesa a quelle di esegeti vari, di esperti di vita spirituale, di psicologi, di psicanalisti e di psichiatri (in primis C.G. Jung).
Un testo davvero piacevole e illuminante.
Fratel MichaelDavide, Rut, la migrante. Per una globalizzazione della speranza, Ed. San Paolo, Cinisello B. (MI) 2019, pp. 272, € 17,00, ISBN 978-88-922-1926-7.