L’istituzione dello Shabbat è il contributo più importante che l’ebraismo ha portato all’umanità. Essa introduce, nella monotona temporalità dell’universo, una certa figura della settimana centrata sul settimo giorno. L’origine di questa istituzione senza equivalenti risale alla Bibbia e il suo contenuto, la sua pratica e il suo significato sono stati oggetto di un vasto sviluppo nel corso dei secoli. L’insegnamento del Talmud, poi quello dello Zohar, così come l’apporto della riflessione speculativa della filosofia dell’ebraismo hanno ampliato e approfondito in modo notevole il senso della pratica dello Shabbat, come fondamento della rivelazione della gloria divina nel mondo. Al di là del loro scopo pratico, fisico e morale, questi insegnamenti mettono in evidenza il suo significato cosmico, religioso e nazionale. Essi ci hanno guidato nella redazione di questo saggio, nel nostro desiderio di attualizzarne il messaggio.
La divisione in settimane di sette giorni è, infatti, un fenomeno singolare del calendario: essa non corrisponde a nessun ciclo astrale, contrariamente alle altre suddivisioni del tempo. Il giorno di ventiquattro ore è lo spazio del tempo regolato da una rivoluzione della Terra su se stessa; il mese corrisponde approssimativamente alla rivoluzione della luna intorno alla Terra;[1] l’anno è determinato dal tempo della rivoluzione terrestre intorno al sole. La settimana di sette giorni non corrisponde a nessun fenomeno astronomico. La sua accettazione universale può essere considerata come un consenso tacito a una divisione del tempo che segue un criterio biblico: una divisione introdotta, non sulla base di un fenomeno naturale, ma di un criterio esterno alla natura, di carattere trascendente.[2]
Per la tradizione ebraica, tutti i giorni della settimana sono orientati verso il settimo giorno; essi, infatti, non hanno denominazione particolare,[3] mentre quest’ultimo porta un nome proprio che ne indica l’essenza: lo Shabbat, sospensione dell’opera, ritorno all’origine. Tutti i giorni della settimana tendono verso lo Shabbat, che conferisce un senso alla loro esistenza e alla loro attività. C’è un tempo fuori dal tempo abituale, totalmente altro, che è un riferimento per la coscienza di fronte allo scorrere incessante del tempo.
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La concezione biblica del dominio sul tempo e l’introduzione nell’attività umana di una dimensione di libertà e di alterità, che salva dall’alienazione sociale e economica e permette di rigenerarsi alle sorgenti dell’essere, costituiscono una rivoluzione di cui forse non si è ancora valutata l’importanza per la crescita della civiltà. Il modo di fissare il ritmo del tempo nel calendario caratterizza il significato dell’esistenza umana nella storia, in una determinata tradizione. Da ciò proviene l’importanza del settimo giorno nella tradizione ebraica, non soltanto come celebrazione settimanale, ma come indicazione di un incontro con la storia, sia quella più antica che la più recente.
La santificazione del settimo giorno conferisce al tempo una dimensione spirituale positiva, un valore eminente.[4] Essa apre la possibilità, e dunque stabilisce il dovere, di cogliere il tempo in se stesso, indipendentemente dagli avvenimenti che si ripercorrono, un’opportunità di incontro con la Presenza, una partecipazione attiva all’essere, che è diventato, per il popolo ebraico, la sua ragione d’essere. Questa idea, concretizzata mediante norme e gesti simbolici, ha fondato la forte relazione della coscienza ebraica con il tempo e ha mostrato l’importanza che essa accordava alla rigorosa osservanza dello Shabbat.
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Per la tradizione ebraica, il tempo cosmico, ciclico, si trova orientato dallo Shabbat verso una finalità creativa aprendosi ad un’era di salvezza e di liberazione. Proprio perché il tempo portava in sé, fin dall’origine, questa speranza, lo Shabbat ha potuto acquisire, nel vissuto del popolo ebraico, un posto predominante nel quadro dell’insieme dei precetti. I due motivi, natura e storia, si congiungono per fare di questo giorno di riposo, non un momento di inazione, ma un’occasione di ricerca di santità e di elevazione dell’anima.
Vale la pena di insistere su questa doppia accezione dello Shabbat perché essa integra il cosmologico nel dominio dell’umano, o, se si preferisce, la teoria alla pratica, e conferisce all’azione umana nella Storia un posto centrale.[6] Essa si concretizza mediante il lavoro durante i sei giorni[7] e mediante l’astensione da ogni intervento creatore durante il settimo,[8] affinché l’energia vitale possa rinnovarsi concentrandosi su un raccoglimento interiore, fonte di soddisfazione fisica e spirituale.[9] Quando il testo della Genesi afferma, molto letteralmente, che lo Shabbat viene a portare compimento l’opera creatrice dei sei giorni, si deve intendere non che esso si aggiunga alla natura, che ne costituisce la base insostituibile, ma che sia intrinseco ad essa. Esso completa l’ordine naturale, conferendo senso alla sua esistenza, e si situa all’interno di questa stessa realtà.
Attraverso l’osservanza dello Shabbat, il popolo ebraico afferma di voler conservare, per se stesso e per tutta l’umanità, questa dimensione metafisica indispensabile, che, lungi dall’essere superflua, condiziona la continuazione stessa dell’avventura umana come esistenza integrale. Tale osservanza corrisponde, infatti, a due esigenze fondamentali capaci di garantirne la continuità: resistere alla dimenticanza dell’origine e assicurare la libertà dell’uomo. Queste esigenze – dipendenti del resto l’una dall’altra e che di fatto ne costituiscono una sola – si scontrano oggi con l’ideologia dominante in Occidente per tutto ciò che riguarda l’autonomia del soggetto. L’affrancamento da ogni dimensione metafisica conduce alla distruzione di ogni trascendenza e di ogni senso, e mette in pericolo la conquista delle libertà che si proponeva di promuovere. Il rifiuto di avere altra origine che se stesso e la rivendicazione di un’immanenza assoluta conducono a una totale disgregazione, anzi a una dissoluzione della persona.
Questo atteggiamento è alla radice della crisi spirituale contemporanea: esso si fonda su una concezione molto discutibile dell’essere umano e di uno dei valori più insostituibili, quello del senso del limite. Esso richiede, in maniera urgente, una revisione di alcuni orientamenti che stanno alla base del pensiero moderno, allo scopo di sventare il suo nichilismo e di evitare che la mancanza del senso del limite, diffusa in forma generalizzata, non incrementi un’indifferenza e un’irresponsabilità nei confronti della dimensione sociale privandola della sua consistenza e conducendola alla dissoluzione.
Il messaggio essenziale dello Shabbat si basa proprio sulla nozione fondamentale del limite di cui esso ci insegna la positività, come preludio all’ingresso nella temporalità e a un’aspirazione verso un superamento, ciò che suppone coscienza della responsabilità e costanza nello sforzo. Questa esigenza ha come garante l’affermazione della libertà dell’uomo e anche della sua forma più elevata, idealmente infinita, che consiste nel saperla dominare. Anziché crogiolarsi nella sua libertà al punto di perdersi in essa, occorre che si presti orecchio a una voce che viene da altrove, una voce che la interpella e la colloca al suo autentico livello impegnandola in un fecondo dialogo.[10] È qui che interviene l’esperienza ontologica d’Israele e la profonda convinzione dell’esistenza ebraica, depositaria dell’eredità ebraica, di sentirsi chiamata fin dall’origine a custodire quell’eredità che consiste nel lottare contro la dimenticanza di ciò che costituisce la sorgente dell’essere. Lo Shabbat, in quanto memoriale dell’opera creatrice, è, settimanalmente, un ritorno verso questo tempo, e la sua osservanza, mediante l’astensione da ogni lavoro, una rivelazione del senso dell’esistenza di tutto il reale. Esso rivela così verità importanti sul mondo e sull’uomo, per richiamare a tutti il senso stesso di questo mondo e dell’esistenza dell’umanità.
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Al di là delle questioni di ordine filosofico o teologico, la decisione di redigere questo saggio ci è stata ispirata dal problema della sua attualità. A una visione esclusivamente economica, ossessionata dal soddisfacimento del bisogno e dal culto della crescita, era importante per noi opporre una visione metafisica, per nulla desueta, legata non alla mancanza, ma alla pienezza. Non vorremmo mostrare ciò che è essenziale nell’istituzione dello Shabbat, ciò che può permettere a un mondo disorientato di ritrovare il soffio di una vera vita, che non sia né un abbandono alla materialità, né evasione in un idealismo astratto. Così abbiamo concentrato la nostra riflessione sul significato della natura specifica dello Shabbat, il contenuto liturgico delle preghiere che ne ritmano la celebrazione, senza insistere tuttavia sulle numerose e minuziose norme pratiche, necessarie peraltro per apprezzarne il vissuto.
Ad ogni modo, non bisogna ridurre il significato dello Shabbat a queste norme. È in questa prospettiva che abbiamo scelto di soffermarmi soprattutto sui problemi fondamentali dell’uomo e della società moderna, che rivelano una tensione tra lo spirito occidentale e l’esistenza ebraica: i problemi del tempo e del lavoro, quelli del rapporto dell’individuo e della collettività, quelli del senso della procreazione nel rapporto tra le generazioni. In funzione di queste considerazioni, ho cercato di mettere in evidenza la natura singolare dello stile di esistenza che deriva dalla temporalità dello Shabbat, per le relazioni che si instaurano tra Dio che «porta a compimento» la creazione ritirandosi, e l’uomo chiamato pertanto ad assumere il compito di edificare una società in cui la Sua presenza dimori.
In questa prospettiva ci si scontra con la dimensione economica dell’esistenza e si comprende che la Torah collega immediatamente l’osservanza dello Shabbat a questa elementare realtà, a questa condizione primaria dell’esistenza. Essa introduce, mediante il lavoro e la rete di relazioni che esso comporta, un elemento di sicurezza e di autonomia la cui importanza non si può sottovalutare. Condizione primaria, ma non ultima, perché essa mantiene l’essere umano, malgrado l’apertura alla socialità a cui induce, nella sufficienza di un mondo chiuso su se stesso: un mondo in cui nessuna ispirazione può sorgere per interrompere lo scambio e il godimento continuo dei beni, lo scorrere monotono e insignificante del tempo, per non parlare delle gravi ineguaglianze e delle schiavitù che questa situazione genera.
Secondo l’insegnamento della Bibbia che noi abbiamo attualizzato nella nostra presentazione, la santificazione del settimo giorno da parte di Dio – orma della Sua presenza nell’universo creato – e l’accoglienza continuamente attiva di questa temporalità differente hanno proprio lo scopo di aprire questo mondo su un orizzonte di un altro ordine, quello della speranza di una liberazione progressiva dalle alienazioni di ogni ordine che gravano sulla condizione umana. Ecco perché il «riposo» sabbatico, che, ricordiamolo, non è un tempo vuoto, ma al contrario un momento di pienezza, eleva l’uomo a un livello di dignità che testimonia la sua autentica e nobile vocazione.
Lo Shabbat della fede non è certo quello della strada, ma quello della fede e della speranza resta il modello: trasformare questo sogno in una realtà facendone comprendere lo spirito. Anche se questa anticipazione del «mondo che viene» (עוֹלָם הַבָּא / ‘ôlam ha-ba) non è evidentemente sperimentata da tutti coloro che osservano lo Shabbat con la stessa intensità e la stessa evidenza, è in questa gioiosa e pura «luminosità dell’utopia» che splende, già oggi, la piena luce del senso dell’essere. La luce delle candele che segna l’ingresso dello Shabbat e la torcia intrecciata con cui si accompagna la sua uscita, sono un riflesso, nell’intimità della dimora, di questa luce che, nel primo giorno della Creazione del mondo, fu separata dalle tenebre e riservata per i Giusti che sapranno apprezzarne la verità e la dolcezza.
In un momento in cui l’esistenza stessa dell’uomo è messa in pericolo, questo messaggio universale, nello stesso tempo di speranza e di richiamo esigente, portato dal popolo giudaico, non potrebbe lasciare indifferenti tutti coloro che non rinunciano affatto e cercano, in questa situazione drammatica, di dare un senso alla loro vita. Possa questo piccolo libro contribuire a confermarli nella necessità di dedicarsi a questo compito di attenzione vigilante e di responsabilità, il più urgente di tutti, e di comprendere l’inestimabile valore di questo «istante di eternità» che è lo Shabbat, per la salvaguardia dell’umano nell’uomo.
Gerusalemme, 19 settembre 2014,
Vigilia dell’anno sabbatico (Shemitah) 5775
Il testo riprende in parte l’Introduzione al volume di Benjamin Gross, Un Momento di eternità. Il sabato nella tradizione ebraica, EDB, Bologna 2018, 208 pp., 19,50 euro.
[1] Il mese lunare è costituito da 29 giorni e mezzo circa.
[2] Nonostante lo spostamento da parte degli altri monoteismi del loro giorno di riposo alla domenica o al venerdì, il settimo giorno rimane per tutti lo Shabbat.
[3] I giorni sono denominati dal loro ordine nella settimana: primo giorno, secondo giorno, e così di seguito fino al settimo, chiamato Shabbat.
[4] La prima occorrenza del termine ‘santo’ nella Bibbia riguarda un «giorno», un tempo vuoto di ogni altro avvenimento che esso (se) stesso, come «segno» che il mondo è stato creato e non è il frutto né del caso né della necessità. Cfr. Moshe Ben Maimon [Rambam], La guida dei perplessi, a cura di M. Zonta (Classici del pensiero), UTET, Torino 2003, 2013, II, 31 e III, 43, e R. Yehûdah ha-Lewî, Il re dei Khàzari, Bollati Boringhieri, Torino 1960, 1991, I, 57; II, 50; III, 10.
[5] Lo storico greco Erodoto (IV secolo prima dell’era volgare) e lo storico romano Tacito, così come il filosofo romano Seneca (I secolo), deridono questo spreco di tempo. In generale, si constata una difficoltà a capire che per gli ebrei lo Shabbat non era un semplice rito o un simbolo, ma un principio essenziale di organizzazione della vita sociale e spirituale, collettiva e individuale.
[6] Ciò spiega l’insistenza nel testo dell’Esodo (31,16): «I figli d’Israele osserveranno lo shabbat per fare dello Shabbat per le loro generazioni un’alleanza eterna». I figli d’Israele sono esortati a fare lo Shabbat per le loro generazioni. ‘Fare’ lo Shabbat per dare al riposo un contenuto positivo, vitale. Si comprende questa necessità quando si riflette sulle parole molto conosciute di Pascal: «Niente è insopportabile all’uomo quanto di essere in un completo riposo, senza passioni, senza faccende, senza divertimento, senza un’occupazione. Avverte allora il proprio nulla, il proprio abbandono, la propria insufficienza, la propria dipendenza, il proprio vuoto» (B. Pascal, Pensieri, Introduzione, note e apparati di A. Bausola, Traduzione di A. Bausola – R. Tapella, Testo francese a fronte, Rusconi Libri, Milano 11993, 41997; Bompiani, Milano 2000, n. 201).
[7] Inteso come partecipazione alla continuità dell’opera creatrice.
[8] Inteso come scopo di quest’opera
[9] La cessazione del lavoro si presenta come una protesta contro la riduzione del tempo a un avere, secondo la formula pragmatica molto comune: Il Tempo è denaro. Essa ignora una presenza dell’essere nel tempo.
[10] Parallelamente, la proibizione del lavoro comporta quella di fare lavorare e annulla dunque, per questo giorno, il potere del padrone. Ristabilendo l’uguaglianza di tutti di fronte al Creatore, lo Shabbat incita all’umiltà, alla limitazione di ogni volontà di potenza, e lascia intravedere la possibilità, e dunque il dovere, di stabilire una vita sociale differente e più conforme all’ideale di giustizia.