Per rivelare la bellezza del volto di Dio, Gesù spesso raccontava storie. Alla cattedra del Tempio preferiva sempre la strada polverosa dove poteva incontrare i volti della gente e al rigore della dottrina preferiva la narrazione delle parabole. Aveva uno sguardo «poetico» Gesù, cioè capace di andare dentro alla realtà, per estrarne fuori la misteriosa bellezza di Dio e della vita umana.
Per questo – e non per una semplice abilità linguistica – era appassionato nel costruire parabole, offrendo immagini tratte dalla vita e scavando pozzi d’acqua fresca anche in mezzo ai deserti della vita. E quando poi si trattava di tradurre in gesti la compassione del Padre e la tenerezza del suo amore, allora egli si chinava sulle ferite dell’uomo, accarezzava i bambini, si lasciava toccare dagli impuri, allargava braccia ospitali verso i perduti, per guarire tutti con il tocco di un amore gentile. Senza opprimere mai, senza schiacciare mai, senza chiudere mai la strada possibile della speranza e della rinascita.
Vasi di creta
Papa Francesco ci riporta costantemente a questa umanità di Gesù e, in tutto il suo magistero, ne ha fatto il “luogo” in cui meglio si rivelano la misericordia, la compassione e la tenerezza di Dio. Uno stile di vicinanza che, con la sua carica profetica, il pontefice argentino raccomanda a tutta la Chiesa e, in particolare, ai pastori.
Al contempo, specialmente oggi, è proprio questo che ci si aspetta dal prete. Non un funzionario del sacro, un burocrate della legge religiosa o un maestro separato dalla vita, che sale sulla cattedra per scagliare pietre contro gli altri. Si vuole e si desidera il pastore mite e umile di cuore, che si fa compagno di strada, tenerezza di Dio, sguardo ospitale verso tutti, nessuno escluso.
Tutti si aspettano questo, talvolta però dimenticando che egli ha un tesoro in vasi di creta (cf. 2Cor 4,7). Che egli è uomo intriso di fragilità, di un’umanità che deve pur sempre fare i conti con la propria povertà, che spesso si smarrisce e deve ritrovarsi. E, allora, l’urgente interrogativo è questo: mentre tutti si aspettano tutto dal prete, chi pensa alla sua umanità, alla sua solitudine, ai suoi bisogni?
Don Mimmo Battaglia, oggi arcivescovo di Napoli dopo una vita sacerdotale spesa ai crocicchi delle strade, da questa domanda si lascia scavare perché la povertà di donne e uomini stritolati dalla solitudine, dalla dipendenza e dal dolore l’ha guardata negli occhi tante volte, l’ha ricevuta come pugno nello stomaco, l’ha accolta come perenne inquietudine che viene a sfidare la tentazione di un ministero comodo, l’ha accarezzata e insieme combattuta per rialzare chi era rimasto ai bordi della vita.
Di lui si può dire ciò che papa Francesco raccomanda a tutti noi: ha toccato la carne ferita dei poveri. E, perciò, come questo appassionato libro dimostra, non è indifferente ai bisogni, alle domande e al grido dei suoi preti; anzi, parlando dei discepoli e parlando ai preti, afferma:
«Vi confesso che è proprio questa umanità fragile e nello stesso tempo appassionata ciò che più mi affascina di questo gruppo di viandanti scanzonati… Ecco perché vi scrivo, perché in loro io vedo me e vedo ciascuno di voi. Vedo le nostre incertezze, le fragilità dei nostri percorsi, i tanti dubbi che spesso ci divorano fino a toglierci il sonno».
Viandanti
Da questa toccante premessa, don Mimmo inizia con lo stile che gli è proprio a chiamare per nome i preti a cui rivolge questa lettera; e dietro ogni nome c’è la storia di un uomo, di un viandante che avverte la stanchezza e che ha bisogno di refrigerio umano e spirituale.
C’è la storia di chi non riesce a «dare senso alle vicende di tutti i giorni» e a «vivere con entusiasmo la monotonia di giorni che sembrano somigliare l’uno all’altro»; ci sono lacrime discrete e dignitose per l’incomprensione di altri confratelli nel ministero, per l’invidia e la gelosia, per qualche chiacchiericcio di troppo; c’è la solitudine di chi vive e porta il Vangelo come «liberazione» dentro un contesto segnato dal male e dalla criminalità, dovendo sopportare la solitudine di sentirsi come «una mosca bianca» che quasi «deve sempre giustificarsi» davanti ai suoi confratelli.
Ma non solo storie di sofferenza, anche vissuti sacerdotali che si perdono nella nostalgia del passato e che si muovono secondo criteri che entrano in rotta di collisione col Vangelo, proprio come fu tante volte anche per gli Apostoli. E su tutto e per tutti, la parola di don Mimmo:
«Anche per questo vi scrivo, cari amici preti. Anzi, forse soprattutto per questo. Perché anch’io sento forte l’esigenza di fermarmi e di essere preso in disparte dal Maestro di Nazareth, per confidarmi, per confessare fragilità e sogni, ma anche per rinnovare insieme a voi il sogno di questa bella notizia che Lui ci ha messo fra le mani».
E, dentro le vicende raccontate con garbo e delicatezza, il testo fa emergere l’accompagnamento che il vescovo intende offrire e, al contempo, la sua pacata ma ferma profezia che denuncia i mali della vita del prete: il demone dell’individualismo, la paura del confronto, l’immobilismo dinanzi alle provocazioni di un mondo in fermento, il non lasciarci toccare dalle ferite di chi soffre, le agende pastorali che prendono il posto delle relazioni umane, l’anestesia della coscienza che ci rende soldatini obbedienti all’esterno, pronti a lamentarci e criticare dietro alle spalle.
Don Mimmo non vuole regalare ricette facili, ma invitare i preti a «tornare alla sorgente», ad andare nuovamente in disparte per imparare tutto e di nuovo da Gesù, per fare nostra la sua passione per la fragilità scoprendo che proprio di essa Dio si serve per renderci più umani e più capaci di annunciare il Vangelo.
Benedizione
In questo tono confidenziale, il testo propone un gesto di benedizione che il vescovo Mimmo desidera offrire ai suoi preti. Anche qui, non c’è una fredda teoria, ma i nomi e le storie concrete di tanti preti che ha incontrato e di cui adesso vorrebbe benedire la storia, la giovinezza, la fragilità, la tenacia, la perseveranza nascosta dentro una faticosa routine o la rabbia per tante delusioni ed esperienze negative. Perché don Mimmo di questo è sicuro: che un vescovo, come fratello e come padre, debba anzitutto benedire le fatiche di ciascuno che, insieme, fanno la bellezza della Chiesa.
Il libro che avete tra le mani è scritto con la carne e con il sangue. Trasuda l’esperienza di un prete innamorato di Cristo, che oggi il Signore ha chiamato all’episcopato e che non ha perduto la capacità di stupirsi e di commuoversi. Parla di storie vissute, di preti fragili e umani e non di «santini» con il volto angelico.
Soprattutto parla a loro, ai preti: perché pur dentro cadute e fallimenti non perdano il coraggio di ritornare sempre alla sorgente e la gioia di abbracciare nuovamente il Vangelo. E perché il Signore, come scriveva l’amato e rimpianto vescovo Tonino Bello, gonfi sempre il cuore dei suoi preti di passione, riempia di amicizie discrete la loro solitudine, li conforti con la gratitudine della gente e con l’olio della comunione fraterna, li ristori da ogni stanchezza. E, soprattutto, li liberi da ogni paura.
Francesco Cosentino, presbitero calabrese, è docente di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. Riprendiamo la sua Prefazione al volume di Domenico Battaglia, Torniamo alle sorgenti. Scrivo a voi amici preti, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2022, 112 pp., 10,00 €.