E dall’invocazione stupita del salmista che chiede all’Onnipotente: «Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal 8,5) sino ai penetranti versi del prigioniero Dietrich Bonhoeffer: «Chi sono io? Spesso mi dice questo o quello/ che dalla cella in cui sono tenuto/ esco disteso, lieto e risoluto/ com’esce un signore dal suo castello./ Chi sono? (…)/ Sono io veramente ciò che gli altri dicono di me?/ O sono soltanto ciò che io stesso conosco di me? (…)/ Chi sono? Questo sono o sono quello?/ Sono oggi uno, domani un altro?/ Sono io l’un l’altro insieme? (…)/ Chi sono? Por domande così da soli è a scherno mio./ Chiunque io sia, tu mi conosci, tuo io sono, o Dio!» – la ricerca di una risposta alla domanda «chi è l’uomo?» è stata al centro della speculazione umana, filosofica, teologica e al cuore delle infinite espressioni dell’arte. Quella risposta, infatti, non è cercata per un mero fine intellettuale, per mettere a posto un problema tra tanti: quella risposta è desiderata perché da essa dipende l’orientamento che si dona alla propria esistenza, il valore che si riconosce o meno alla relazione con gli altri e con il mondo che ci circonda, il sentimento con il quale ci volgiamo a considerare le potenzialità ed i limiti di cui è impastata la nostra vita. E questo vale per ieri come vale per oggi.
Anche nel nostro tempo, infatti, dietro scelte differentissime intorno ad un medesimo tema, a sostegno di tesi assolutamente inconciliabili su aspetti del vivere e del morire si possono trovare diverse «antropologie», cioè diverse risposte all’interrogativo che ci ricorda che l’uomo è un grande mistero. D’altro canto la verità dell’uomo, della sua autentica identità, «è una verità non semplicemente da comunicare, ma anche da vivere».
Queste ultime parole appartengono al vescovo Nunzio Galantino, attuale segretario generale della Conferenza episcopale italiana. Il suo è un volto molto noto soprattutto per le sue nette prese di posizione pubblica in merito ai temi della giustizia e della necessaria solidarietà verso le persone più svantaggiate dai sistemi politici ed economici attuali. È pure nota la sua particolare vicinanza di stile e di orientamento ecclesiale e pastorale a papa Francesco, che non a caso lo ha chiamato dalla terra di Calabria, dove da poco tempo monsignor Nunzio Galantino aveva iniziato il suo ministero episcopale, a ricoprire appunto l’attuale importante compito di segretario generale della CEI.
Se tutto questo è noto e non solo nella cerchia del mondo cattolico, meno noto è l’altra parte della storia del vescovo Galantino. Ci riferiamo alla sua lunga carriera di docente di antropologia filosofica e alla sua feconda opera di scrittore di dense e profonde opere proprio in merito a quel grande e affascinante mistero che da sempre l’uomo è a se stesso.
A gettare luce su questo aspetto della storia di vita dell’attuale Segretario Generale della Cei ci pensa ora un bel saggio a firma del sacerdote calabrese Pietro Groccia. Si tratta di un testo lungamente preparato, scorrevole nella lettura, chiaro nell’impostazione e dotato di un apparato bibliografico imponente.
Nell’Introduzione, dopo aver ricordato le provocazioni teoretiche ed etiche della cultura contemporanea alla riflessione dedicata all’uomo, Groccia presenta il piano del suo saggio con le seguenti parole: «Nel primo capitolo saranno esaminate le caratteristiche peculiari dei riduzionismi antropologici tra modernità e postmodernità; nel secondo prenderemo in esame l’antropologia fenomenologica-personalistica di Nunzio Galantino; nel terzo considereremo la “storicità, l’incarnazione – corpo e corporeità – e vocazione”, che il nostro chiama dimensioni/costanti filosofiche dell’universo personale; nel quarto sarà la sfida educativa orientata ad un nuovo progetto di persona a focalizzare l’interesse della nostra ricerca».
Non essendo certo qui possibile una presentazione sistematica dell’intero saggio di Groccia, abbiamo scelto di segnalare alcuni punti particolarmente significativi proprio per conoscere più da vicino lo sfondo culturale che anima ancora oggi l’azione pastorale del vescovo Galantino.
Partiamo dalle matrici filosofiche della sua antropologia personalistica. Groccia ne individua ben tre: «In primis la storicità come fedeltà alla terra e al vissuto, che si ispira alla filosofia di Bonhoeffer (…); poi il pensiero personalista, che risente dell’influsso di Mounier, Buber, Lévinas, Maritain e Guardini». Una terza matrice è poi individuata nella vicinanza di Galantino a Rosmini: «Io non so ipotizzare – scrive sempre Groccia – come Galantino si sia avvicinato a Rosmini, divenendone uno dei più accreditati interpreti contemporanei, posso solo supporre che sia stato l’interesse per la persona rinvenuto in Bonhoeffer, probabilmente, a farlo guardare retroattivamente al patrimonio esistenzialistico-personalistico-intellettualistico del filosofo roveretano. In effetti, guardare a Rosmini ha significato per il nostro ritrovare la traccia di un’argomentazione declinata come espressione dell’integrità della persona. Il tutto del suo pensiero, infatti, è che l’individuo è persona».
Il secondo punto che vorremmo segnalare è la priorità che la categoria di relazione possiede per Galantino nello sforzo teoretico di pensare l’uomo, cioè di andare fino in fondo a coglierne l’identità. Ricostruisce Groccia così questo dato: «Galantino tratteggia, così, un progetto relazionale dove l’esistenza dell’altro, il suo esistere, il suo “essere vicino a me”, sarà il nuovo della filosofia antropologica. Perciò, ogni forma di ripiegamento su sé stessi è, per il nostro, contraria alla dimensione personale. Ciò equivale a dire che partecipare all’umanità dell’altro uomo significa considerare l’uomo-persona come una relazione di relazioni, nel senso che l’ontologia dell’umano è sempre un’ontologia relazionale. Infatti, non c’è antropologia originale né opportunità di effettiva realizzazione umana, se non dove sia riconquistata la pienezza del rapporto con altri (…). L’uomo, quindi, è colui che costitutivamente si trascende per incontrare l’altro, che, dunque, partecipa all’essere altrui senza annientarlo, in una relazione che Galantino, riecheggiando Buber, non esiterebbe a chiamare agapica».
Il terzo ed ultimo elemento che vorremmo richiamare all’attenzione del lettore riguarda la stretta correlazione che, come Groccia approfonditamente coglie ed evidenza, esiste per Galantino tra prassi educativa e antropologia, ovvero di come sia oggi recuperare proprio sul terreno assai sfidato della cura concreta delle nuove generazioni una concezione unitaria della persona. Commenta ed esplicita Groccia: «solo ciò che è persona è veramente educabile, solo ciò che è educabile è veramente persona. Potrebbe sembrare un gioco di parole, ma non lo è, perché un educatore si mostrerà all’altezza del suo ruolo nella misura in cui si mostra in grado di credere costantemente anella possibilità dell’educando di diventare a sua volta persona-relazione. In tale esperienza la relazione esprime l’inter-esse che sorge tra l’educatore e l’educando nelle forme di un incontro teso a ricomporre la presenza dell’altro in una dialettica vivente di interpretazioni, significati e sensi che configurano l’avventura educativa verso il progressivo rappresentarsi e costituirsi di un’identità».
Ci sembra di poter affermare che già questi brevi spunti possano sollecitare la lettura di questo saggio dedicato all’antropologia personalistica di Nunzio Galantino; un saggio poi arricchito dalla Presentazione di Giorgio Campanini, dalla Prefazione di mons. Francesco Savino e dalla Postfazione di Gennaro Cicchese.
La recensione di Armando Matteo al volume di Pietro Groccia, L’antropologia personalistica di Nunzio Galantino, Cantagalli, Siena 2017, che qui anticipiamo sarà pubblicata sul primo numero del 2018 della rivista della USMI nazionale Consacrazione e Servizio (1/2018).