Il docente di teologia fondamentale all’Urbaniana struttura il suo saggio in tre capitoli. Nel primo si sofferma sul mestiere del teologo, mentre nel secondo ricostruisce il percorso filosofico-teologico di Elmar Salmann, alla cui scuola Matteo si è messo da più di vent’anni. L’autore afferma di aver ricevuto da lui un’eredità di metodo (una teologia dialettico-paradossale) e di contenuto (una teologia della vita). Nel terzo capitolo Matteo analizza la modalità di dire Dio nella postmodernità. Nella nostra segnalazione ci soffermeremo sul primo e sul terzo capitolo.
Il mestiere di teologo
Il mestiere del teologo è quello di costruire ponti fra Dio e il suo messaggio rivelato e la storia contemporanea, con la sua umanità concreta. Dio si rivela in continuazione, ma il credente deve essere attento anche al fatto che l’umanità di oggi gli rivela anch’essa qualcosa e di essa deve mettersi in ascolto.
Il Dio dei cristiani è soprattutto un Dio trinitario, di amore disinteressato, pacifico e pacificante, liberante, accogliente e datore di vita. Il credente deve riconquistare in ogni generazione il NT, rifacendosi alla figura di Gesù per avere l’orientamento giusto con cui rapportarsi all’uomo di oggi, con un linguaggio «caldo» e accogliente.
L’uomo contemporaneo è l’uomo «democratico», autosufficiente, per il quale non c’è nessun Dio al di sopra di lui, né alcun inferno sotto di lui. Crede di possedere una libertà totale, perché pura autodeterminazione. È forte della potenza della tecnica, della possibilità di esser sempre connessi col mondo intero ecc.
L’uomo d’oggi è molto attento al libertà, alla corporeità. Domina la sensibilità, l’emozione, la differenza, il divenire, l’istante. Occorre onorare tale libertà, ma anche sottrarre l’inconscio al sequestro fatto da Freud, per considerarlo non una pura sentina di pulsioni, ma «preconscio pneumatico» (Salmann), premessa promettente della riuscita della nostra esistenza. «Ci fa sperare, ideare, promettere, concepire, collaborare, ci rende ingegnosi, geniali e ingenui» (Salmann, citato a p. 58).
L’uomo moderno sembra prigioniero della sua libertà, senza scopo nel cammino, senza criteri secondo cui esercitare il proprio libero arbitrio assoluto. Ma come essere più forte della propria potenza basata sull’oppressione e sull’esclusione, più libero della propria libertà inquietante perché non rapportata a niente di solido, di non-precario?
La teologia oggi è stata esclusa dalle categorie culturali, oltre alla scristianizzazione si assiste alla derealizzazione dell’umano e alla «deculturazione» delle categorie filosofiche tradizionali di riferimento. Per Matteo – a differenza del più positivo Salmann – esiste oggi una reale estraneità della fede alla cultura contemporanea. Come rendere desiderabile la fede cristiana in questo contesto? Ci si rende conto che credere è pregare e pregare è credere, e la pienezza della libertà vera è grazia, che permette di vivere pacificati e pacificanti, sotto lo sguardo benedicente di Dio.
Dire Dio nel postmoderno
Nel terzo capitolo Matteo ripercorre ulteriormente il cammino e la fisionomia dell’uomo moderno e della possibilità di dire Dio oggi.
Per l’uomo moderno Dio è scomparso, emerge il fascino della soggettività, nasce l’epoca della tecnica che illude sul poter fare tutto quello che è tecnicamente fattibile, diventando il senso del mondo. Tutti sono uguali e hanno di diritto di prendere la parola. La fantasia è al potere ed è vietato vietare. Si è persa la fiducia nella forza delle strutture politiche, emerge il «cittadino privato», sempre interconnesso tramite il web. Uomo senza trascendenza e senza trascendenze, sente «il diritto di avere diritti» (S. Rodotà), prima ancora che obblighi.
L’«ecumenismo delle minoranze» mette tutte le idee sullo stesso piano di dignità, non c’è più la «natura» ed è importante acciuffare al volo l’occasione per una propria realizzazione maggiore.
L’uomo democratico è «precario», sempre in formazione permanente, «adolescenti permanenti» che non raggiungono mai l’età dell’adulto, dell’essere maestro, della libertà oggettiva… che richiede un gesto di autodimenticanza (cf. Salmann, p. 171). L’uomo vitalista, senza morale, edonista, post-politico è senz’anima, senza più lo spazio interiore in cui trattenere ciò che è più sacro. È l’«impero della vita privata comune» (G. Mazzoni), il «Luna Park collettivo» (H. Kohl) con vantaggi dai quali non si vuol retrocedere.
Ma c’è anche, inatteso, il ritorno di Dio. Vago, nebuloso, incerto e incongruente, esso spinge per un’uscita dalla bolla d’aria in cui l’uomo democratico vive, per trovare aria fresca, la realizzazione pacifica della propria esistenza in sintonia con altri, con la pace interiore.
Qui si può innestare l’annuncio del Dio mite del Nuovo Testamento, testimoniato e vissuto da Gesù, con il suo sguardo accogliente e il suo comportamento mite, non arrogante o impositivo.
La mitezza è una vita «debole» ma non imbelle o equiparabile all’essere remissivi. Essa «lascia essere l’altro quello che è», senza arroganza e abuso di potenza.
Annunciare un Dio di mitezza e di accoglienza, come è il Dio trinitario del Nuovo Testamento, testimoniato dalla vita, dallo sguardo e dal cuore di Gesù può cogliere nel segno il desiderio profondo di vera umanità che l’uomo democratico, secolare, cerca, anche involontariamente.
Se la Chiesa, nella sua liturgia, e la teologia, nel suo pensare anche autonomo dal puro supporto al magistero e ai corsi curriculari seminaristici, sapranno far percepire e far vivere “la festa” (domenicale soprattutto), avranno raggiunto il loro compito di costruire ponti fra la fede (desiderabile) nel Dio cristiano e l’uomo contemporaneo, l’uomo «democratico» di oggi, con la sua sensibilità da cogliere, accogliere, contaminare col vangelo della festa.
La ricca bibliografia (pp. 235-242) permette di approfondire tale questione fondamentale per la fede cristiana odierna e la sua trasmissione (molto impegnativa) alle prossime generazioni.
Armando Matteo, Il Dio mite. Una teologia per il nostro tempo, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2017, pp. 256, € 22,00.