Arrestato per la sua attività di resistenza al nazismo e per aver creato una rete di ospitalità agli ebrei fuggiaschi, il gesuita francese Jacques Sommet ricostruisce, in due testi scritti subito dopo la guerra, gli anni trascorsi nel campo di concentramento di Dachau, aperto dai nazisti nel 1933 e servito da modello per tutti i successivi. I due testi – inediti in italiano – sono stati recentemente tradotti e pubblicati dalle Edizioni Dehoniane Bologna con il titolo: La condizione disumana. Un gesuita a Dachau. Riprendiamo un passaggio dal primo dei due articoli, La condition inhumaine. Le champ de Dachau, apparso inizialmente sulla rivista Études nel luglio del 1945.
Che cosa contrapporre a questo mistero di iniquità? Anche riguardo a questo il campo illumina con una luce sperimentale i problemi nei quali la riflessione troppo spesso si perde.
Infatti, nello stesso luogo nel quale tutto era orientato verso la morte del corpo e dell’anima, una forza ha vinto. La carità ha trionfato, anzitutto riconfortando i corpi, ma soprattutto rianimando i cuori.
Ora bisogna parlare di coloro che furono i testimoni dello spirito; solo loro ci insegneranno come evitare che tutto questo mondo diventi un campo della morte lenta.
Fra questi testimoni, ricordiamo anzitutto quelli legati ai valori intellettuali da una solida cultura. Così si sono conservati piccoli gruppi attraverso il gusto delle arti e delle lettere. Alcuni, grazie ai posti assicurati loro dalla conoscenza delle lingue, hanno evitato a molti francesi spedizioni e disavventure o, attraverso un coraggioso lavoro clandestino, hanno raccolto documenti di grande valore. Notiamo ancora tutti coloro che da un’educazione comune – fosse essa frutto di un grande partito, apostolo della solidarietà, o di tradizioni familiari e culturali di rispetto e sensibilità – erano indotti a sostenersi vicendevolmente con coraggio.
Ma come non esprimere, al riguardo, una pesante riserva? Molti di loro non hanno saputo oltrepassare il quadro della loro solidarietà o delle loro relazioni tradizionali, limitando la totale dedizione ad alcuni, e questo non solo di fatto, ma anche per principio: di qui un’opposizione di questi uomini, più o meno coscienti, a tutti gli sconosciuti, gli umiliati, ancor più che alla categoria sociale avversa di cui si tiene conto per saggezza politica. Un triste spettacolo quello di uomini generosi che collaborano in questo modo alla condizione disumana. Avendo limitato il loro amore, essi diffondono, al di là dei suoi confini, odio e crudeltà.
Ma, dietro le ombre, ecco finalmente comparire la luce. Nel campo c’erano anche uomini, laici o religiosi, di sinistra o di destra, che, nel giorno della prova, avendo accettato già da molto tempo la morte, hanno soccorso i loro fratelli dimenticati. Vivendo in qualche modo nell’assoluto, realizzando in loro stessi il valore eterno e sempre presente della persona umana che si voleva abbattere, si sono impegnati a risuscitarla negli altri. Penso ai militanti che hanno rischiato la vita per assicurare ai compagni un kommando migliore; penso a quel padre di sette figli che offriva il suo aiuto senza secondi fini e persino il suo pane senza distinzione di persone.
La loro folla si accalca nella mia memoria: giovani preti, operai, volontari in Germania, che venivano arrestati e riprendevano nel campo il loro pericoloso lavoro. Attraverso di loro una rete eucaristica, invincibile, raggiunse tutte le baracche: così, ogni mattina, Gesù Cristo penetrava ovunque, anche in quell’infermeria nella quale i preti non potevano entrare. Vedo anche i ragazzi e i seminaristi che, nei giorni della liberazione, scelsero di restare con i più malati e sofferenti per aiutarli a morire lì, strappandoli dalle unghie della disperazione.
Rivedo ancora i dodici medici francesi morti di tifo, i venti preti che si chiusero volontariamente nei blocchi dei contagiati. Penso a lei, padre Dillard[1] e alle sue parole: «Offro la mia vita per la Francia e per la classe operaia».
E come dimenticare, infine, la luce che, quasi sempre, illuminò un’ultima volta lo sguardo di coloro che sono morti! Tutti o quasi hanno accettato la morte, immaginando che finalmente toccavano il mondo nel quale gli uomini sanno amarsi. Speranza che resta la loro maggiore vittoria sul principio che li uccideva.
Oggi conviene quindi ascoltare il messaggio dei morti e di coloro che hanno sofferto per salvarli. I morti restano là per non aver conosciuto gli sguardi che si devono a ogni uomo, anche vinto. I vivi hanno sollevato i disperati prodigando loro questo rispetto dimenticato…
Vittime o avversari del disprezzo dell’uomo, gli uni e gli altri ci implorano di non comportarci più con nessuno senza rispettarlo e amarlo, e soprattutto quando occorre esercitare la giustizia. Non vendicheremo quindi gli scomparsi con l’odio di un Paese o con l’apoteosi del loro sacrificio a vantaggio del loro partito o della loro chiesa, ma anzitutto con l’odio verso tutto ciò che in noi imiterebbe o ricorderebbe i metodi che li hanno uccisi.
Possiamo noi conservare davanti agli occhi questo sguardo della loro ultima ora o, all’occorrenza, il triste spettacolo dei loro cadaveri, per ricordarci la loro lezione! No, non può più essere permesso, sotto pena di ucciderli nuovamente in noi, usare gli uomini unicamente per un fine temporale. No, non è più permesso, sotto pena di disprezzarli con l’oblio, restare inattivi quando il rispetto della persona è minacciato. Machiavellismo e inerzia sono le due tentazioni del nostro tempo che bisogna superare con la fedeltà alla loro invisibile presenza.
Possano essi ottenerci con il loro sacrificio e con il loro ricordo il coraggio di Colui che detiene il segreto della fedeltà all’Uomo!
[1] Victor Dillard (1897-12 gennaio 1945), gesuita francese, economista, legato all’Action populaire. Si iscrisse allo STO (Service du Travail Obbligatoire – Servizio di lavoro obbligatorio) come elettricista per organizzare un cappellanato clandestino in Germania. Arrestato nel novembre del 1944 a Wuppertal, venne subito deportato a Dachau (nde).
Baracche 26, 28 e 30. Questi i numeri assegnati a tre delle 30 baracche di prigionieri a Dachau. Si tratta di baracche “speciali”, destinate a sacerdoti e religiosi che, per diversi motivi (opposizione ai programmi di eutanasia, partecipazione alla resistenza…), i nazisti hanno imprigionato, accanto agli altri, nel famigerato campo di concentramento. Non mancano gli episodi di eroismo, come quello dei 18 religiosi che, in una gara di abnegazione, si offrono volontari per assistere i malati di tifo esantematico, abbandonati nelle baracche sottoposte a isolamento. Qui si dipinge vividamente la vita “quotidiana” dei preti a Dachau, da cui fa emergere singole persone ed episodi. Una vita fatta, come per gli altri, di duro lavoro, di fame, di morte, di malattie (soprattutto il tifo), di vessazioni, di espedienti per la sopravvivenza. Particolarmente odiosa è l’avversione anticristiana che si riversa sui preti, a causa del loro particolare stato. Tra gli episodi più violenti, si ricorda la “settimana santa” del 1942: in seguito alla scoperta di una somma di 720 dollari tra gli effetti personali di don Stanisław Wierzbowski, tutti i preti (con l’eccezione di quelli tedeschi) vengono costretti a marce ininterrotte da mattina a sera, proprio durante la settimana santa. Ma la parte forse più originale del libro di Zeller sta nelle riflessioni della terza parte. Vi si racconta della “lotta” dei preti per mantenere una vita spirituale (solo dopo una trattativa del Vaticano i religiosi riescono a ottenere una cappella) e vivere in mezzo agli altri detenuti il loro sacerdozio (è vietato confessare e amministrare i sacramenti, ci si “organizza” clandestinamente, a proprio rischio e pericolo). Un episodio eccezionale poi è l’ordinazione sacerdotale (segreta) del giovane Karl Leisner, possibile grazie alla presenza di un vescovo, monsignor Piguet, tra i detenuti. Infine, mi chiedo dov’era nostro signore? Dopo la lettura di questo libro disumano sono più convinta che mai che lui (DIO) usi due pesi e due misure diverse.