Uno zibaldone pop-teologico

di:

pop theology

Quando si dice zibaldone si pensa immediatamente al diario personale (Zibaldone di pensieri) nel quale Giacomo Leopardi raccolse una grande quantità di appunti, riflessioni, pensieri sui più disparati argomenti, ricordi e aforismi scritti per lo più senza un filo logico tra il luglio/agosto 1817 e il dicembre 1832 per un totale di 4.526 pagine. Zibaldone della Pop-Theology. Teologia dell’immaginazione per comunicare la sapienza della fede è un corposo e magistralmente strutturato volume di oltre mille pagine appena uscito in coedizione Mimesis & Santocono.

Ne è autore Antonio Staglianò, già vescovo di Noto, presidente della Pontificia Accademia di Teologia e teologo «con alle spalle una lunga e ricca carriera accademica e notevoli pubblicazioni di carattere scientifico», da tempo impegnato teologicamente e pastoralmente a «smascherare il pericolo di una religiosità ipocrita e formale, che svuota la fede cristiana del suo contenuto vitale e perciò non riesce più ad appassionare e attirare alla scoperta del Vangelo»[1] e a stigmatizzare il cattolicesimo convenzionale, vera e propria «alienazione religiosa» e «eresia ultima»: «dove si prega, ma non si opera la carità, dove s’invoca Dio e non si obbedisce al suo comandamento dell’amore, dove si chiede misericordia e non si perdona».[2]

Considerate la corposità e l’eterogeneità dei contenuti, il volume non si presta ad una lettura fatta tutta d’un fiato dall’inizio alla fine, ma va centellinato a piccoli sorsi pagina dopo pagina, senza privarsi della libertà di passare da una parte all’altra, tralasciando o rileggendo interi capitoli.

Sull’utilità pastorale della Pop-Theology

Suddivisi in due parti e già editati negli anni scorsi dalle Grafiche Santocono di Rosolini (SR) nella collana “Teologia per tutti”, i 21 capitoli del volume, da un lato, spiegano che cos’è, come si fa e a cosa serve la pop-Theology (capitoli 1-11 della prima parte), dall’altro, offrono un percorso pop-teologico su alcuni temi trattati nel magistero episcopale dell’autore (capitoli 1-10 della seconda parte).

copertina

I testi proposti nel volume vanno nella direzione di immaginare una teologia nuova che sappia parlare il linguaggio di tutti e che di tutti si faccia interprete. «Umile ancella di tutti i saperi, ritrovi così la sua posizione di regina di tutte le scienze, senza vantare privilegi di sorta o cercare monopoli, ma pretendendo con tutta umiltà di far riascoltare la sua nuova voce nel dibattito pubblico, perché la questione di Dio riguarda il futuro felice dell’umanità e perciò con la teologia ne va dell’umano dell’uomo e del suo destino nell’amore e nella pace».[3]

Coraggiosa la scelta del presidente della Pontificia Accademia di Teologia di affiancare alla parola “teologia” un prefisso come “pop”,[4] «anche a costo di sorrisetti ironici o di maldestri giudizi di frivolezza».[5]

In realtà l’aggettivo popolare è assolutamente appropriato se applicato ad una teologia che sia effettivamente di aiuto al popolo per maturare una fede adulta e vera, corrispondente alla rivelazione del Dio di Gesù Cristo solo e sempre amore.

«La pop-Theology è teologia popolare perché ha nel popolo il suo interlocutore diretto, rispettando il grado di differenziazione della coscienza e i livelli di maturità intellettuale di chiunque e non perché voglia promuovere una teologia ridotta o banalizzata o impoverita. Il linguaggio popolare sarà divulgativo, ma mai riduttivo».[6]

L’utilità pastorale della pop-Theology è bene esplicitata in un passaggio del videomessaggio inviato da papa Francesco all’inizio di settembre 2015 alla Pontificia Università Cattolica Argentina: «Le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a porci domande, i suoi interrogativi ci interrogano. Tutto ciò ci aiuta ad approfondire il mistero della Parola di Dio, Parola che esige e chiede che si dialoghi, che si entri in comunione. Non possiamo quindi ignorare la nostra gente al momento di fare teologia».[7]

Avendo avuto la fortuna di incontrare e conoscere di persona don Tonino (come il vescovo Antonio Staglianò ama farsi chiamare) nel contesto di una recente giornata di riflessione sull’essere cristiani oggi, personalmente guardo con grande interesse ai contenuti del volume. Mi propongo, in questa sede, di evidenziarne cinque che mi paiono di particolare interesse.

La fede è adulta anche perché è pensata

Le comunità cristiane vanno coraggiosamente aiutate a «maturare una fede adulta e pensata, capace di tenere insieme i vari aspetti della vita facendo unità di tutto in Cristo. [Perché] solo così i cristiani saranno capaci di vivere nel quotidiano, nel feriale – fatto di famiglia, lavoro, studio, tempo libero – la sequela del Signore, fino a rendere conto della speranza che li abita (cf. 1Pt 3,15)».

Lo scrivevano nel 2001 i vescovi italiani negli Orientamenti pastorali per il primo decennio del 2000.[8] Lo ricorda Antonio Staglianò a pagina 499 del suo zibaldone pop-teologico.

Pur nella consapevolezza che la fede cattolica è fede che opera attraverso la carità, altrimenti è fede morta (cf. Gc 2,26), va dato giusto rilievo all’adagio agostiniano secondo il quale fides nisi cogitatur nulla est. Che letteralmente significa la fede che non si pensa è nulla, ma che potrebbe essere tradotto così: la fede è adulta anche perché è pensata.[9]

Tutti, nel popolo di Dio, «hanno diritto a essere sollecitati a pensare, perché il pensare non è movimento astratto dell’intelligenza, ma piuttosto passione infuocata del cuore»,[10] che – come scrive papa Francesco nell’ enciclica Dilexit nos – è il luogo dove ogni persona, di qualsiasi categoria e condizione, fa la sua sintesi, avendo in esso la fonte e la radice di tutte le altre forze, convinzioni, passioni, scelte.[11]

La catechesi non basta più

«Una teologia che voglia essere popolare, deve esserlo non soltanto perché il popolo di Dio è soggetto della teologia, ma soprattutto perché si rivolge al popolo di Dio per animare un annuncio nuovo del Vangelo. La catechesi non basta più. Occorre un discorso teologico popolare e credibile sulle questioni più importanti e drammatiche dell’esistenza umana»[12] non solo per mettere definitivamente alla porta tante immagini impresentabili di Dio che sono all’origine di non poche forme di ateismo, ma soprattutto per «cominciare finalmente a credere nel Dio di Gesù Cristo», come ha scritto Francesco Cosentino nel suo bel libro Non è quel che credi. Liberarsi dalle false immagini di Dio (EDB, Bologna 2019).[13]

«C’è bisogno di teologia diffusa, di teologia popolare, perché nelle nostre comunità si sviluppi la necessaria profezia e denuncia di tutto ciò che, pur non essendo di Dio, viene attribuito a lui per nostro piacimento o perché così possiamo comportarci come vogliamo e non come vuole Dio».[14]

La “pop-Theology” si auto-comprende come teologia in uscita,[15] che esce appunto dal cerchio elitario della pura accademia – «che ha chiuso i teologi nelle torri d’avorio delle proprie elevate e astratte speculazioni teoriche»[16] – per intercettare la vita degli uomini e delle donne di oggi. Se non ha davanti a sé la gente, le persone concrete e in situazione, la teologia rischia di trasformarsi in ideologia.

Svecchiare la predicazione cristiana

Si direbbe che il progetto pop-teologico di Antonio Staglianò vada anche a cogliere un auspicio del teologo della Repubblica Ceca Tomáš Halík, il quale afferma che «Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulle nostre bocche e sui nostri stendardi. Queste parole, a causa di un uso continuo, spesso troppo superficiale, si sono consumate, usurate, hanno perso il loro significato e il loro peso, si sono svuotate […]. Altre invece sono sovraccariche, rigide e arrugginite; sono diventate troppo pesanti per riuscire ad esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella».[17]

Per don Tonino «predicare è un dovere, ma il dovere è predicare il Vangelo di Gesù e del suo Dio-agape, amore e non altri vangeli che nel frattempo – per le nostre fatiche a comunicare o per le distorsioni sempre risorgenti nelle vicende umane – hanno snaturato, fino a renderlo irriconoscibile, se non quando anche detestabile il volto del Padre del Signore nostro Gesù Cristo che dona lo Spirito».[18] E cita Piero Gheddo: «La Chiesa dà spesso l’idea di predicare verità staccate dalla vita […]. Le nostre prediche sono vecchie […]. La comunicazione moderna stimola vibrazioni, passa attraverso la commozione del cuore per giungere all’adesione dell’intelletto. Noi diamo più attenzione al fatto intellettuale che a quello esistenziale. Il punto di partenza dev’essere l’uomo, non la dottrina. L’annuncio consiste nel far incontrare l’uomo con Cristo in modo esistenziale».[19]

Conformarsi all’umanità di Cristo

Molto bello il capitolo 3 della Seconda parte dello Zibaldone intitolato Sarx. Credere nell’umanità di Gesù per accogliere la novità radicale dell’incarnazione.[20] Ne estraggo solo una “perla”. «È oggi necessaria una nuova santa alleanza tra tutti gli esseri umani pensanti (credenti o no) per resistere al degrado umano delle società dell’ipermercato, delle società liquide. La Chiesa cattolica e il cristianesimo devono osare di più e avere più coraggio per proporre con intelligenza e umiltà la visione antropologica del vangelo di Gesù. Perché se Gesù salva, – perché è il Salvatore – salva proprio nell’umanità ferita e mercificata degli uomini di oggi. Nelle attuali condizioni di paura dell’umanità odierna, colpita ogni giorno dalla barbarie del terrorismo internazionale che si maschera di religione fondamentalista è tanto più necessario presentare con intelligenza e umiltà il modello umano di Gesù, la sua umanità ricca di amore e di pace, di tolleranza e di dedizione, di fiducia e di rilancio delle energie positive, belle e buone, di ogni essere umano».[21]

Nel fare riferimento alla lettera Placuit Deo, su alcuni aspetti della salvezza cristiana, indirizzata il 22 febbraio 2018 ai vescovi dalla Congregazione per la dottrina della fede, l’autore scrive che «La salvezza è quella che Gesù di Nazareth è venuto a portarci, mostrandoci il nuovo volto di Dio, sempre e solo amore, attraverso la sua morte-risurrezione e la sua vita tutta donata, in quest’amore, ai fratelli: perché tutti gli uomini siano salvi in Cristo, secondo la volontà salvifica universale del Padre.

Con l’Incarnazione Egli assume la nostra umanità (= è il Salvatore della nostra umanità, non di altro) e la vive in assoluta pienezza e perfezione (= è la salvezza della nostra umanità per questa via, non per un’altra). Il ragionamento è allora molto semplice: la salvezza cristiana, portata da Gesù, è perfezione e bellezza della nostra umanità. Di conseguenza, la salvezza cristiana è la liberazione e la redenzione da ciò che rende disumana la nostra umanità, o perché la limita, impedendole di sprigionare le infinite energie di bene che le sono interiori, o perché la rende opaca, negandole la sua radiosa bellezza nell’amore o perché la corrompe in tante forme di barbarie facilmente riconoscibili nella vita degli esseri umani.

E quando? Quando gli uomini si odiano, uccidono, si fanno le guerre, si dominano schiavizzando, si sfruttano mercificando e così via. Anche quando non hanno occhi per il dolore e le sofferenze degli altri, percepiti più come nemici che come fratelli e si dividono in tante forme di competizioni, quali lupi rapaci contro altri lupi».[22]

Il linguaggio musicale come risorsa pastorale

Il progetto del presidente della Pontifica Accademia di Teologia si presenta sostanzialmente come il tentativo di «rendere nuovamente entusiasmante l’annuncio della gioia cristiana», liberandolo «dalle maschere di una religiosità senza vita» e presentando «la straordinaria bellezza dell’umanità di Gesù, attraverso linguaggi artistici, primo fra tutti quello musicale».[23] Si tratta in fondo di costruire una «rinnovata armonia tra ortodossia, ortopatia e ortoprassi».[24]

Continua, pertanto, ad essere di grande attualità quanto Antonio Rosmini scriveva nella sua opera Le cinque piaghe della Santa Chiesa: la «cristiana dottrina» si è non solo «abbreviata» nei «compendi» della teologia razionale «curandosi di soddisfare solo alla mente», ma ha abbandonato «interamente tutto ciò che spettava al cuore e alle altre facoltà umane»,[25] come la poesia, la musica e la letteratura (in ogni forma, anche in quella di alcuni testi della musica pop o rock), capaci di suscitare emozioni.[26]

«La teologia speculativa resta, dunque, importante e imprescindibile. Deve però oggi riguadagnare i vasti campi e le verdi praterie di tutte le arti – musica, letteratura, poesia, cinematografia, pittura –, perché l’immaginazione diventi ancilla theologiae (servizio alla teologia) e la teologia si compia come ancilla fidei (teologia che serve la fede) nella gioia della comunicazione a tutti del Vangelo».[27]


[1] Francesco Cosentino, Staglianò: più veri, più umani, più cristiani, in SettimanaNews del 9 gennaio 2020.

[2] Antonio Staglianò, Zibaldone della Pop-Theology. Teologia dell’immaginazione per comunicare la sapienza della fede, Edizioni Memesis & Santacono, Rosolini (SR) 2024, p. 661.

[3] Ib. p. 160.

[4] Lo fa notare a p. 26 Paolo Heritier, docente di filosofia del diritto all’Università del Piemonte Orientale, nell’Introduzione scritta a quattro mani con Fernando Bellelli.

[5] Antonio Stagliano, Zibaldone…, op. cit., p. 58.

[6] Ib. p. 65.

[7] Ib. p. 76.

[8] Cf. Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il primo decennio del 2000, paragrafo n° 50 (intitolato “Una fede adulta e pensata”).

[9] Antonio Staglianò, Zibaldone…, op.cit., p. 219.

[10] Ib. p. 85.

[11] Dilexit nos, n. 9.

[12] Antonio Staglianò, Zibaldone…, op.cit., p. 97.

[13] Ib. p. 220.

[14] Ib. p. 724.

[15] Ib. p. 318.

[16] Ib. p. 63.

[17] Tomáš Halík, Pazienza con Dio, Vita e Pensiero, Milano 2020, p.23. «Un’interpretazione della frase Dio è morto esprime l’esperienza che l’attuale discorso su Dio – e forse la parola stessa – ha ormai perso di senso. Possiamo forse riscoprirlo, ma soltanto guardando a Cristo. L’antico discorso su Dio è divenuto incomprensibile e inverosimile: con esso non siamo riusciti a costringere il mondo, e neanche noi stessi, a risvegliare a sufficienza la coscienza di fronte a violenza, menzogna e ipocrisia; con esso, più spesso, ci siamo tranquillizzati e addormentati, quando invece ci saremmo dovuti svegliare e scuotere, le nostre parole hanno perso quel sapore pungente di sale, finendo per diventare futili. Per questo Dio è morto nella nostra cultura, nella lingua dei contemporanei; noi lo abbiamo ucciso svuotando il suo nome e screditandolo, issandolo sui nostri vessilli di guerra, infilandolo di contrabbando nei discorsi di propaganda politica per specifici interessi di potere, insudiciandolo su brochure di stiracchiate dimostrazioni di brodaglia bigotta, di logore frasi sentimentali. L’unico posto da dove la parola Dio dimenticata, ferita, oggi angosciosamente estromessa può ritrovare significato è la storia di Gesù. Anche se il mondo intero giace nell’ombra della morte di Dio, è sempre presente quell’unico luogo nel quale Dio può essere sentito vivo: in Cristo, in Gesù di Nazaret. Tutto ciò che abbiamo visto e detto di Dio può e deve morire. Non conosciamo Dio se non per ciò che ci richiama in Cristo: per lui, con lui, in lui» (Tomáš Halík, Tocca le ferite. Per una spiritualità della non-indifferenza, Vita e Pensiero, Milano 2021, pp. 59-60). «Negli ultimi decenni, in molti Paesi le Chiese – in particolare quella cattolica per ragioni note – stanno sempre più perdendo credibilità: non sono soltanto i non credenti ma anche una buona parte dei fedeli a ritenerle incapaci di offrire risposte competenti, convincenti e comprensibili alle domande fondamentali. Quando ascolto una predica o leggo lettere pastorali e un certo tipo di stampa religiosa, mi viene in mente che, oltre che sul perché le persone si allontanano, dovremmo indagare anche su dove trovano la forza e la pazienza quelli che rimangono» (Tomás Halík, Pomeriggio del cristianesimo. Il coraggio di cambiare, Vita e Pensiero, Milano 2022, pp. 130-131).

[18] Antonio Stagliano, Zibaldone…, op. cit., p. 856.

[19] Ib. p. 867. La citazione di Pietro Gheddo è contenuta nel libro di Roberto Beretta, Da che pulpito…Come difendersi dalle prediche, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (Al) 2006, pp.104-105.

[20] Ib. da p. 737 a p. 767.

[21] Ib. p. 743.

[22] Ib. p. 660.

[23] Francesco Cosentino, Prefazione a: Antonio Staglianò, Sulle note di Dio. Pop-Theology per far riscoprire ai giovani la bellezza della fede, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, p. XII.

[24] Antonio Stagliano, Zibaldone…, op. cit., p. 851.

[25] Ib. p.112.

[26] Antonio Staglianò, Zibaldone…, op.cit., p.101 dove l’Autore ricorda che al n. 226 dell’Esortazione apostolica postsinodale ai giovani e a tutto il popolo di Dio, Christus vivit, papa Francesco scrive: «Del tutto peculiare è l’importanza della musica, che rappresenta un vero e proprio ambiente in cui i giovani sono costantemente immersi, come pure una cultura e un linguaggio capaci di suscitare emozioni e di plasmare l’identità. Il linguaggio musicale rappresenta anche una risorsa pastorale, che interpella in particolare la liturgia e il suo rinnovamento».

[27] Ib. p. 168.

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