«Le risposte ai misteri della vita sono le storie della vita». Questa frase – pronunciata dalla cordiale voce artificiale di un centro per il riconoscimento genetico – definisce l’essenza profonda di una serie come Watchmen.
Scritta da Damon Lindelof e prodotta per il canale HBO, Watchmen non è il semplice adattamento del fumetto omonimo,[1] uno tra i più iconici del XX secolo, ma un sequel ideale che guarda al materiale originale per ricostruire una visione dell’America, del mondo e della vita che siamo sicuri lascerà il segno all’interno del panorama dell’intrattenimento televisivo di qualità e non solo.
Una premessa è doverosa, perché parlare della serie di Lindelof significa cercare di capire almeno in parte che cosa sia e che cosa abbia rappresentato il fumetto al quale si ispira. Scritto da Alan Moore e disegnato da Dave Gibbons, Watchmen è una miniserie pubblicata fra il 1986 e il 1987 dalla DC Comics. Si tratta di una delle opere a fumetti più influenti del genere a livello mondiale, con particolare riferimento al genere supereroistico, di cui Watchmen scardina completamente la mitologia positivista in vigore fino a quegli anni.
Watchmen è un racconto fantastorico in cui ci sono uomini e donne senza poteri che vogliono essere supereroi: si mettono maschere e costumi e portano giustizia nelle strade. Poi c’è qualcuno che i poteri li ha davvero, ma non è interessato a usarli per salvare l’umanità: il Dr. Manhattan.[2] La sua comparsa modifica radicalmente l’equilibrio economico e geopolitico del mondo. Egli è infatti in grado di sintetizzare il litio in grandi quantità e il suo potere cambia completamente il modo di vivere degli esseri umani, viene impiegato per porre fine alla guerra fredda tra USA e Unione Sovietica e su ordine del presidente Nixon fa finire la guerra del Vietnam in sole tre settimane. Infine egli si auto-esilierà su Marte, lontano dal mondo e dagli uomini, verso i quali non nutre alcun interesse. In sostanza il fumetto di Moore rileggeva un tempo di Guerra Fredda, di corsa agli armamenti, di instabilità sociale e profondi cambiamenti culturali, in un modo che – nonostante il passare degli anni – sembra essere ancora oggi valido per rileggere un tempo di crisi.
La storia del sequel ideato da Lindelof per HBO parte da uno dei peggiori episodi di violenza razziale mai registrati negli Stati Uniti: siamo nel 1921 quando Tulsa bruciò nel fuoco razzista del Tulsa Race Riot[3]. Introdotti alcuni dei personaggi chiave della storia arriviamo in un presente sicuramente riconoscibile, ma che sembra quasi un universo parallelo al nostro 2019, in cui un gigantesco calamaro extra dimensionale piovuto da cielo causa la morte improvvisa di tre milioni di persone. In questa Tulsa del 2019, sorta dalle ceneri della rivolta razziale e dell’apocalisse aliena, seguiamo le vicende di Angela Abar, ex poliziotta di colore, ora vigilante mascherata di supporto alla polizia locale, minacciata dalla piaga del Settimo cavalleria, un gruppo di suprematisti bianchi anch’essi mascherati. Apparentemente debellati tre anni prima questi tornano a minacciare l’equilibrio di Tulsa, ma il loro piano terroristico dai proclami apocalittici sembra avere una portata più vasta, volta a coinvolgere gli Stati Uniti e il mondo intero.
Per capire i molti livelli dell’incarnazione televisiva di Watchmen bisogna conoscere l’opera di Lindelof. Co-creatore di Lost (è stato lui a dare a questa serie di culto la sua impronta spirituale) è stato portato agli onori della critica con The Leftovers, dramma teologico HBO giudicato dalla critica come una delle serie migliori degli ultimi anni. Fin dalle prime battute, infatti, è facile cogliere come la nuova serie HBO si ponga in una certa continuità con quanto avevamo potuto vedere proprio in The Leftovers. Se per la serie in questione erano fondamentali i legami famigliari ai fini dell’intera narrazione, con Watchmen Lindelof continua su questa strada, anche se la famiglia diventa in questo ultimi lavoro la possibilità concreta di viaggiare nel tempo e scoprire così la verità sulle proprie origini e sulla storia stessa.
In una società schiacciata sul presente e terrorizzata dal passato com’è quella mostrata in Watchmen è proprio il legame familiare con un suo antenato che permetterà ad Angela di trovare se stessa al di là della sua maschera da vigilante. Ma il viaggio dell’eroe che Angela incarna non è mai individuale e diventerà il viaggio di una nazione (l’America) e in parte di un intera civiltà, la nostra, con la sua presunzione di portare valori e di spianare la strada così ad una egemonia culturale capace di garantire benessere e pace.
Come già l’originale a fumetti, la serie di Lindelof usa il genere supereroistico per chiedersi chi siamo davvero dietro la maschera: la maschera delle convenzioni sociali, la maschera dei simboli di potere. Watchmen racconta la riscoperta dolorosa delle proprie origini, la riappropriazione dei simboli che abbiamo eletto a guida di cui l’integrità non è però immune da storpiature e corruzioni. Come è possibile ad esempio che la maschera di Rorschach , storico vigilante del fumetto, simbolo di integrità morale e zelo religioso verso la giustizia, sia diventata nel presente della serie il simbolo di un uovo razzismo che richiama sfacciatamente la piega xenofoba del Ku Klux Klan? Questa messa in discussione di simboli e valori è centrale nella serie e diventa la presa di coscienza che dietro diritti e democrazia si nasconda un universo di omissioni e violenza. Da questo punto di vista, con la sua narrazione innovativa, la serie chiama in causa non tanto la fragilità dei personaggi quanto piuttosto la vulnerabilità della storia e come sia il tradimento di quest’ultima a generare paura e orrore sociale.
Allora Watchmen diventa – come già The Leftovers – un’attesa disperata dell’apocalisse, di un giudizio divino che tarda ad arrivare e che forse non arriverà mai, ma che resta tuttavia necessario per dare un senso alla storia. Carica di riferimenti teologici la cui ricchezza e complessità è difficile esplorare in una ricognizione sommaria,[4] Watchmen è un’opera che si inserisce in quell’arte necessaria di narrare storie rileggendo la storia, perché quest’ultima non è mai al sicuro dalla dimenticanza dell’uomo, dalla corruzione attraente di faziose interpretazioni.
[1]Un adattamento cinematografico del fumetto è già stato tentato nel 2009 dal regista Zack Snyder.
[2]Il nome del personaggio è un chiaro riferimento al Progetto Manhattan, il programma di ricerca del governo USA che portò alla costruzione della bomba atomica.
[3]I tumulti razziali di Tulsa si verificarono fra il 31 maggio e il 1º giugno del 1921, quando una massa totalmente fuori controllo di bianchi americani iniziò ad attaccare i residenti e le attività commerciali della comunità afroamericana in tutto il quartiere cittadino di Greenwood. Viene a tutt’oggi considerato come uno dei più gravi incidenti di violenza a sfondo razzista nell’intera storia degli Stati Uniti.
[4]La serie si dilunga molto sulla questione del deus absconditus e del deus otiosus, evocati dalla figura del Dr. Manhttan, di cui Lindelof ci fa avvertire costantemente la presenza senza mai mostrarlo se non negli ultimi episodi.