Il 3 luglio 2018 nel suo blog Come se non il prof. Andrea Grillo riprende e ribatte alcuni punti delle risposte che mons. Fellay ha dato alle domande dell’intervistatrice Regina Einig della rivista cattolica tedesca Tagespost tradotta e pubblicata da da Settimana News (qui).
Con una intervista rilasciata al Tagespost il 28 giugno scorso, Bernard Fellay risponde a domande ben formulate intorno ai 30 anni di esperienza dello scisma lefebvriano . Molto opportunamente il testo è stata tradotto e proposto da Settimana News.
Molte risposte fotografano con molta precisione il livello di lontananza e di ostilità dei lefebvriani verso il cattolicesimo romano, così come si è sviluppato dal concilio Vaticano II in poi.
Vorrei soffermarmi soltanto su alcune di queste risposte, che risultano singolarmente utili per parlare non tanto dei lefebvriani, quanto dei loro interlocutori nella curia romana e del loro gioco pericoloso e doppio. Riporto una serie di risposte di Fellay, alle quali faccio seguire miei brevi commenti.
1. La messa riformata
Fellay esprime giudizi sulla messa scaturita dalla Riforma liturgica così carichi di pregiudizi e così ingiusti da gridare vendetta al cielo. Ecco un primo brano in cui si esprime sul concilio Vaticano II e sulla riforma della messa: «Le riforme che ne sono seguite lo hanno dimostrato più chiaramente del Concilio stesso. Il problema si è fossilizzato sulla nuova messa. A Roma è stato detto all’arcivescovo Lefebvre aut aut: “Lei celebri la nuova messa e tutto è a posto”. I nostri argomenti contro la nuova messa non contavano niente. Nel frattempo, il messale di Paolo VI fu composto con la collaborazione di teologi protestanti. Se si viene costretti a celebrare questa messa, allora sorge realmente un problema. E noi siamo stati spinti a farlo».
È evidente che l’incomprensione della messa scaturita dalla riforma liturgica porta ad una radicale incomprensione del Concilio e del cammino di ricomprensione del mondo moderno operato dal Concilio stesso. Fellay getta discredito sul Concilio e sulla Riforma liturgica. Con chi esprime questi giudizi non si comincia neppure a discutere. Si scomunica da sé, per gli argomenti che utilizza.
2. Summorum pontificum
A proposito della rottura e del ruolo che il card. Ratzinger ebbe nella vicenda, nel 1988 Fellay dice: «(Ratzinger) non ha capito quanto profonde erano le ragioni dell’arcivescovo e il disorientamento dei fedeli e dei preti. Molti non ne potevano più degli scandali e dei disagi postconciliari e anche del modo in cui era celebrata la nuova messa. Se il card. Ratzinger ci avesse compreso, non avrebbe agito così. E penso che gli sia dispiaciuto. Perciò da papa ha cercato di riparare ai danni con il motu proprio e di togliere la scomunica. Gli siamo realmente riconoscenti per i suoi tentativi di riconciliazione».
Anche queste parole, che Fellay carica ovviamente di un tono del tutto particolare, rivelano uno degli equivoci più insidiosi che stanno sotto tutta queste vicenda. Anche solo la possibilità che il testo di Summorum pontificum sia stato inteso come una sorta di “risarcimento del danno” e di “condizione” per l’accordo appare davvero come una gravissima responsabilità. Da parte dei lefebvriani, per l’incomprensione della Riforma, e da parte di Benedetto XVI, per la relativizzazione e la banalizzazione della Riforma stessa.
Dopo 30 anni da quello scisma non ci sono ragioni per mantenere ancora un parallelismo tra forme diverse e contraddittorie dello stesso rito, che non sono fondate né teologicamente, né giuridicamente, né liturgicamente.
3. Le condizioni chieste da Roma per l’accordo
Ma forse il testo più sorprendente e preoccupante è quello che Fellay dedica alle richieste romane per arrivare ad un accordo. Ecco le sue parole: «Noi dobbiamo mettere in questione certi punti del Concilio. I nostri interlocutori a Roma ci hanno detto: i punti principali – libertà di coscienza, ecumenismo, nuova messa – sono problemi aperti. Si tratta di un progresso incredibile. Finora si diceva: dovete obbedire. Ora i collaboratori della Curia dicono: dovreste aprire un seminario a Roma, una università per la difesa della tradizione. Non è più tutto bianco e nero».
È inevitabile che Fellay dimostri un certo entusiasmo: se Roma, senza alcuna responsabilità, facesse anche solo lontanamente pensare che libertà di coscienza, ecumenismo e nuova messa possano essere “variabili non necessarie” dell’identità cattolica, è chiaro che per i lefebvriani sarebbe un vero trionfo. Non farebbero alcuna fatica a riconciliarsi con una Roma divenuta, improvvisamente e improvvidamente, lefebvriana.
Ma chi può avere detto a Fellay quelle parole irresponsabili, se non qualche membro della commissione Ecclesia Dei? E non sarà il caso di sottoporre questi ufficiali ad una verifica, almeno rispetto alla tradizione cattolica così come il concilio Vaticano II l’ha disegnata? Non sarà forse che i membri di quella commissione, a furia di celebrare con il rito antico, si siano scoperti più innamorati del concilio di Trento che del concilio Vaticano II?
Chi attribuisce al successore di Lefebvre il ruolo di “difensore della tradizione” manifesta di essere del tutto disorientato sulla storia degli ultimi 50 anni e di non avere il minimo senso della tradizione che cammina e che si risana.
Non lasceremo a monsignorini romani senza vera cultura ecclesiale e analfabeti di liturgia e di teologia conciliare la facoltà di svendere la Riforma liturgica, l’ecumenismo e la libertà di coscienza per un piatto di lenticchie. Su questo punto Roma non può che essere rigorosamente intransigente. Per restare aperta allo Spirito Santo. E isolare definitivamente tutti coloro che vogliono ridurre la Chiesa ad un museo.
E tuttavia, se dovessi considerare attentamente il tavolo delle trattative con Fellay, non saprei francamente da quale parte del tavolo dovrei guardare con maggiore preoccupazione.