Don Asdrubale prepara con cura la sua omelia domenicale. Sente tutta la responsabilità di quell’interevento tutto suo. Conosce bene la sacra Scrittura e la sa divulgare con facondia. I suoi giovani prendono appunti mentre lui parla e c’è anche chi entra solo per la sua omelia e poi esce. È diventata così importante che tutto il resto, per don Asdrubale, ha meno importanza: le parti eucologiche le legge velocemente, cerca di guadagnare più tempo per il suo spazio privilegiato.
L’ambone sta stretto a don Asdrubale: gli pare di essere ingessato, lì fermo a parlare. Preferisce passeggiare lungo la navata, richiamare l’attenzione con qualche battuta o anche mettersi al centro del presbiterio, ben visibile alla sua “ciurma di ragazzi scalmanati”, come li chiama lui. Non si accorge che, lentamente, sta trasformando un momento liturgico nel suo show personale.
L’ambone, il luogo dal quale si proclama la parola di Dio, non è semplicemente un leggio. Questa parola viene dal verbo greco anabaino, che vuol dire salire, andare su. L’ambone mantiene questa elevazione che nasce per permettere che la voce dall’alto scenda sull’assemblea. Ma anche per dichiarare che questa Parola discende dall’alto, come annunciato dal passo di Isaia: «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuota, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10-11).
Dovrebbe richiamare in qualche modo l’altare al quale è collegato: la Parola permette di riconoscere poi nel Pane il dono della Pasqua.
Esso misticamente richiama la pietra rovesciata dal sepolcro dalla quale l’angelo (il diacono che legge in Vangelo) annuncia che Cristo è risorto: è il simbolo della tomba vuota dalla quale esce l’annuncio della risurrezione. Infatti, tutto il Vangelo, in ogni sua pagina, è illuminato dalla luce della Pasqua: dovremmo vedere che lassù splende la luce di Pasqua.
Noi siamo trasportati simbolicamente in quel giardino. Siamo come Maria Maddalena che incontra il Signore risorto e lo riconosce quando lui la chiama per nome. Siamo convocati attorno a quella tomba vuota per sentirci chiamare dal Risorto e restituire alla vita dalla forza della sua Pasqua. Per questo l’ambone va decorato con i fiori, per ricreare il giardino di Pasqua, e va illuminato con le luci del candelabro o delle candele, per annunciare la luce della risurrezione che squarcia tutte le tenebre del peccato e della morte.
Proprio per questa grande dignità dell’ambone, da esso si proclama solo la parola di Dio, si tiene l’omelia e si possono proporre le intenzione delle preghiere dei fedeli.
Se don Asdrubale parla dall’ambone, lo fa perché è dalla tomba vuota che parte l’annuncio della salvezza. La sua omelia sarà tanto più efficace quanto più le sue parole sapranno riflettere quelle del Signore; tanto più vera quanto più egli saprà scomparire sotto la luce del Risorto, perché ognuno pensi, cerchi, ami solo il Signore Gesù Cristo, non la sapienza o la cultura di questo bravo sacerdote.
La beata Elisabetta della Trinità diceva: «Voglio che, vedendomi, si pensi a Dio». Questo deve essere l’unico desiderio di ogni cristiano, laico o presbitero: che, vedendoci o ascoltandoci, le persone abbiano nostalgia di Dio.
In effetti, quante omelie ci ricordiamo veramente? Quello che rimane dopo una celebrazione è l’incontro con il Signore, più di tutte le parole umane che vengono dette.
L’ambone è l’icona stabile della risurrezione: annuncia con la sola sua presenza che il Risorto ha l’ultima parola, che la morte non è la fine, ma il confine che apre sull’oltre. Più di tante parole, dall’ambone deve risuonare il Verbo. Da esso si canta il salmo responsoriale e anche il preconio pasquale o l’annuncio di Pasqua nel giorno dell’Epifania.
Ma tutto il resto, animazione dei canti, lettura delle monizioni prima delle letture, avvisi parrocchiali e altro, va fatto da un altro luogo.
Lezioncina saccente con un retrogusto che si colloca tra un’acida e velatissima critica (a partire dal “Don Asdrubale” che l’autrice immagina probabilmente come un’originale espediente letterario) e un tono polemico così sottile e cesellato sul linguaggio da infilarsi sotto la soglia. Poi c’è la vita fuori dall’accademia e dagli uffici e molti Sacerdoti fanno qualche passo in più verso l’assemblea non tanto per tradire la sacralità dell’ambone ma per tentare di rendere l’ὁμιλία una conversazione familiare, com’è nell’etimo del termine stesso. Per ridurre il distacco tra la Chiesa maestrina e il quotidiano che ha tutt’altro registro e questo non impedisce affatto che il commento possa partire dalla tomba vuota, anzi.
Il problema non è tanto di Don Asdrubale ma dell’impostazione della Messa, talmente colma di parole sempre uguali a se stesse che l’assemblea attende l’omelia perchè è l’unico elemento di novità che spezza gli sguardi persi nell’aula liturgica.
Di certi stigmi possiamo fare beatamente a meno, grazie.