Apocalisse, escatologia e Maria sono tra i temi ampiamente frequentati da padre Enzo Franchini nel suo copioso lascito di scritti. Ne riportiamo un frammento tratto da una delle sue raccolte sistematiche, alla quale ha dato semplicemente il titolo (d’archivio) di “Maria”.
Il più grande atto di fede in Dio è credere in Maria… e nella salvezza del buon ladrone. Solo che anche il buon ladrone viene santificato non senza Maria. Dio nessuno l’ha visto: è attraverso le sue opere che noi possiamo affermarlo. Ed è certo che, prima di tutto, Dio si fa conoscere in Gesù. Che però non è l’opera, ma l’operante, non è il capolavoro, è l’artista che compie il capolavoro. Per avere l’idea la più possibile adeguata alla salvezza che ci viene donata, occorre riconoscere Maria, colei che riceve tutto ciò che, in Cristo, Dio poteva donarci. Se si prescinde da lei, non si sa più cosa stia facendo Dio.
Maria segno e riassunto, dunque, dell’operosità divina: e questo fin dal primo momento della sua concezione. E poi sempre, istante dopo istante. Maria non è mai il frutto di congiunzioni casuali di circostanze. Non le capita di vivere. Lo Spirito la crea e la sobilla senza intermittenza, soffiando con tutta la forza del suo fiato, imperterrito, anche se poeticamente delicato e sinuoso. Maria vive-con Dio, non solo per generare Gesù ma per esserne con-figurata con grazia. È “assunta” per natura sua, in quanto ogni suo sì a Dio viene accolto da Dio che se ne fa un suo strumento congiunto, a imitazione di Gesù.
Assunzione come premio
Ho paura che si parli troppo timidamente dell’assunzione, già per il fatto di valutare questo esito come una glorificazione finale conseguita dopo una vita meritoria. Gli stessi Padri (citati con solennità dal magistero, vedi la seconda lectio in festa) parlano con le ragioni più deboli che si possano adoperare, quelle della convenienza: Dio “doveva” salvaguardare il corpo che aveva generato Gesù, “era giusto”, “decebat”. Come dire: noi avremmo fatto così, c’era da aspettarselo, tutto lasciava credere che…
È molto più forte l’altra ragione – che il magistero stesso adopera come fondamentale –: quella dell’imitazione adeguata di Gesù. Se Gesù è stato glorificato a quel modo, la legge del parallelismo impone altrettanto per la Madre. Resta sempre, però, l’idea “debole” che affievolisce tutto: e cioè la concezione dell’assunzione come premio finale, a “congrua” conclusione di un’onorata carriera, come lodevole conseguenza riepilogativa. Del che, il minimo che si possa dire sarebbe che il pezzo forte sarebbe stato la vita di Maria, e l’assunzione niente più che la lode già meritata in vita, un premio “de congruo”.
Assunzione come apice
Ora è vero che l’assunzione è all’apice: ma un apice che non ha smesso di attuarsi e crescere lungo la vita, senza soluzione di continuità. Anche di Gesù si deve dire che è risorto tutto, che niente di lui è stato “dimenticato” come inutile sulla terra, perché ogni esplicazione vitale di Gesù è servita a Dio per creare l’uomo nuovo. Gesù è bambino per salvare in noi il bambino, è lavoratore per dare pregio al nostro lavoro, soffre per portare lui così il nostro peso, risorge per darci la vita: mancasse, alla nostra eternità, uno solo di questi apporti critici, noi non saremmo abbastanza salvi. «Non est salvatum nisi quod assumptum».
E Maria è colei che riceve, per prima, completamente passiva, ma completamente necessaria al piano di salvezza, questo donarsi di Gesù. La sua imitazione di Cristo non è un fare anche lei, una dopo l’altra, le cose fatte da Gesù. È un riceverle una dopo l’altra, con libera disponibilità: così che Maria è la terra dove si colloca il Seme. Dunque – ribadisco, nel caso non l’avessi abbastanza affermato – ogni fiato di Maria è subito assunto dal Verbo che lo adempie, per cominciare così, dal primo anello, la catena della salvezza.
Maria vive “assunta”
Maria “vive” assunta. La sua vita è il tempo necessario a portare a termine la sua risurrezione. Non c’è peccato in lei, dunque non ci sono le cesure del rifiuto e della stessa morte (perché è “congruo” pensare che Maria sia morta, per convivere con Gesù anche questo momento; così da poterlo convivere con noi. Ma è certo che altro è il nostro morire in conseguenza del peccato, altro il morire di Gesù e di Maria in solidarietà con noi). Ciò che lei vive trapassa in escatologia, subito.
Il dato forte consiste in questo: ogni istante della vita di Maria è creato dallo Spirito in vista di Cristo, dicevo. Ora l’opera di Dio non può andare persa. Noi possiamo perderci – o perdere qualcosa di noi – così che Gesù debba salvarci. Ma ciò che è compiuto dallo Spirito ad imitazione di Gesù non ha nemmeno senso dire che va salvato. È già santo.
Escatologia eppure esperienza
Osservazioni teologico/teologali. Ma anche spirituali, anche esistenziali. È entrando in questa logica che si capisce la vita interiore di Maria. E tornerò a dire: altro che insistere sul silenzio mortificante, l’umiltà come emarginazione per colpa del mondo, il buio della fede, l’attesa nella notte, insomma, l’appannata condizione di Maria povera, meritevole per questo d’essere riscattata e ripagata col premio.
È la nostra mens moralistica che ci fa guardare a quelle “virtù” mariane come a prove etico-ascetiche. È il nostro bisogno di rassicurarci che ci suggerisce l’implicito ragionamento: «Vedi? È passando per queste prove che si arriva poi alla gloria. Dunque, impara anche tu a sopportare, perché questo è l’essenziale».
Niente affatto, l’essenziale è ciò che di decisione consacratoria, di teologalità, di certezza mistica, di adesione all’ispirazione continua, di vera dimensione escatologica esiste in Maria. Il resto sembra importante a noi solo perché noi lo troviamo difficile a sopportare. L’ottica di Maria era ben al di sopra di questa servilità.
Saper guardare dalla parte giusta, ecco cosa conta: e la parte giusta è proprio l’assunzione, che rivela a cosa sia servita la vita di Maria, intesa come identificazione eucaristico-comunionale con Cristo e il suo corpo. E questo conta proprio per capire Dio: perché è Dio che così si in-segna e si adempie, ripropone e si dona. Nella teologalità più vera, che non è la nostra (compresa quella di Maria) verso Dio, ma è quella di Dio verso noi.
La pienezza è il paradiso
Ma non è ancora tutto, non è ancora il meglio. La pienezza è il paradiso, dove Maria continua ad adempiere la sua missione. Mi sembra sia da valorizzare una premessa che decide non solo il significato del paradiso di Maria: e cioè che lo Spirito Dio ciò che fa una volta lo fa una volta per tutte, nella contemporaneità della sua eternità, senza che la sua azione possa venir meno. Se le opere di Dio, all’interno del tempo, si esplicano in avvenimenti distinti, dal punto di vista dell’efficacia effettiva – che è quello della realtà divina – esse sono tutte insieme, perennemente date.
Riportato questo dato in Maria, ne deriva che Maria non smette di essere quello che è stata. Anzi, ciò che è stata acquisiva valore in grazia del suo peso specifico eterno, che le dava contenuto. Ora Maria opera in Dio con le qualità di Dio, vedendo riportata la sua vita in quella dimensione risorta che è definitiva.
Non si può pensare l’eternità in forma statica. Se è impossibile il divenire all’interno dell’Essere che è già tutto sé stesso, è altrettanto vero che l’Essere – fatto di amore – è relazione, è scambio vitale. Il paradiso non è fatto di esseri immobilizzati nella loro adempiutezza, così da non poter fare altro che possedersi ognuno per sé nella contemplazione estatica dell’altro.
La dinamicità dell’essere cresce nell’eternità, che è fame continua eternamente saziata, ed è dono di sé senza alcuna ritenzione, eternamente ricevuto (da Dio e dagli altri). Se questo è in paradiso, tutto questo si riversa sulla terra al modo stesso in cui opera Dio, che, pienamente adempiuto in sé stesso e senza alcuna passibilità da impotenza, pure si fa capace nel tempo di suscitare azioni distinte, limitate, umanamente cerziorabili nella nostra esperienza (per questo, nel tempo, l’opera di Dio è anche impotente: perché si sottomette ai limiti del divenire).
Vive in Dio, vive in noi
Maria, temporalmente, partecipa a noi ciò che essa è in Dio. Interviene. Distingue e proporziona i suoi interventi, commisurandoli alla nostra possibilità recettiva e ai nostri bisogni. “Parte dall’uomo”, accetta le sue condizioni, si rapporta veracemente con noi. Tutto questo comporta: 1) ciò che lei è stata per opera dello Spirito che veniva suscitando in lei la sua risposta nel tempo della sua vita, lei continua a viverlo anche per noi. Noi ne siamo parte integrante. 2) Questo non è in assoluto, costante, totale dono indifferenziato, perché si rapporta con ciascuno di noi per come ciascuno è, vuole, può.
Questo dice, al tempo stesso, l’onnipotenza divina dell’intervento di Maria e il limite circostanziato del suo modo d’esserci vicina. Ma ci è vicina, non per ciò che concerne solo un’assistenza da “patronato”. Ciò che ha da offrirci è né più né meno quello che lei ha vissuto di santo e di santificante nella sua vita, e cioè il mistero di Gesù; ed è questo che continua a venire in noi non senza di lei (come, del resto, in lei non senza di noi).
Qui dentro possono anche trovare posto le nostre esigenze spicciole, di uomini bisognosi anche di vivere sulla terra. Ma già si sa che la Provvidenza non esaurisce il suo aiuto nel piccolo dettaglio. Ogni cosa Dio riconduce alla ricapitolazione in Cristo. Tale è il senso del soccorso divino, che è sempre salvifico, e mai solo opportunista. Dio – che fa tutto in una volta – non indugia sulle vanitates. Nemmeno Maria è “avvocata” nel senso di procuratrice di affari e di tutrice di minorenni. Non è per noi la buona massaia – non è la mamma – intesa ad accudirci in sollievi temporali. Tutto questo, di fatto, lei può compierlo, ma lo compie all’interno del mistero in vista dell’adempimento del mistero.
Maria non fa “opere buone”, nel senso elemosiniero. Non è stata questa la sua missione, già in vita: lei che, piuttosto, in vita è stata “mantenuta”. Maria è attiva donando tutta sé stessa per come è stata e per come permane. È per questo che si fa anche “soccorritrice”. Mi sembra importante, tutto questo, per non disonorare Maria, abbassandola al di sotto del suo ruolo vero. Ancora più importante, perché occorre onorarla per ciò che lei è veramente. Il mistero della carità è il mistero della comunionalità, né più né meno.
Maria è esperienza di Dio
Torno “all’assunzione”. Ciò che Maria ha sperimentato è divenuto esperienza di Dio. Maria è esperienza di Dio. Dio, per comunicarsi nel tempo, ha avuto bisogno del “polo negativo” che lo ricevesse, senza di cui non potrebbe relazionarsi con noi “in temporalibus”. Maria dà a Dio di poter essere uno di noi. Maria “lega” Dio alla storia, “assumendolo”: ed è per questo che, a sua volta, viene “assunta” in cielo, restando per sempre, lei, esperienza di Dio. Appunto, il mistero della carità è il mistero della comunione.
È per questo che Dio, ormai “immesso” nella storia, non può comunicarsi senza Maria, a sua volta “assunta” in cielo. Non si può non ammirare la profonda logicità di questo “piano divino”, anche se esso è molto più che “logico”. La sua evidenza si fa toccante, in quanto esso si estende a tutta la Chiesa, anticipata e realizzata in Maria. È al modo di Maria che noi veniamo “assunti”, fin d’ora partecipi del mistero; tanto quanto noi “assumiamo” comunionalmente Dio.
E non sarebbe giusto – alla fine di questa riflessione – non ringraziare Dio e Maria per le illuminazioni inedite in cui mi hanno coinvolto. Anche questa è partecipazione.
Grazie, mio Dio. Semplicemente.
Grazie, Vergine Assunta, che mi sei stata donata così intensamente da obbligare anche te, fin nel tuo intimo più profondo, a donarti.
Sono cose grandi, queste, che avvengono in me.
Capiago, Festa dell’Assunzione 1999.