Il Maestro Simone Baiocchi è Coordinatore del Segretariato Compositori della Associazione Italiana Santa Cecilia. Compositore per partiture coro e orchestra, direttore di coro e organista, ha recentemente pubblicato Cantori romani, musica sacra a Roma nei ricordi di Otello Felici, cantore pontificio, Zecchini Editore. SettimanaNews – nella festa di Santa Cecilia patrona dei musicisti – propone la seguente intervista di presentazione del volume e coglie l’opportunità di un suo punto di vista sulla situazione della musica liturgica nella Chiesa cattolica italiana.
- Maestro, vuole innanzitutto offrire un breve profilo della figura umana posta in filigrana del suo libro, ossia il cantore Otello Felici?
Otello Felici nasce a Roma il 3 maggio del 1924, ed è un bimbo come ve ne erano tanti nella Roma di quegli anni, molto diversa da quella di oggi: i tram erano trainati da cavalli e la vita scorreva in modo molto più semplice e meno frenetico di oggi.
Felici inizia a praticare musica durante le scuole elementari frequentate presso l’istituto Angelo Braschi, retto dai Fratelli delle Scuole Cristiane. La scuola era celebre per l’attività del suo coro di fanciulli, che prestava servizio in tante chiese di Roma e andava a costituire stabilmente le sezioni acute della celebre Cappella Giulia, il coro che dal 1513 opera nella basilica di San Pietro nelle celebrazioni del Capitolo Vaticano. Da questa attività Otello rimarrà segnato nell’animo, tanto da proseguire l’attività di cantore anche dopo la muta della voce.
Da fanciullo si era già fatto apprezzare interpretando i soli delle opere nelle trasmissioni dell’EIAR, diretto da Mascagni, Giordano, Marinuzzi e altri. Divenuto basso-baritono, ha iniziato a cantare in contesti di prim’ordine, facendo parte della Cappella Liberiana di Santa Maria Maggiore, della Cappella Lateranense, della Cappella Giulia e della Cappella Sistina, sotto la direzione di Perosi, Refice, Bartolucci, Virgili, Casimiri, Boezi, Antonelli e Renzi. È stato membro del coro della RAI.
Parallelamente all’attività nelle cantorie, iniziò anche quella svolta presso gli studi di sincronizzazione cinematografica, doppiando le parti in canto di pellicole che sono entrate a far parte della storia del cinema come ad esempio “Il giudizio universale” di Vittorio De Sica, il film musicale “My Fair Lady” di George Cukor, e tanti altri. Ha lavorato anche con Alberto Sordi ne “Le vacanze intelligenti”, in un episodio del film “Dove vai in vacanza”: Otello è ben visibile come uno dei quattro membri del coro che, con altri musicisti, eseguono la parodia di un concerto di musica d’avanguardia.
Dopo il pensionamento dalla Cappella Sistina ha continuato l’attività concertistica come solista ed ha avviato al mestiere numerosi giovani, impartendo lezioni con grande generosità e dando loro un supporto che oserei definire paterno.
Musica sacra e professione
- Esistevano dunque le figure dei cantori. Questi lavoravano a tempo pieno. Vivevano di questo lavoro da professionisti della musica, con un buon grado di preparazione. Ora queste figure non esistono più. Può spiegarne le ragioni? Da quelle teologico-liturgiche, a quelle riferibili alla formazione, non escluse quelle economiche?
I motivi sono molteplici e in buona parte legati ad aspetti culturali della società e della Chiesa. Tra questi vi è una diffusa e prolungata diseducazione alla musica e al canto, sia in ambito scolastico che nella formazione del clero nei seminari.
Su questo problema si è innestato spesso nella Chiesa un malinteso atteggiamento di partecipazione alla liturgia, per cui il popolo deve fare tutto da sé – senza concedere spazio ad un’espressione artistica qualificata che elevi il pensiero e lo spirito – contenendo lo svolgimento del rito in tempi assai compressi.
Anche se ufficialmente le disposizioni della Chiesa richiamano ad una musica sacra unita all’azione liturgica, che elevi lo spirito e che sia immagine della liturgia del cielo, nei fatti la musica è stata spogliata della sua valenza rituale e celebrativa e viene erroneamente considerata un riempitivo, accomodato secondo il proprio gusto e secondo le mode del momento e del luogo.
Si è quindi pensato di poter fare a meno dei cantori, generando una mentalità per cui i soldi impiegati per pagare i musicisti di chiesa (cantori, direttori, organisti) son soldi buttati: chi ha a cuore questa missione deve svolgere un servizio di volontariato gratuito. Fare il musicista però non è una cosa che si improvvisa: per svolgere seriamente la professione occorre tanto sacrificio e un enorme investimento di tempo e di danaro.
Tanti giovani musicisti cresciuti in modo sano nell’autentico servizio alla liturgia, alla fine del loro impegnativo percorso di studi devono fare i conti con un grande scoraggiamento quando in tante chiese incontrano rifiuti e porte sbarrate, trovandosi poi costretti a cercare altri ambiti di occupazione o a dover emigrare all’estero.
- Il Concilio Vaticano II come entra in questa storia?
Il Concilio Vaticano II non c’entra direttamente con i fatti narrati nel libro. “Cantori romani” non ha intenti polemici o apologetici: il libro è però una fotografia importantissima e documentata di quella che è stata un’attività di fondamentale rilevanza per la liturgia della Chiesa. Ovviamente, non è che in passato fosse tutto perfetto, ma, se oggi conosciamo certi problemi, è opportuno farsi qualche domanda e conoscere bene la storia degli ultimi decenni.
La partecipazione
- I cori romani erano molto apprezzati dal popolo dei fedeli. Ma quanto il popolo poteva partecipare col proprio canto alle liturgie del tempo? Le liturgie non erano forse “spettacolari”? Quale, altresì, il beneficio spirituale che lei vede nel canto professionale?
La domanda che mi pone viene quasi sempre alla ribalta quando si tratta di musica sacra qualificata all’interno della liturgia. È ormai entrato il pensiero – in molti – che se la musica sacra è nobile, bella e ben eseguita, la liturgia diventa un concerto o uno spettacolo. Forse il motivo per cui alcuni arrivano a pensare questo nasce dal fatto che oggi in chiesa sentiamo il più delle volte una musica tremenda e degradata, inadeguata al rito, sia nelle espressioni che nelle esecuzioni, mentre la musica sacra più bella è confinata ai concerti.
Non rimango forse edificato quando ascolto un bravo sacerdote che con le parole e gli accenti giusti riesce ad aprire una breccia nel mio cuore, attraverso la quale può entrare più facilmente il messaggio della Parola di Dio? Non viene detto mai in quel caso di aver assistito ad un monologo teatrale. Perché allora la stessa cosa non può accadere con la musica?
Nella pratica liturgica di cui narro in “Cantori romani”, il popolo aveva indubbiamente una partecipazione al canto molto più limitata rispetto alle possibilità che vengono date oggi. Un tempo più facilmente il popolo cantava durante i pii esercizi, e lo faceva con grande energia e convinzione.
Oggi purtroppo nella maggioranza dei casi, è stato tolto al popolo il nutrimento spirituale di una musica elevata durante le celebrazioni liturgiche e il risultato della partecipazione del popolo al canto è comunque timido e incerto, sia durante la liturgia che durante i pii esercizi. Il beneficio spirituale conferito dai cantori romani era notevole, ed essi svolgevano il loro compito in modo preparato, eseguendo un repertorio in cui il cantore non era considerato solo un virtuoso dalla bella voce ma piuttosto un oratore, con il compito di proclamare i sacri testi al popolo attraverso la musica.
Come ha ricordato spesso il Cardinal Domenico Bartolucci, celebre direttore della Cappella Sistina e mio maestro, “i cantori avevano il compito di predicare al popolo in musica”, perché svolgevano per il popolo un servizio che per competenze e capacità necessarie, il popolo non sarebbe stato in grado di svolgere. E la musica – aggiungo io – è un linguaggio universale: con pochi suoni può toccare il cuore di chi prega molto più di tanti lunghi discorsi o di tante prolisse didascalie.
- Nel libro si trova un’ampia descrizione della ricchezza e della bravura delle varie scholae cantorum pontificie e/o romane. Questa era una ricchezza solo romana o anche nelle diocesi, nello stesso periodo, esistevano scholae di paragonabile levatura?
Certamente a Roma vi era qualcosa di grandioso, con professionisti ben al disopra di quello che si poteva trovare in altre parti del mondo, ed è stato così per diversi secoli. Basti pensare che la Cappella Musicale Pontificia ha annoverato per quasi due secoli i migliori cantori d’Europa. Nel periodo tra il ‘600 e l’800 quasi ovunque la musica sacra si è pian piano contaminata con lo stile del salotto e poi con quello dell’opera.
Anche Roma non è stata esente da questa corruzione dell’arte: tuttavia sono sopravvissute alcune realtà musicali in cui la pratica antica non si è mai interrotta completamente e nonostante i problemi che via via si presentavano, si è in qualche modo mantenuta una continuità. Penso ad esempio al coro della Cappella Sistina e alle cappelle delle principali basiliche. Dopo il Motu proprio “Inter sollicitudinis” di San Pio X che ha riformato la musica sacra in tutta la Chiesa – non solo in Italia! -, questi contesti hanno preso nuovo impulso e in seguito alle chiare ed inequivocabili disposizioni pontificie, tale riforma ha prodotto sia la nascita di nuove scholae cantorum che il riassetto di tante cappelle musicali già esistenti, a Roma e in tutto il mondo cattolico, Italia compresa.
Un canone sacro
- Lei tratta di autori e direttori della levatura di Perosi e di Bartolucci, peraltro entrambi sacerdoti. Si può parlare di un genere sacro proprio del tempo, allora piuttosto omogeneo, ed ora andato sostanzialmente perduto? Quali le caratteristiche anche propriamente vocali del tempo?
Con i fermenti del movimento ceciliano e la riforma del motu proprio di San Pio X si sono prodotti modelli di musica sacra funzionali alla liturgia, destinati non solo alle chiese di Roma ma a quelle di tutto il mondo. Ad esempio, le celebri “messe” di Perosi hanno conosciuto una fortuna esecutiva oggi impensabile.
Non da meno sono stati altri autori come Casimiri, Refice e Bartolucci, non solo per la loro popolarità e per il valore delle proprie composizioni, ma anche a motivo dell’attività di docenti presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra: in questo contesto si formavano tanti sacerdoti e laici che provenivano da varie parti d’Europa, dalle Americhe o dall’Oriente, che tornavano in patria arricchiti dal repertorio che avevano conosciuto a Roma e in qualche misura divulgavano anche a casa loro.
Circa la vocalità va detto che a Roma vi era un particolare modo di cantare, con un’ampiezza di fraseggio, caratteristiche espressive ed una pienezza di voce che avevano ragion d’essere nel tipo di scrittura delle musiche e nelle dimensioni e nella particolarità degli spazi in cui il repertorio era eseguito. Tale pratica musicale affondava le sue radici in una continuità esecutiva che è esistita nel corso dei secoli.
È indicativo in tal senso il celebre episodio raccontato nel suo “Viaggio musicale in Italia” (1771) da Charles Burney (1726 – 1814) e che riguarda una composizione entrata nel mito: il “Miserere” a 9 voci in due cori di Gregorio Allegri (1582 – 1652), che i cantori della Cappella Sistina cantavano ai mattutini delle tenebre della Settimana Santa. La composizione tanto suggestiva era tutelata dal veto pontificio (una sorta di copyright ante litteram) e non poteva perciò essere copiata ed eseguita altrove.
Intorno al 1680 ne fu richiesta una copia dall’Imperatore Leopoldo I D’Asburgo. La copia, concessa da Papa Innocenzo XI, arrivò alla corte imperiale di Vienna ma l’esecuzione fu assai deludente, nonostante vi presero parte i migliori cantanti di corte. Fu così che Leopoldo I credette di essere stato ingannato, arrivando a pensare che i cantori della Sistina per gelosia avessero inviato un’altra musica. Risentito per l’accaduto, il sovrano si rivolse al Pontefice chiedendogli di cacciare il maestro sistino per questo oltraggio.
Ne nacque quasi un incidente diplomatico ma alla fine il maestro della Sistina riuscì a discolparsi col Papa, spiegando che aveva ubbidito alla richiesta inviando la musica, ma non erano stati inviati con essa i cantori. Infatti, le particolarità esecutive dei cantori romani, così complesse e indicibili, non potevano essere messe per iscritto, poiché i segni grafici non sarebbero stati sufficienti a rendere comprensibile quella pratica. Questo è solo uno degli episodi che ci lasciano intendere come a Roma, già nei secoli passati, esistesse una particolare scuola esecutiva.
- Perché dunque, dal punto di vista musicale, tutto è cambiato nelle nostre chiese?
Lei mi pone una domanda che al giorno d’oggi, per chi si occupa di queste cose, è diventata una sorta di domanda esistenziale. Per rispondere a questo interrogativo ed analizzare sommariamente i vari aspetti della questione non basterebbe un libro. Credo che ci troviamo a vivere una lunga epoca di decadenza culturale e antropologica, che ha le sue ripercussioni anche nelle arti e nella pratica liturgica. Per ciò che concerne il ruolo del sacerdote che celebra, i liturgisti parlano di ars celebrandi: dunque a livello liturgico l’arte è presente in tanti aspetti – non solo nella musica – e gli artisti o presunti tali rispondono sempre alle richieste della committenza.
In merito alle problematiche musicali, spesso è di centrale importanza il modello celebrativo a cui guarda il sacerdote. Da questo modello ne consegue il messaggio che si vuole comunicare durante lo svolgimento del rito: quest’ultimo può realizzarsi come un momento interattivo, orizzontale, dove siamo convocati per socializzare e sentirci protagonisti di un evento di valenza religiosa oppure può concretizzarsi come risposta all’invito di Cristo che ci raduna per dare lode a Dio Padre, donandoci la grazia attraverso la celebrazione sacramentale della sua passione, morte e risurrezione. In ognuno dei due casi la musica non potrà che esserne una diretta conseguenza.
Musica per la liturgia oggi
- La musica da chiesa ha qualche possibilità di risollevarsi e di tornare ad avere un proprio canone fondamentale, uno stile, una dignità e bellezza propria? A quali condizioni di possibilità?
Io me lo auguro: la speranza non deve mai mancare tra i cristiani. Certamente il problema non è di facile ed immediata risoluzione: le auspicabili e necessarie disposizioni che dovrebbero giungere dall’alto, per essere applicate, debbono essere recepite innanzitutto dai vescovi e poi dai sacerdoti.
Contemporaneamente, occorre anche che il clero venga formato nella pratica musicale e nella capacità di valutare e discernere ciò che è buono da ciò che non lo è, proiettandosi così nella giusta postura liturgica, cioè quella che le norme e i documenti della Chiesa indicano, senza inventarsi un personale e fantasioso “senso pastorale” che consenta di andare oltre le norme e gli insegnamenti del magistero.
Se alla base di un’eventuale rinascita non sussistono queste rispondenze, è difficile che anche i più volenterosi e capaci musicisti possano trovare ambiti in cui realizzare concretamente una riforma della musica e del canto sacro che sia improntata al bene della Chiesa e quindi ad un maggior frutto spirituale per i fedeli: noi musicisti speriamo fortemente in una rinascita in tal senso.
Chissà poi se nel corso dell’attuale dibattito sinodale emergerà anche il tema della sacralità della liturgia e della pertinenza della musica sacra: forse in questo momento di grande abbandono della vita liturgica da parte di tante persone sarebbe importante parlarne, a patto che la discussione venga affrontata con franchezza ed onestà, senza imposizioni ideologiche.
Intanto noi musicisti continuiamo a lavorare con arte per la buona causa, quando ci è consentito, cercando di non scoraggiarci per la fatica e le difficoltà che si incontrano.
Bellissima e tristissima intervista.
Purtroppo le gerarchie oggi odiano la bellezza perché non è abbastanza popolare ossia volgare.