Marco Cimagalli è docente presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma e il Pontificio Istituto di Musica Sacra. È compositore e direttore di coro. Al maestro Cimagalli è stato affidato il compito di tracciare le conclusioni del recente Convegno della Associazione Italiana Santa Cecilia: Laudate Dominum! Che il popolo canti! (Vicenza, 3-5 novembre 2023).
- Maestro Cimagalli, vuole brevemente presentare la sua attività, specie di formazione alla musica liturgica?
Dedico gran parte della mia vita professionale allo studio e alla trasmissione della conoscenza del canto gregoriano e, più in generale, della musica sacra antica e moderna, sia in ambiente accademico ecclesiale sia laico istituzionale. Per lunghi anni, ho diretto Scholae cantorum impegnate nei servizi liturgici della città di Roma. Ora sono assorbito anche da incarichi istituzionali nelle strutture accademiche presso le quali insegno. Come compositore di musica sacra e liturgica, oltre che strumentale, sono interessato alla coniugazione della musica della tradizione cristiana ai linguaggi della modernità, per un pubblico e assemblee contemporanee.
- Veniamo al Convegno nazionale dell’AISC di Vicenza. Cosa ha proposto quest’anno?
Come sempre, ha ritrovato patrimoni e figure del passato in ragione del nostro presente. In particolare, ha indagato due grandi figure della musica liturgica del passato della diocesi di Vicenza, di assoluto rilievo nazionale: il vescovo Ferdinando Rodolfi (1866-1943) e monsignor Ernesto Dalla Libera (1884-1980). Si tratta di figure complementari nel recupero dei canoni della musica liturgica e sacra degli inizi del secolo scorso, secondo gli indirizzi del motu proprio di san Pio X Inter pastoralis officii sollecititudines del 1903. Erano, quelli, tempi molto diversi dai nostri, ma non privi di analogie con la contemporaneità: tempi storici cupi per molti versi, caratterizzati da una scarsa frequentazione delle chiese e da una ancor più scarsa partecipazione del popolo alle liturgie.
- Quali analogie, allora, tra quel passato e il nostro presente?
Allora dominava il gusto musicale operistico, tipicamente italiano, anche nelle chiese, tanto da trasformare le messe in «opere» che facilmente perdevano la dimensione del raccoglimento e della preghiera. A quella degenerazione, direi liturgica prima che musicale, ha posto argine la riforma di Pio X. Gli indirizzi pastorali del vescovo Rodolfi e il lavoro puntuale di monsignor Dalla Libera hanno prodotto importanti risultati, che il Convegno ha evocato. Oggi, più che di degenerazione dei generi e dei gusti musicali nelle chiese, parlerei di un analfabetismo musicale generalizzato, nel nostro Paese così come nelle nostre chiese. La liturgia, a mio e a nostro parere ne sta molto soffrendo. Ecco, dunque, il richiamo al grande lavoro di rieducazione liturgica e musicale di cui si sta avvertendo un urgente bisogno. Ridolfi e Dalla Libera sono apparsi importanti testimoni in tal senso.
- Come sono riusciti a ottenere risultati nei loro tempi?
Il loro tentativo, all’epoca, non avrebbe potuto riuscire se non passando attraverso i sacerdoti celebranti. Perciò la loro principale preoccupazione è stata quella di formare molto bene i seminaristi, sia nelle loro competenze liturgiche che musicali. I nuovi sacerdoti hanno gradualmente introdotto una nuova o ritrovata sensibilità liturgica, misurata e partecipativa.
- Di fronte agli analoghi problemi del presente, è possibile individuare analoghi rimedi?
Certamente, i seminari di allora erano pieni di giovani. Non si può dire la stessa cosa oggi. Tuttavia, faccio notare, da una parte, che la figura del celebrante resta determinante per l’impostazione liturgico-musicale delle assemblee; dall’altra, che da docente sono testimone di esperienze molto belle e fruttuose fatte con giovani seminaristi stranieri in formazione in Italia. Ciò mi lascia ben sperare. L’educazione musicale è stata lasciata completamente cadere nella formazione seminaristica. E chi arriva in seminario, in genere, non ne possiede alcuna. Perciò, se un lavoro di formazione musicale fosse seriamente ripreso, i risultati non mancherebbero col tempo di arrivare, oggi e nel futuro.
Questo sarebbe il primo passaggio. Il secondo, sempre traendo insegnamento dal passato, sarebbe puntare a coinvolgere maggiormente il popolo dei fedeli nella musica e nel canto. Il vescovo Ridolfi allora suggeriva di sollecitare i fedeli a cantare pochi e semplici canti. Poneva come modello la Missa simplex gregoriana (qui un esempio). Al popolo chiedeva di saper almeno rispondere, col canto, al saluto e agli appelli del celebrante.
Un ruolo molto importante di «mediazione», nella dinamica liturgico-musicale, era e ancora è esercitato dalla Schola cantorum, dal coro. Monsignor Dalla Libera è stato un musicista raffinato che ha dedicato tantissime energie alla formazione della Schola cantorum del seminario perché fosse esemplare.
- Non le sembra che, per tentare di ripercorrere analoghe vie, oggi, si debba ricorrere a giovani musicisti, professionalmente preparati, laici?
Innanzi tutto, ritengo che la liturgia, ogni liturgia, vada attentamente programmata e preparata, da un’équipe, di cui, assieme al sacerdote, facciano parte il maestro del coro e l’organista, presumibilmente laici. Certamente c’è un gran bisogno di laici ben formati da inserire nelle équipes liturgiche.
La difficoltà che vedo sta, però, proprio nei limiti della preparazione professionale. Non basta poter fruire di giovani musicisti, sia pure laureati nei Conservatori. Da docente, so bene che nei Conservatori si coltiva un’impostazione molto «laica», se non «laicista». Un tempo, chi studiava organo o composizione aveva l’obbligo di studiare anche un po’ di canto gregoriano: ora quasi nulla. Nei corsi di direzione e canto corale il canto sacro è del tutto facoltativo. L’approccio alla musica sacra, quando c’è, è solo tecnico. Pertanto, i Conservatori, non sono più in grado di offrire quella specifica preparazione liturgica e pastorale che servirebbe.
Anche su questo c’è un utile riferimento al passato. Ricordo che proprio il vescovo Rodolfi, nei primi anni del secolo scorso, quindi in età giolittiana, aveva scritto una lettera al Ministro della Pubblica Istruzione, raccomandando l’istituzione di corsi di musica sacra nei Conservatori. Una risposta dal ministro – che io sappia – c’è stata, ma intanto i vescovi hanno organizzato gli Istituiti diocesani di musica sacra, che spesso esistono tuttora. Le difficoltà, dunque, non mancano, ma, a volere, si possono ancora formare quei giovani musicisti laici che servono al futuro della musica liturgica.
- Non pensa che, se fosse intravisto un minimo sbocco lavorativo, aumenterebbero i giovani musicisti laici interessati a formarsi e a dedicarsi alla musica liturgica e sacra?
Prendiamo il caso degli organisti. Ormai le cattedre d’organo stanno sempre più diminuendo in Italia, perché i giovani non trovano sbocchi lavorativi nel nostro Paese. In chiesa, a parte per qualche matrimonio, non vengono più chiamati. Un nostro bravo organista, laureato al Conservatorio di Roma, ha trovato un ottimo lavoro, ben retribuito, in Svezia, ove è chiamato ad un servizio continuativo nelle chiese. In Italia non vedo nulla di simile. Non escludo che qualcosa possa auspicabilmente cambiare nel prossimo futuro, ma, al momento, penso che si debba ripartire dalla formazione dei sacerdoti celebranti, innanzi tutto.
- Lei diceva che neppure agli inizi del secolo scorso la frequentazione liturgica fosse un granché. Oggi sappiamo come va. Ma quanto, secondo lei, una «bella» liturgia, attrae partecipanti, anche giovani?
I fattori che determinano la partecipazione liturgica sono naturalmente tanti. Io sono tuttavia convinto che ciò che è bello e ben eseguito non manca mai di attrarre, anche e soprattutto i giovani. Mi pare che spesso siamo noi di una certa età a nutrire pregiudizi sulle facoltà dei giovani di apprezzare la bella musica, anche in chiesa; siano noi i primi a dire: «tanto a loro non piace».
Posso testimoniare che il canto gregoriano – portato ai giovani in un certo modo – piace moltissimo, perché spalanca un mondo musicale sconosciuto, che tocca corde profonde della loro sensibilità contemporanea. Non dovremmo avere pertanto paura di proporlo. Il linguaggio musicale in genere – quando la musica è bella – è in grado di toccare quelle intime corde che ineriscono il Mistero, che vanno oltre la superficie dell’esistenza e che fanno scoprire, a noi stessi, un’altra dimensione.
Anche i concerti di musica sacra nelle chiese hanno, per me, questa importante funzione. Attraggono persone che normalmente non partecipano alle liturgie. Ed è accaduto ed accade che producano vere e proprie conversioni, perché, per la prima volta, «dischiudono il senso delle Scritture». Le scienze bibliche, teologiche e filosofiche hanno naturalmente grande parte, ma la musica è un dono di particolare grazia del Signore: attrae senza troppi ragionamenti. Penso che oggi questa specifica facoltà della musica possa risultare molto incisiva.
- Quali sono i ruoli e i compiti della musica nella liturgia, e a chi spettano?
Al sacerdote spetta un ruolo fondamentale. Dovrebbe intonare almeno le parti suggerite dal Messale Romano. Se il sacerdote che presiede non canta, difficilmente ci si può aspettare che il popolo lo faccia. Secondo la Musicam sacram, il dialogo cantato tra celebrante e assemblea è il primo e fondamentale livello della partecipazione.
Poi certamente viene il ruolo del maestro del coro. Il suo compito è di raccordo musicale tra il celebrante, il coro e l’assemblea. Spesso nella liturgia la gente non canta anche perché non capisce bene quando è il momento di farlo: bastano semplici cenni di attacco, rivolti all’assemblea, per incoraggiare e dare maggiore sicurezza alla gente.
Il coro o Schola ha un doppio ruolo: sostenere l’assemblea nei canti in cui il popolo viene coinvolto e, ovviamente, cantare al meglio i brani propri. Le tecniche responsoriali, l’alternanza, anche, tra voci maschili e femminili, o tra una sezione del coro e il tutti, facilitano i passaggi da un ruolo all’altro. Chiaramente, più il coro è ben preparato e meglio è in grado di affrontare livelli crescenti di difficoltà di esecuzione. All’Offertorio, in occasione del Communio o di un secondo Communio, per esempio, la Schola può offrire il meglio delle proprie capacità, ben consapevoli, tuttavia, che la liturgia non è mai uno spettacolo, ma sempre un tempo di partecipazione e di preghiera.
Anche l’ascolto attento e ben compreso della Schola, da parte della assemblea dei fedeli, è da considerarsi già una partecipazione attiva. C’è una partecipazione invisibile «interiore» e c’è una partecipazione visibile “esteriore” (oltre che col canto, le parole recitate, i gesti): nella liturgia stanno insieme.
L’organista ha, infine, il ruolo dell’accompagnamento delle varie parti impegnate nell’azione liturgica. Più la chiesa è grande tanto più c’è bisogno del sostegno dell’organo. Dipende poi dai generi in esecuzione: il gregoriano, di per sé, non ha bisogno dell’accompagnamento d’organo, mentre altri generi lo richiedono espressamente.
L’organo può avere poi altri suoi spazi, in alternativa o in alternanza agli spazi musicali riservati alla Schola. Ha anche l’importante compito di «riempire» – «improvvisando in piano» – gli scarti di tempo che a volte si creano tra le azioni liturgiche all’altare e nel resto della assemblea. Maestro del coro e organista dovrebbero avere la capacità, con un colpo d’occhio, tra loro e all’altare, oltre che alla assemblea, di concludere un brano con un anticipo, ovvero di prolungare una musica, sino al momento «giusto», senza dar luogo a discontinuità.
- Le figure di maestro del coro e organista possono coincidere?
In passato la figura del maestro o direttore di coro praticamente non esisteva, almeno nel senso moderno a noi divenuto abituale. Spesso stava seduto all’organo: quindi la cosa è possibile. Ma in tal caso i cantori della Schola devono essere «autonomi», ben preparati. Considerate le caratteristiche medie delle nostre comunità, direi che è preferibile contare sull’una e sull’altra figura, insieme.
- Per quali generi musicali?
Anticipo che io non sono per l’adozione di un solo genere, esclusivo. Ma certamente dovremmo avere tutti ben chiara la consapevolezza che alle radici della nostra tradizione musicale liturgica c’è il canto monodico gregoriano. Si potrebbe dire, anzi, che il gregoriano sta alle radici di tutta la nostra tradizione musicale, non solo liturgica. Perciò il primo genere che andrebbe conosciuto e praticato, con serietà, ma senza soverchi timori, è, appunto, il gregoriano, in latino. La difficoltà della lingua latina si supera con le traduzioni che i coristi e l’assemblea possono avere facilmente a portata di mano. Parliamo di testi noti, quali il Kyrie, il Gloria o il Sanctus.
C’è un gregoriano semplice e orecchiabile: una sillaba, una nota; si può partire da questo per arrivare, eventualmente, ad un gregoriano con maggiori livelli di elaborazione, che una Schola ben preparata può comunque affrontare. Ma già con l’adozione del «semplice» gregoriano, la liturgia «respira»: è un effetto sicuro. Altri generi possono poi alternarsi e succedersi nelle liturgie. Le epoche storiche del nostro passato sono ricche dei tesori dei vari generi polifonici, sino ai nostri giorni.
Io preferisco l’alternanza dei generi, nel corso della stessa celebrazione e nello sviluppo delle festività dell’anno liturgico, con interventi diversificati del coro e dell’organo, insieme oppure in solo. Ogni maestro ha la facoltà di attingere dal repertorio che meglio conosce, ma la pluralità dei linguaggi è da preferire.
- Ci sono nuovi compositori e nuove composizioni utilizzabili per la musica liturgica?
Certamente sì. Ricordo che, anche quando facciamo musica del passato, la facciamo con una nostra sensibilità contemporanea. C’è poi tutto un nuovo repertorio contemporaneo dal quale si possono trarre insieme «cose vecchie e cose nuove». Ci sono esperienze molto interessanti di continuità musicale tra il passato e il presente. Io stesso, in qualità di compositore, sono impegnato in una continua ricerca (qui). Il Signore usa tanti modi per abbracciarci e, talvolta, per scuoterci con la musica nella liturgia. Chi è in grado di comporre musica alta contemporanea è pure in grado di comporre pezzi liturgici semplici e brevi per il canto del popolo. Mentre difficilmente avviene il contrario.
- Con quale lingua o quali lingue cantare nella liturgia?
La liturgia cattolica è plurilingue: è caratterizzata da espressioni in aramaico e greco tratte dalla Scrittura; il latino è profondamente radicato nella nostra tradizione, e ovviamente l’italiano è fatto per intenderci, ma nelle nostre liturgie ci possono stare pure altre lingue europee moderne, se ne è scontata l’intelligibilità. L’uso di diverse lingue può dipendere dalle circostanze celebrative, ad esempio, per includere e far partecipare tutti, con una tensione permanente verso l’apertura della Chiesa, verso l’esterno, mai nel verso della chiusura.
- C’è altro che si possa trarre dal passato a beneficio del presente e del futuro della musica liturgica?
Mi è capitato di avere studenti di rito maronita o di rito caldeo, dal Medioriente. Ho notato come fossero portatori di una memoria «orale» molto arcaica e al contempo molto moderna. In quel canto cristiano si è conservato qualcosa che in Occidente abbiamo perduto. Non sappiamo bene quali fossero i «suoni» del gregoriano antico. Ad esempio, ci sono segni di abbellimento nei libri liturgico-musicali di cui non conosciamo appieno il significato musicale. Uno studio della prassi esecutiva presso altre culture cristiane potrebbe aiutarci a raggiungere ricostruzioni sonore più verosimili, per quanto le attuali siano assai suggestive. Penso quindi che ci sia ancora molto da cercare nel passato a beneficio del canto, della musica e della fede. Per l’oggi e soprattutto per il domani.
Da non credere. Arrivato all’età della pensione 70 anni, mi sono fissato l’impegno di andare a scuola di musica, il mio obiettivo è quello di poter un giorno suonare una pianola in chiesa, per arricchire il valore della Santa Messa. Sono così scialbe le Messe non cantate. Ricordando un detto di mia nonna Palmira, che si rifaceva molto spesso hai detti di Sant’Ambrogi mi raccontava “Chi prega cantando prega due volte”. Il periodo covid ha rallentato le mie lezioni. La sig. Chiara, mia insegnante, dice che ci vuole ancora un po’ di tempo. Gli anni passano, sono arrivato a 76, spero di farcela, intanto canto.
In un periodo, che possiamo far risalire a Debussy e Strawinshji (ed altri contemporanei: Malher) la musica ha subito un processo analogo a quello delle arti figurative, vale a dire un processo di astrazione tonale (e figurativa). Si è trattato di un fenomeno globale che ha coinvolto le arti in generale. L’importanza del ritorno al gregoriano ha due significati opposti: da un lato segna il ritorno a quella che riteniamo essere la musica sacra par excellence, il che rappresenta un recupero delle “radici” dall’altro segna l’incapacità, se non l’impossibilità, di offrire, nell’era dell’atonale, una musica che in chiesa non può che essere “orecchiabile”, così come l’arte sacra non può che essere “figurativa”, perché il vissuto religioso si rivolge a figure concrete, “riconoscibil” sul piano della rappresentazione. Di qui la sterilità della produzione musicale e artistica in generale che abbia il sacro come tema centrale. Non sono né compositore, né “artista”, ma credo ugualmente che occorra cogliere il fatto incontestabile della secolarizzazione che interviene in questo settore in quanto fenomeno globale. Le chitarre in chieda sono il frutto di questa situazione di crisi profonda il cui tunnel non lascia tuttora intravvedere il chiarore dell’uscita. Per ora meglio cori gregoriani che pasticci chitarristici.
Concordo pienamente con il maestro Marco Cimagalli. Il suo intervento dovrebbe essere letto e meditato da certi improvvisati “direttori” di coretti e da strimpellatori di chitarre, ma soprattutto da certi parroci impreparati musicalmente e disposti ad accettare canzonette (più o meno Gen) prive di autentica ispirazione musicale e dai testi banali. In Italia manca del tutto un’educazione musicale di base (e se ne vedono gli effetti), ma almeno la Chiesa dovrebbe cercare di elevare un po’ il livello del gusto del popolo e dovrebbe introdurre questa disciplina nei seminari, come auspicato dal maestro Cimagalli.
Quasi tutti dopo il Concilio siamo stati contagiati dalla furia iconoclasta contro il latino ed il gregoriano, abbiamo imbracciato la chitarra e ci siamo messi a strimpellare durante le messe i motivetti dei jukebox dell’epoca, Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Oggi mi ritrovo con un senso di disagio così violento contro i canti melensi delle chiese che a volte mi rifiuto di cantare, non mi esce proprio il minimo suono. Credo che se avessimo mantenuto il latino per quelle quattro o cinque preghiere essenziali e la Missa de angelis, solo quello, per tutta la chiesa, oggi in ogni parte del mondo senza distinzione di lingue potremmo partecipare a tutte le messe. Ma è inutile piangere sul latte versato.