Se ne parla tanto in questo tempo di coronavirus. Chiese aperte sì, ma senza celebrazione eucaristica. Molti presbiteri celebrano da soli, la gente si sente smarrita; dove ancora esistono, si corre agli altari laterali per la celebrazione. C’è chi non osserva le norme e piovono le multe. C’è indubbiamente da riflettere. Un po’ di storia non fa male riguardo al digiuno eucaristico, imposto ora dal virus.
Giappone
Nel XIX secolo alcuni missionari sbarcati in Giappone scoprirono una comunità cristiana stabilitasi là nel XVI secolo, decapitata dalla persecuzione dei suoi vescovi e dei suoi preti. Era rimasta fedele all’insegnamento ricevuto e alla preghiera. I missionari non fecero altro che confermarla nella sua fedeltà. È facile supporre che questa comunità si fosse data delle regole e che avesse avuto catechisti in grado di trasmettere la religione cattolica. Avrà certamente celebrato i sacramenti, compresi i matrimoni. La presidenza dell’eucaristia sarà stata affidata a un anziano. Avrebbe potuto – secondo il parere del grande teologo benedettino, Ghislain Lafont – scegliersi un vescovo. Mediante l’esperienza, la preghiera e l’invocazione allo Spirito avrebbe potuto (forse lo fece) discernere tra i fedeli qualcuno che avesse la capacità, il carisma, di guidarla nel nome di Cristo. Ancora Lafont: «Avrebbe potuto pregare su di lui, imporgli collettivamente le mani, domandare per lui la grazia e i doni legati a questa responsabilità. Per quale ragione questo eletto non avrebbe potuto celebrare con la sua comunità l’eucaristia, connessa al comando del Signore nell’Ultima cena e sorgente per la comunità di tutta l’economia della grazia e della salvezza»? (cf. Ghislain Lafont, Piccolo saggio sul tempo di papa Francesco, EDB, Bologna 2017, p. 87).
Negli anni Ottanta il noto teologo domenicano, Edward Schillebeekx, si vide oltraggiato e deriso, messo al bando (anche se non ufficialmente condannato) dalla Congregazione della dottrina della fede, presieduta dal card. Ratzinger, per avere sostenuto che si potrebbe affidare la presidenza dell’eucaristia, in determinate situazioni, a un battezzato, persona equilibrata, capace di comprendere le situazioni, ossia di discernere e di agire. Gli si intimò di non esporre più in nessun modo la sua idea. E il grande teologo non affrontò più la questione.
Albania
Verso la fine degli anni Ottanta, entrai clandestinamente in Albania, «il primo stato totalmente ateo del mondo», come andava sbandierando il dittatore Hoxha. Arresti domiciliari per il vescovo Thaci, morto nel 1946, vent’anni di lavori forzati per il vescovo Prendsuhi, che morirà in prigione nel 1949. Arrestati e processati soprattutto i gesuiti, alcuni condannati a morte, espulsi tutti i membri non albanesi degli ordini religiosi.
L’8 marzo del 1946, dopo averlo fatto arrestare, Hoxha comanda l’uccisione del vescovo di Tirana, Fran Gjuni, con altri diciotto membri del clero e del laicato. Un mese prima era stato giustiziato il vescovo Gjiergi Volaj. Fra il 1955 e il 1965 vennero fucilati più di una dozzina di preti secolari e religiosi; altri furono incarcerati o mandati nei campi di lavoro forzato. Impedite le funzioni religiose. I vescovi titolari e i loro vicari furono mandati a spazzare le strade con la scritta in fronte: «Ho peccato contro il popolo».
Dal 1967 al 1984 la persecuzione fu spietata. Non doveva esserci nessun segno di fede cristiana. Proibiti i riti religiosi, comminate pene gravissime ai trasgressori, i pochi preti superstiti mandati tutti nei gulag. Le comunità cristiane ovviamente senza la celebrazione dell’eucaristia.
Nel 1974 vennero incarcerati gli ultimi tre vescovi cattolici. Tragica la fine dell’arcivescovo Ernst Coba di Scutari. Mentre celebrava clandestinamente la messa, venne barbaramente percosso da un gruppo di giovani e rimase esanime sul pavimento.
Della gerarchia godeva di una limitatissima libertà solo il vescovo Troshani. Lo cercai e scambiai con lui solo poche parole. A Scutari e a Tirana nel luglio 1988 ebbi la conferma che la religione non era affatto scomparsa. Il successore di Hoxha, Ramiz Alia (1985), dovette ammettere che vi erano fedeli che continuavano a credere e a praticare. Ebbi la sensazione che, alla fine degli anni Ottanta, in Albania fosse iniziata una nuova fase, sotto la pressione e le esigenze di mercato, scambi, turismo. Ebbi la conferma che i fedeli si radunavano e celebravano. Un digiuno eucaristico di anni e anni.
Kazakistan
Caduto e smembrato il vasto impero sovietico, all’inizio degli anni Novanta, andai al di là degli Urali. Visitai il Kazakistan e passai giorni a Kustanaj con padre Alessandro Ben, un conventuale di Leopoli e con lui, che aveva un vecchia mappa dei cattolici latini in Siberia e nelle repubbliche sovietiche asiatiche, trascrissi i dati.
In quelle sterminate terre si aveva bisogno di tutto. I fedeli, per lo più di origine tedesca, giunti là al tempo di Caterina II negli anni 1762-1796, mi chiedevano l’invio di libri religiosi, del catechismo soprattutto. Dopo anni di roboante propaganda ateistica, volevano approfondire la fede. La loro vita religiosa era stata sorretta da pratiche tradizionali: rosario, novene, rogazioni, benedizioni… Impossibile per il vecchio e malandato p. Alessandro celebrare ovunque la messa. Era quanto i fedeli potevano permettersi fino agli anni Settanta. Prima la persecuzione era stata feroce. Me ne parlavano tra le lacrime. Una ferocia antireligiosa e antietnica contro i credenti, che trova spazio negli atti dei martiri.
Laos
Nel 1996 visitai il Laos, poco più di quattro milioni di abitanti, insieme con l’amico Marcello Matté, redattore di SettimanaNews. Nella bellissima città di Luang Prabang, storica capitale dello Stato prima di Vientiane, c’erano 500 cattolici. C’erano il vescovo, la cattedrale, un bel seminario, il cimitero.
Nel 1975, al regime filo-occidentale si sostituì un sistema di stampo marxista-leninista in totale sintonia con gli altri Stati comunisti asiatici. E scatenò la persecuzione. Il vescovo Nantha, primo vescovo laotiano, morì nel 1984.
Sostammo davanti alla cattedrale: solo due piccole croci sulla facciata a testimoniare che era la cattedrale. Era ridotta a sala di riunioni per conto del commissariato di polizia locale. Distrutto il campanile. Un po’ più in là, il seminario divenuto scuola e, a poca distanza dalla cattedrale, il cimitero dei cattolici. Spogliato delle lapidi, cercammo invano la tomba di un missionario italiano.
Temendo che la piccola, ma vivace comunità cattolica, restasse senza l’eucaristia – espulsi tutti i missionari stranieri – il vescovo Nantha ordinò prete un suo catechista, Phanh, di famiglia vietnamita, sposato, che aveva pochissimi elementi di teologia e di liturgia. Ovviamente si consultò con il nunzio che risiedeva a Bangkok. Era Giovanni Moretti, un novarese di grande sensibilità. Si disse che Moretti fu mandato per punizione in Sudan. Cosa che mi confermò lui stesso, dicendosi pronto a rifare quello che aveva fatto.
Il vecchio Phanh, pur ammalato, continuava a celebrare l’eucaristia nella sua casa attorniato da alcuni fedeli. Non si poteva svolgere alcuna attività al di fuori di Luang Prabang. Chi tentò si trovò in carcere. Ovviamente volevamo trovarlo, ma desistemmo: gli avremmo procurato solo fastidi e avremmo indotto la polizia, che lo sorvegliava giorno e notte, a interrogarci sui motivi del nostro viaggio clandestino. C’erano certamente dei cattolici che segretamente s’incontravano per la preghiera e per ricordare la cena del Signore. Si dovette aspettare il 1988 per respirare un’aria di maggior libertà, che consentì la liberazione di vescovi e preti, che poterono muoversi, ma sempre con la massima cautela.
Cambogia
Varcata la soglia del secondo millennio, ci recammo in Cambogia per incontrare il francese p. François Ponchaud, intellettuale finissimo, lavoratore instancabile, ex paracadutista nella guerra d’Algeria, cocciuto e sorridente, benvoluto e contestato anche da missionari perché troppo khmer, animatore di scuole nella foresta. Autore di libri di storia, traduttore della Bibbia e dei testi del concilio Vaticano II in lingua cambogiana, animatore di corsi di catechesi.
«Nel 1975, quando i khmer rossi presero il potere – ci raccontò – i vescovi, i preti, i religiosi e le religiose della Cambogia potevano scegliere se restare o partire per la Francia: tutti scelsero di restare. Sono morti tutti. Scelsero l’unica via: quella della croce. Gran parte dei cristiani delle città, specialmente gli uomini, sono scomparsi durante i tre anni e venti giorni del regime khmer rosso. Nel 1979, durante la liberazione da parte dell’esercito vietnamita, a Phnom Penh non vi era che una decina di cristiani; su un gruppo di cinquanta giovani, ve n’erano solo tre. Nella chiesa di Battambang, la seconda città del Paese, non rimasero che alcuni vecchi. Tutti gli altri erano scomparsi».
A partire dal 1993 ritornarono i missionari e dovettero ricominciare da zero: traduzione della Bibbia, lezionari, catechismi, formazione dei preti e dei catechisti. Sopravvissuta alla persecuzione e al genocidio, la piccola comunità cattolica si trovava di fronte a una serie di interrogativi, ai quali cercò di dare una risposta con la «marcia sinodale» a partire dal 1990, muovendo i primi passi in un campo di rovine. Scomparsi i cristiani, dispersi i sopravvissuti, soppressi i quadri religiosi, rase al suolo le chiese con Pol Pot, nessuna celebrazione eucaristica, scuole e istituzioni confiscate. Così si espresse il vescovo Ramousse, ritornato dall’esilio in Francia: «Per quindici anni i fedeli cambogiani avevano imparato a far silenzio e a obbedire agli ordini del partito. Una volta ritrovata la libertà di riunirsi, dovevano ricominciare ad apprendere a pregare insieme, a celebrare l’eucaristia dopo un lunghissimo digiuno, ad esprimersi».
Ci auguriamo che il nostro «digiuno eucaristico» finisca presto. Per molte comunità cristiane del passato durò a lungo e per altre, quelle dell’Amazzonia ad esempio, continua ancora. Inspiegabilmente.
Ho letto il tuo articolo interessante sul digiuno eucaristico, ed anche il parere di P. Lafont.
Come un piccolo contributo al tema, vorrei menzionarti un piccolo aspetto ungherese.
Un esempio specifico dalla storia della Chiesa in Ungheria.
Tu lo sai che nel medievo, nel XVI secolo, sotto il dominio turco abbiamo avuto un problema speciale…
Non c’erano sacerdoti, nella parte centrale del paese, sotto il dominio turc, non potevano servire i fedeli….
Con appravazione della Sante Sede, anche i laici hanno ricevuto un permesso speciale per mantere la fede cristiana fra i ungheresi…
Quasi, un miracolo che noi non siamo diventati musulmani.
Una cosa concreta:
il mio collega con il quale abbiamo studiato a Roma nello stesso periodo, ha scritto la sua tesi su questa tema…
É stato pubblicato con il titolo
János Sávai: La partecipazione dei laici al lavoro pastorale in Ungeria nei secoli XVI-XVII.
Theses ad Doctorandum in S. Theologia. Pontifica Universitas Lateranensis, Facultas S, Theologiae. Roma, 1982. 141 [3] p.
Qui, nel seminario di Eger (di Csaba Ternyák) viviamo quasi in una quarantena.
Auguri, coraggio e la benedizione di Dio per tutti!
Con amicizia
Dr. habil. Dolhai Lajos,
rettore del seminario di Eger
Ho appena letto il tuo servizio in Settimana, interessante e incoraggiante, grazie.
* Rosino Giacomin è vicario di Montecchio Maggiore (VI)
J’ai lu ton article sur l’Eucharistie dans Setteminanews. Il sera éclairant pour les lecteurs Les faits dont tu fais état devraient faire penser plus à l’Eucharistie, au delà des habitudes. Il y a déjà longtemps que je pense qu’il y a trop d’eucharisties dans la vie de l’Eglise ! Assueta vilescunt ! On les a multipliées à cause de messes pour les défunts et aussi avec l’idée développée au Concile de Trente que, puisque nous péchons chaque jour, il faut un sacrifice quotidien. La foi en l’unicité absolue de la Croix du Christ risque de perdre sa force s’il y a trop de représentations sacramentelles. Notre “jeûne” actuel, évidemment excessif devrait nous conduire à quelques réflexions sur le rythme souhaitable des Eucharisties. Du moins, c’est ce que je pense actuellement, et ce que tu écris me confirme en ce sens!
Je ne suis pas curé de paroisse; si je l’étais et que ce soit possible, j’aurais proposé d’aller le dimanche dans une famille célébrer avec elle une “eucharistie domestique”
Sarebbe ora necessaria una riflessione un po’ più seria circa l’Eucaristia trasmessa per radio-tele-ecc.
I nostri padri inorridirebbero al pensiero che “i santi misteri” siano visibili tra una canale e l’altro.
Ancora oggi nella divina liturgia bizantina si evoca l’antica regola iniziatica “le porte, le porte” quando i catecumeni uscivano dall’aula prima della celebrazione dei “misteri” riservati agli iniziati.
Inoltre se così stanno le cose, come in questi giorni, la questione della scarsità dei preti sarebbe superabile con una stabilizzazione, razionalizzazione e “iniziatizzazione” dell’uso dei mezzi di comunicazione non solo per affrontare il contagio, ma per vivere più serenamente la mancanza di ministri ordinati visto che non si vuole cambiare la teologia e la prassi circa il ministero ordinato.
Il mio vecchio rettore del seminario dei comboniani mi diceva che il “coronavirus” può offrire la soluzione che il sinodo sull’Amazzonia non ha avuto la forza di trovare: disseminare l’Amazzonia di televisori e affini per seguire la Messa!!!
Insomma continuo a pensare!
Querido Francesco
He leído tu articulo
Excelente
Espero traducirlo esta tarde y se lo paso a RD (Religion Digital)
Enhorabuena
* Jesús Martínez Gordo è docente all’Università di Vitoria (Spagna).