È già ora: il Giudizio non è solo parola di futuro
Le parole del futuro cristiano sono state coperte ormai dalla duna della dimenticanza e dell’indifferenza. Fra esse quella taciuta di più è il Giudizio di Dio, con cui si chiude la vita del singolo uomo e la storia dell’intera umanità. Tuttavia, da diversi anni, a nessun tema teologico, come a questo, è stata dedicata maggiore attenzione di studio da parte dei teologi, ma anche fronte filosofico.[1]
Si attende che ad essa corrisponda ormai un’attenzione pastorale ugualmente preoccupata e intelligente, che rimetta in circolo nella catechesi, nella predicazione, nell’omelia il tema delle “realtà ultime”, le quali danno pieno senso a tutta l’esperienza umana e cristiana. La colmatura di questo vuoto pastorale s’impone con grande urgenza. È di piena evidenza che, senza la dimensione del Regno futuro e della sua vigile attesa, tutta l’esperienza cristiana (la fede, la vita sacramentale, l’impegno ascetico e virtuoso, la testimonianza e la missione) sarebbe priva di una connotazione essenziale, come viene autorevolmente notato sia dai cattolici, sia dai protestanti, sia dagli ortodossi.[2]
Serve chiedersi: come finirà?
L’antica domanda “come e dove andiamo a finire?” non perde mai di attualità, ma resta perennemente l’interrogazione cruciale sia rispetto al suo destino individuale e personale sia rispetto al significato, fine e compimento della storia. È di capitale importanza chiederci: quale futuro ultimo, da un lato, ci sia per la Chiesa, la comunità degli uomini, il mondo e la creazione (escatologia collettiva) e, dall’altro, per ogni uomo (escatologia del singolo). Come non porsi la domanda sul senso ultimo del mondo, teatro di infinite storie religiose, d’amore, di cultura, di guerre, di pace? Come rinunciare a trovare un approdo ultimo di realizzazione piena alle intraprese scientifiche, artistiche, ludiche, lavorative, commerciali, che le generazioni hanno attivato nel corso di millenni?
L’esplicita convinzione cristiana e di tantissima parte del mondo delle religioni è che, senza un futuro ultimo, mondo e storia resterebbero realtà assurde e senza senso. Così pure, come non interrogarsi e cercare risposte intorno alla realtà futura di ogni singolo uomo? «Il cristianesimo resta un fedelissimo ricercatore del senso della vita di ogni singolo uomo e offre una salvezza ad ogni singolo uomo, anche se essa si realizzerà in una comunità. Al cristianesimo non basta offrire un senso alla vita della maggioranza degli uomini o a quella degli uomini più illustri: per il cristianesimo è urgente ricercare – per dirla con Michele F. Sciacca – il senso e la salvezza della vita di “Cesare” e dello “schiavo di Cesare”».[3]
Il Giudice è alle porte
«Il Giudice è alle porte» (Gc 5,9). Ma andiamo incontro a quale Giudice? E quale Giudice sta venendo? Non potrebbe essere proprio il Giudizio la distruzione della speranza?
«L’immagine del Giudizio finale è, in primo luogo, non un’immagine terrificante, ma un’immagine di speranza; per noi forse addirittura l’immagine decisiva della speranza»,[4] perché il suo contenuto è la salvezza che si trasforma in gloria. Di conseguenza, non separando Giudizio e salvezza, non si chiude il varco alla speranza. «Alcuni teologi recenti sono dell’avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L’incontro con Lui è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro e il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza».[5]
Il Giudice è il Fratello necessario dell’imputato
È la “qualità” del Giudice la ragione della nostra speranza, che fa attendere con fiducia il suo ritorno e l’atto di autenticazione della nostra esistenza e della nostra vocazione che egli verrà a compiere. Abbiamo anzitutto speranza, perché quel Giudice è il Figlio essenziale, infinitamente amato dal Padre, ed è il nostro Fratello maggiore, che per noi s’è fatto uomo, ha patito e ha offerto la sua vita in sacrificio. Ad un tempo. l’infinita filialità di Cristo è anche, sorgivamente, il titolo di quello che egli è per gli uomini, il salvatore unico, perfetto e universale.
Lo stupore credente si fa massimo nel considerare che Cristo non solo salva in quanto Figlio, ma salva facendo diventare figli di Dio, il nome più alto della salvezza che egli impetra e media per gli uomini, i quali diventano suoi fratelli e perciò figli. Nella generazione umana i fratelli non sono affatto implicati; nel cristianesimo, invece, noi crediamo che si diventa figli del Padre passando per la vita del Figlio, il che significa diventando fratelli di lui. Senza tale passaggio attraverso il fratello Gesù, nessuno diventerebbe figlio di colui che gli è Padre in modo essenziale.
Il Giudice è l’Avvocato dell’imputato
È affermazione, grandiosa per la sua profondità caritativa, quella che campeggia nella 1Giovanni intorno all’opera fraterna di Gesù nei cieli: «Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (2,1-2).
San Giovanni arricchisce i sensi di «avvocato» con quelli di «vittima di espiazione»: questo è un nome più chiaramente teologico che aiuta anche a capire che cosa significhi che Gesù sia «avvocato» per gli uomini presso il Padre.
L’ottimismo di Paolo riguardo alla natura del Giudizio per il cristiani è comunemente rilevato dai commentatori moderni: attraverso le sua Lettere si ha l’impressione che la grande maggioranza dei discepoli pensi al Giudizio con speranza e fiducia, anticipandolo addirittura nel desiderio per il motivo che Cristo stesso è il loro avvocato (cf. 1Cor 4,4) e intercessore (cf. Rm 8,34).
La sorpresa è che quel Giudice è anche avvocato. Questo ossimoro (che insegue l’esistenza di Cristo dall’inizio alla fine) fa sentire la forza potente del suo stridore, che scaturisce dalla coincidenza dell’essere egli, ad un tempo, avvocato e Giudice, due figure che gli uomini, nella loro vita, non vedono coincidere nella stessa persona; anzi essi sanno che esse vanno rigorosamente distinte, pena la legittimità e la giustizia del giudizio.
Gesù non spezza la sua persona (rinunciando a sintetizzare Giudice e avvocato), non spezza il suo rapporto con Padre (contraddicendo la sua intercessione sulla Croce e nei Cieli), non spezza il filo forte che lega giudicare e amare, giudicare e perdonare. Giustificata è la fiducia in Gesù giudice proprio perché è anche Avvocato.
«Supponiamo – scrive sant’Agostino – che tu abbia una causa da discutere presso un qualche giudice, e ci metti di mezzo un avvocato; questi prenderebbe la tua parte, discuterebbe la tua causa meglio che può. Ma se, per caso, non potesse portarla a termine e tu venissi a sapere che proprio lui verrà come giudice, come saresti contento di poter essere giudicato da lui che fino a poco tempo prima era il tuo avvocato! Adesso egli prega per noi, interpella per noi (cf. Rm 8, 34; Eb 7,25); lo abbiamo come avvocato e lo temeremo come giudice? Al contrario, se l’abbiamo mandato avanti come avvocato speriamo con sicurezza quando verrà come giudice».[6]
Il libro del Giudizio nelle mani ferite del Salvatore
Misericordia e giustizia non sono opposte: la misericordia di Cristo è giusta e la sua giustizia è misericordiosa: fare giustizia significa salvare. Possiamo significare il riaccostamento del Salvatore e del Giudice con un’icona: è una specie di Dies irae di pietra scolpito sul protiro della cattedrale di Ferrara (prima metà del XIII secolo).[7] Nella sua prima visione celeste l’apostolo Giovanni vide nella mano destra di colui che stava seduto sul trono un libro a forma di rotolo,[8] scritto sia sul lato interno sia su quello esterno (cf. Ez 2,9). Al “libro” nulla si può aggiungere e nulla si può togliere e, in questo senso, esso rappresenta un intero, una totalità, come pare affermare il Dies irae: «Liber scriptus proferetur, in quo totum continetur». È tanto una totalità, il libro che, nell’ottica apocalittica, il libro (la parola rivelata) è ritenuto più grande del mondo: simbolicamente il libro lo contiene.
Qui c’è un’allusione profetica al Giudizio: il libro, da un lato, è immediatamente decifrabile (vi si leggono lamenti, pianti e guai), dall’altro, invece, è indecifrabile e sigillato,[9] nonostante il fatto che sia scritto pure fuori: «il libro scritto dentro e fuori»[10] è il Cristo stesso. Così il libro assurge a simbolo della suprema salvezza.
Questo significato, nel bassorilievo della cattedrale di Ferrara, è rimarcato dal particolare che il Giudice tiene il libro aperto, appoggiato sul ginocchio sinistro, tenendolo come protetto con le mani ferite nella passione, che ricordano il suo amore di Redemptor hominis.
Nel libro, dove tutto è registrato, non può che prevalere l’aspetto accusatorio. Alla stessa altezza del libro, da ambo i lati, sono però mostrate le palme aperte e piagate del Crocifisso risorto. Il libro potenzialmente tutti condanna; le piaghe del Giudice, invece, tutto coprono (cf. 1Cor 13,7). Il codex, semplicemente poggiato sul ginocchio sinistro, sembra così rappresentare una componente esterna dell’attività di un Giudice crocifisso, che nel suo corpo ha infisse solo le piaghe e non già le accuse contro l’uomo[11]. Il Giudice è colui che ha patito ed è morto perché il nome di tutti i suoi fratelli fosse iscritto sul libro della vita, cioè perché ognuno di loro prendesse parte alla salvezza eterna (Lc 10,20; Fil 4,3; Eb 12,23).
Giudizio di misericordia e di verità
La stessa logica si ritrova nel Nuovo Testamento, nel quale il Giudizio di Dio è collegato all’opera salvifica di Gesù, il Figlio dell’uomo, al quale il Padre ha dato il potere di giudicare ed egli lo eserciterà su quanti usciranno dai sepolcri, separando quanti sono destinati ad una risurrezione di vita da quanti sperimenteranno una risurrezione di condanna (cf. Gv 5,26-30). Ma va ricordato che «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17). Si tratta, ad un tempo, di un giudizio di misericordia e di verità: chi avrà rifiutato la salvezza, offerta da Dio con una misericordia sconfinata, si troverà condannato, perché si sarà autocondannato. Giudizio e misericordia vengono così compresi come due dimensioni dello stesso mistero d’amore: «Dio infatti ha racchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia» (Rm 11,32).
Saremo giudicati sull’amore
«Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore».[12] Accadrà che il Giudice si volgerà verso i malvagi e dirà loro: «Io avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi. Io, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla terra, li ho costituiti come vostri fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me».[13] La verità è che i discepoli sono chiamati a percorrere la via amoris per giungere al Giudizio maturi e trasparenti alla persona del Cristo. Tale via il Vangelo la indica a tutti perché tutti sono chiamati ad essere samaritani di tutti, non solo dei propri compagni di religione (cf. Mt 25, 35-36).
Gesù vuole farsi rappresentare dal sacramento dei fratelli poveri e deboli: ai discepoli è chiesto che, in loro, egli sia riconosciuto e trattato bene bene. «Vuoi onorare il corpo di Cristo? – si chiede Crisostomo –. Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità».[14] Risuona la voce profetica del Giudice mite: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). E, viceversa: «Ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me» (Mt 25,45). La voce di questa affermazione di Cristo Giudice sarebbe per noi la più temibile per il motivo che sarebbe la più dispiaciuta uscita mai dalla sua bocca.[15]
Saremo benedetti se avremo amato
La premiazione dei giusti è annunciata in tre proposizioni: la benedizione del Padre, il possesso del Regno, la vita eterna. «Venite, benedetti del Padre mio» (Mt 25,34). La presenza del Padre aiuta a identificare la natura del Giudizio. Gli uomini sono giudicati in base al loro amore a Cristo, ma è al Padre che fanno capo. Egli è il principio e il termine del piano della salvezza. Il Figlio deve rimettere a lui le sorti del Regno che è venuto a conquistare sulla terra (cf. Lc 19,2). Esso sarà da allora in poi il Regno del Padre e i fedeli saranno ugualmente gli eletti del Padre, al quale apparterranno eternamente (cf. Mt 13,41-43).
Riconsegnando l’intera creazione al Padre, apparirà chiaro che tutto è orientato ascensivamente verso di lui: «il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,23). Ancora una breve nota su «benedetti del Padre mio» (Mt 25,34). Questa espressione non significa altro che benedetti appartenenti al Padre mio.
San Paolo delinea uno scenario grandioso del Giudizio finale, che unisce alla descrizione la sua interpretazione teologica, come una filigrana che ad essa non si sovrappone, ma tuttavia la rende decifrabile: «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,2-28).
Una “terra asciutta” per i piedi dei pellegrini dell’Assoluto
Il termine usato (afàr) per descrivere la «terra asciutta» sulla quale Giona venne vomitato dal pesce (cf. Gn 2,11) è lo stesso che si trova nel libro della Genesi alla fine del diluvio, quando Noè, scoperchiando l’arca, vide che la superficie del suolo era asciutta (cf. Gn 8,16). La terra asciutta di Noè è l’inizio di una nuova vita, segno della ritrovata grazia di Dio, terra di salvezza.
Così come per Giona l’asciutto è l’inizio di un viaggio che lo porterà ad annunciare un Giudizio che comporterà la salvezza per la città di Ninive (cf. Gn 1). La terra asciutta diventa dunque terra di salvezza così come fu per i figli d’Israele quando attraversarono il Mar Rosso (cf. Es 14,1-31). In ogni ora della storia, Gesù chiama all’accoglienza, ad essere quella terra asciutta che può costituire occasione di salvezza per molti, in cui si aprono prospettive nuove di speranza e di vita.
Come Giona portava con sé una parola di Giudizio per la città di Ninive, così anche i poveri e gli ultimi di tutti i tempi portano per i cristiani una parola di Giudizio, contro il loro disamore e la loro chiusura agli altri. Tale parola di Giudizio è per loro un invito alla conversione così come lo fu per i Niniviti: l’appello profetico dell’ultimo giorno chiama a conversione le Chiese nella loro globalità per diventare esse pure terra aperta all’accoglienza, alla cura della solidarietà, alla pratica della giustizia, alla profezia della pace.
Con questa apertura a stella verso i capitali valori del Vangelo di Gesù i cristiani e le Chiese potranno diventare quella terra asciutta sulla quale in molti potranno poggiare i loro piedi di pellegrini dell’assoluto, di profughi da patrie non più affidabili, di poveri che aspettano lavoro, cibo e cultura, di uomini che cercano a tentoni un senso per vivere e per morire, un nome alla loro esistenza e alla loro persona, al loro futuro prossimo e ultimo.
[1] Cf. di Salvatore Natoli: Il crollo del mondo. Apocalisse ed Escatologia, Morcelliana, Brescia 2009; Cf. anche: G. Cuozzo, Filosofia delle cose ultime, Moretti & Vitali, Bergamo 2013.
[2] Cf. Associazione Teologica Italiana, L’escatologia contemporanea. Problemi e prospettive, a cura di G. Canobbio e M. Fini, Il Messaggero, Padova 1995, 81-245.
[3] M.G. Masciarelli, Maria: un’esistenza compresa fra due grazie. Riflessioni teologiche sull’Immacolata Concezione e sull’Assunzione, in Aa.Vv., Il mistero della Vergine-Madre. Lezioni di teologia mariana, a cura di M.G. Masciarelli, Curia Arcivescovile, Chieti 1991, 177.
[4] Benedetto XVI, Lettera enc. Spe salvi (30.11.2007), n. 44. Da ora in poi: Ss. Rispetto ai molti punti dell’Enciclica che verranno riportati, cf. M.G. Masciarelli, La grande speranza. Commento organico dell’Enciclica «Spe Salvi» di Benedetto XVI, Tau editrice, Todi (PG) 2008.
[5] Ss, 47.
[6] Discorso 213, 6.
[7] Cf. P. Stefani, Per una lettura iconografica del protiro della cattedrale di Ferrara, in Humanitas, 52 (1998/3), 555-570.
[8] Oltre al simbolo del trono, che di per sé è simbolo particolare ed eminente ed è assai importante per l’evento del Giudizio, c’è il simbolo del libro, che si lega in modo assai significativo ed evocativo della figura di Cristo Giudice, che è stato «l’unico Dio che l’arte antica abbia raffigurato con un rotolo scritto fra le mani (E. R. Curtius, II libro come simbolo, in Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze 19932, 344).
[9] Il libro sigillato con sette sigilli, che nessuno, tranne l’Agnello, saprà aprire (Ap 5,1 ss.; cf. Is 29,11).
[10] S. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, 6,7.
[11] Cf. P. Stefani, Dies irae. Immagini della fine, Il Mulino, Bologna 2001, 147-149.
[12] S. Giovanni della Croce, Avisos y sentencias, 57: Biblioteca Mistica Carmelitana, v. 13 (Burgos 1931), p. 238.
[13] S. Agostino, Sermones, 18, 4, 4.
[14] S. Giovanni Crisostomo, In Matthaeum hom. 50,3.
[15] Cf. M.G. Masciarelli, Parrocchia sinodale. Casa del popolo di Dio, Tau Editrice, Todi (PG) 2016, pp. 44-45.