Con l’Avvento 2020 la Chiesa italiana ha inaugurato l’uso della nuova edizione del Messale romano. L’attenzione dei media cade inevitabilmente sulla traduzione del Padre nostro, che in realtà esiste dal 2008 nella nuova edizione della Bibbia CEI, si focalizza su una frase cambiata all’inizio del Gloria, sull’aggiunta di “sorelle” a “fratelli” nel “Confesso” e su poco altro. A pensarci bene, non si tratta di quella grande rivoluzione che, dopo diciannove anni di lavoro, ci si sarebbe aspettati.
Non scrivo come liturgista; non lo sono affatto né pretendo di esserlo; sono piuttosto docente di sacra Scrittura ormai da trent’anni, ma scrivo qui anche come parroco e, in quanto tale, non riesco ad unirmi ai commenti comprensibilmente entusiastici che varie autorità ecclesiastiche stanno rilasciando in questi giorni. Non intendo offrire una riflessione sistematica, ma solo qualche impressione nata da una prima lettura del nuovo Messale.
Un Messale nato… già maggiorenne!
A ben vedere, questa nuova edizione del Messale non contiene cambiamenti epocali, al di là di tante (ma non troppe) modifiche che in buona parte sono certamente positive; in realtà non si vede in questo Messale un vero e proprio progetto di fondo. La ragione è facile da capire e gli stessi estensori di questa nuova edizione del Messale ben la conoscono. Dal 2002 sino al 2017 il lavoro relativo a questo Messale è stato bloccato dal documento del 2001 Liturgiam authenticam che, a suo tempo, creò anche notevoli problemi alla revisione della Bibbia CEI 2008.
Non esito a definire Liturgiam authenticam un documento improvvido, il cui limite più evidente è stato certamente la pretesa di esigere una traduzione letterale dei testi liturgici dal latino e, per quanto riguarda la Bibbia, un costante riferimento alla Neovolgata.
Liturgiam authenticam è un documento che ignora i principi più elementari del tradurre e, per quanto riguarda le traduzioni liturgiche, ignora soprattutto il fatto che ogni lingua – e conseguentemente ogni cultura – è produttrice di nuovi testi e che la tradizione della chiesa non si protegge attraverso la difesa di un letteralismo legato a una lingua ormai morta.
Liturgiam authenticam non comprende affatto che la liturgia non è statica, ma dinamica per sua stessa natura e che ogni lingua e cultura produce e deve produrre testi propri; ragione in più per non porre la barriera del latino. Un documento che è frutto di quella stagione dalla quale non siamo del tutto usciti e nella quale sembrava si dovesse chiedere scusa ogni volta che si citava il Vaticano II o non lo si citava secondo la vulgata papale (o episcopale) di turno.
L’impasse provocata da Liturgiam authenticam è stata superata solo dal documento voluto da papa Francesco nel settembre 2017, Magnum principium, che ha consentito di fatto di completare il lavoro e, detto in termini più grossolani e certamente poco generosi, ha consentito di salvare il salvabile.
Mi rendo ben conto che, dopo tanti anni di lavoro, non si poteva certo lasciar cadere tutto, perdendo anche ciò che di buono era stato fatto. Ma c’è anche da chiedersi se, a questo punto, non si doveva trovare il coraggio di rimettere tutto in discussione, proprio alla luce del nuovo documento pontificio che ha permesso di superare tante resistenze.
Osservo di passaggio che per la revisione della Bibbia CEI era avvenuto l’esatto contrario: un lavoro di revisione sostanzialmente ben fatto, ormai concluso e consegnato dalla commissione dei traduttori ai vescovi prima del 2001, era stato bloccato e poi di nuovo rivisto tra il 2001 e il 2008, proprio a causa di Liturgiam authenticam.
All’epoca facevo parte della commissione per la revisione della traduzione della Bibbia CEI del 1971 e ho vissuto questi eventi dall’interno, fino appunto a Liturgiam authenticam. Il risultato è stato, in estrema sintesi, quello di una buona occasione sostanzialmente persa; una revisione certo con molti pregi, ma che avrebbe potuto essere notevolmente migliore, senza le pastoie vaticane (ma talora anche episcopali).
Un Messale nuovo in tempo di pandemia
Si dirà che questa è la Chiesa reale, con i suoi pregi e con i suoi difetti, una Chiesa spesso ahimé gattopardesca – cambiare qualcosa per non cambiare nulla –, da amare per quello che è; in ogni caso, bisogna essere soddisfatti di ciò che papa Francesco ha permesso di fare, soprattutto con Magnum principium. Anche se vi saranno sempre altri cattolici che, per ragioni esattamente opposte alle mie, saranno assolutamente scontenti e che se la prenderanno proprio con Francesco accusandolo di aver tradito la “Tradizione” [quella “tridentina” in questo caso].
Ma la vera ragione del mio mancato entusiasmo è piuttosto un’altra. Negli ultimi giorni di novembre (il 24/11) il consiglio permanente della CEI ha offerto un bel messaggio alla Chiesa italiana «in tempo di pandemia» nel quale, grazie a Dio, non si nomina neppure la nuova edizione del Messale, ma si richiama piuttosto, tra altre cose significative, la necessità di recuperare la dimensione domestica della preghiera.
Questi mesi di pandemia, come in un’altra occasione ho avuto modo di notare, sempre su questo sito dei “Viandanti”, ha rappresentato un tempo di crisi, soprattutto per la Chiesa e in modo particolare, in relazione a ciò di cui sto scrivendo, per la Chiesa cattolica in Italia. Le nostre chiese, almeno in Italia, sono ormai semivuote e non solo perché le persone hanno paura del contagio o perché le nostre celebrazioni sono così fredde e distanziate o perché le norme anticontagio ci consentono ingressi a numero limitato.
Vi sono ragioni ben più profonde. Il virus ha messo in luce l’incapacità della nostra Chiesa di dare, nel suo complesso, risposte profonde alla crisi che stiamo attraversando. Il modello di una Chiesa la cui attività è stata per lungo tempo quella di dispensare i sacramenti, di presentarsi come un’agenzia del sacro e come una produttrice di attività gestite essenzialmente dal clero o da fedeli ampiamente clericalizzati, è entrato radicalmente e forse definitivamente in crisi.
A parte papa Francesco, ad esempio nella Fratelli tutti, sono piuttosto rari gli interventi ecclesiali significativi che ci aiutano a riflettere su questa realtà di crisi legata alla pandemia. Con l’aggravante che le poche voci che sembrano far breccia tra molti fedeli cattolici sembrano affidate piuttosto alle farneticazioni di Radio Maria, senza che di questo nessun vescovo sembri scandalizzarsi più di tanto.
In questo contesto, non c’è motivo di rallegrarci se vi sono appunto alcuni vescovi, preti e qualche laico non di rado più clericale di loro che si illudono che l’uscita del nuovo Messale possa costituire in quanto tale un punto di partenza sicuro per rinnovare le liturgie delle nostre assemblee ormai stanche e svuotate. Rischiamo seriamente, quando la pandemia sarà passata, di risvegliarci all’improvviso come da un brutto sogno e di scoprire che le nostre chiese sono ancora più vuote di prima.
Forse era questo il tempo di puntare sulla riscoperta della dimensione domestica e familiare della preghiera e, per quanto riguarda l’Eucarestia, di puntare su una reale partecipazione attiva dei fedeli, non bloccata dall’insistere sulle norme di un Messale in ogni caso ancora legato agli schemi teologici dei Messali precedenti, vista anche la sua tormentata genesi.
Mi permetto un piccolo esempio di natura molto pratica: nell’ultima riunione dei preti del mio vicariato è venuta fuori l’affermazione, già del resto letta su canali ufficiali della CEI, che una delle novità positive del nuovo Messale è la possibilità di cantare il testo della Messa, in particolare il prefazio e la preghiera eucaristica, con melodie nuove, del resto evidenti anche graficamente nel testo del Messale di cui, detto per inciso, non mi dispiace del tutto l’impostazione grafica minimalista. Benissimo; ne siamo tutti contenti.
Ma siamo davvero convinti che sarà questo il genere di rinnovamento liturgico che riavvicinerà giovani, famiglie e bambini alle nostre celebrazioni? O ci troviamo di fronte, ancora una volta, a una tendenza estetizzante tipica di tanti liturgisti e di prelati che non tengono conto della realtà concreta della vita delle persone?
Un ulteriore esempio: è pur vero che nel rito Ambrosiano da secoli si usa il Kyrie eleison, che non è mai stato del tutto messo da parte neppure nel rito Romano; nel nuovo Messale lo si propone tuttavia come prima scelta per l’atto penitenziale; si pensi ora di farlo cantare a una assemblea di famiglie e di bambini! «Signore pietà» suona oggi tutt’a un tratto così male? È possibile. Ma in questo caso l’italiano poteva offrire formule diverse, anche bibliche, come «perdonaci, Signore». Rahner ci ricordava con fine ironia che la Chiesa cattolica del postconcilio, dopo aver smesso di parlare latino, ha iniziato con il greco…
Tra novità positive e progetti mancati
Non entro qui in dettagli che ci porterebbero lontano e per molti aspetti fuori strada; nella nuova edizione del Messale romano ci sono senza dubbio cambiamenti positivi, come ho già detto, pur senza che si veda un progetto globale, ma si tratta di una mano di vernice nuova data su un telaio purtroppo ancora vecchio.
Nonostante ciò, alcuni di tali cambiamenti hanno già fatto gridare allo scandalo manipoli di agguerriti tradizionalisti, come ad esempio l’aggiunta di “sorelle” accanto a “fratelli”, cosa che peraltro tanti di noi preti già facevamo, nella libertà dei figli di Dio, anche senza aspettare il Messale nuovo.
Mi chiedo tuttavia, a proposito di linguaggio inclusivo, come mai non si preveda anche che una donna non possa dire “Signore non sono degna”, come le mie “vecchine” – detto in modo affettuoso e senza alcuna intenzione di offendere – fanno da anni, senza bisogno di nuove traduzioni.
Come mai, inoltre, visto che ho ricordato i “fratelli”, è scomparso “fratello” a proposito di Gesù nella V preghiera eucaristica C; Gesù “fratello” è in realtà un tema biblico: la lettera agli Ebrei ricorda che Cristo non si vergogna di chiamarci “fratelli”: cf. Eb 2,11.
La «rugiada dello Spirito» presente nella Seconda preghiera eucaristica sarà poi senz’altro una bella immagine poetica, ma di sicuro non si trova come tale nelle Scritture e farla passare come “biblica” è dichiarare il falso; biblica è certamente la “rugiada”, ma non quella dello Spirito.
Un esempio forse meno evidente, ma a mio parere non marginale e per certi aspetti teologicamente preoccupante: la preghiera universale o preghiera dei fedeli è affidata – dicono le norme del Messale – prima di tutto al diacono, poi a un lettore, poi a un fedele idoneo; l’assemblea partecipa con un’acclamazione o con il silenzio. L’idea che le singole intenzioni possano nascere dalla stessa assemblea, preferibilmente in modo spontaneo e almeno in parte legate alla vita della comunità, non sfiora gli estensori del Messale. Che anzi offrono insieme al Messale stesso un secondo volume (Orazionale) interamente dedicato alle intenzioni preconfezionate della preghiera universale. Sono sicuro che tale volume verrà ampiamente usato, tarpando così ulteriormente le ali a qualunque forma di partecipazione attiva a questo riguardo (anche se non sarà peggio dei terribili foglietti liturgici in uso in tantissime parrocchie italiane).
Confesso un mio peccato: ho già fatto sparire quel volume, fresco di stampa, perché non nascano tentazioni in parrocchia; in questo tempo di pandemia, in queste celebrazioni statiche e con la chiesa semivuota, senza giovani e bambini, sto cercando di stimolare i miei pochi parrocchiani ancora rimasti a proporre intenzioni di preghiera sincere e autentiche per il mondo, per la Chiesa, per le persone che soffrono, per la nostra comunità, sia per i vivi che per i defunti, facendole a voce alta, dal proprio posto. Stimolando i fedeli ad essere loro stessi protagonisti della propria preghiera, al cuore dell’Eucarestia che celebriamo insieme.
Certo, la mia è una parrocchia piccola; in una parrocchia molto grande, con centinaia di persone che frequentano l’Eucarestia domenicale una preghiera realmente spontanea diviene problematica – e persino rischiosa (anche se le mie esperienze in America Latina mi spingerebbero a dire il contrario); ma che cosa vieta di affidare ogni volta ad alcuni fedeli la preparazione di intenzioni di preghiera legate alla realtà quotidiana e alla vita della comunità, senza dover attingere a testi preconfezionati?
Traduzione nuova, teologia vecchia?
In realtà, al di là dei dettagli e di soluzioni a volte anche interessanti, la nuova edizione del Messale rivela nel suo complesso il permanere all’interno del quadro di una teologia ancora vecchia. Questo è evidente in particolare nel campo dell’ecclesiologia; qui il problema degli estensori del Messale era il doversi confrontare con la Editio typica latina, il che ci dice che la questione è in realtà ancora più profonda.
Un esempio ci viene dalle preghiere eucaristiche: nella Seconda preghiera eucaristica, ad esempio, l’espressione «e tutto l’ordine sacerdotale» diviene «i presbiteri e i diaconi»; giusto: ma sarebbe stato bello vedervi aggiungere la menzione del popolo di Dio, che viene qui del tutto dimenticato. Il popolo di Dio è citato invece nella Terza preghiera eucaristica, ma qui il «collegio episcopale» è divenuto (seguendo il latino) l’«ordine episcopale», quasi come se quello episcopale fosse un sacramento a se stante distinto da quello dei presbiteri e dei diaconi.
Nella formula della consacrazione è stato felicemente evitato lo scoglio del «pro multis» caldeggiato a suo tempo da Benedetto XVI, ma non si è avuto il coraggio o semplicemente l’accortezza di togliere «in sacrificio» dalle parole sul pane, un termine peraltro neppure presente nel testo latino e in ogni caso assente dai quattro testi eucaristici neotestamentari. Per non dire che «offerto in sacrificio per voi» avrebbe dovuto essere tradotto, se davvero fosse stato seguito il latino («qui pro vobis tradetur»), con «che sarà offerto / consegnato per voi».
Così avviene che, nella formula della consacrazione usata in Italia, facciamo dire qualcosa che Gesù non ha certamente mai detto, per non parlare dell’introduzione, in questo contesto centrale della celebrazione eucaristica, dell’idea teologica di “sacrificio” che, come tale, è assente dai testi eucaristici di Matteo, Marco, Luca e 1Corinzi. Sono esempi di come, da un lato, si è voluto seguire il latino, dall’altro, non lo si è fatto proprio quando sarebbe stato più opportuno farlo.
Sui media, come ho già detto, si fa poi passare per novità la “nuova” traduzione del Padre nostro (in realtà del 2008), in particolare la formula «non abbandonarci alla tentazione», per giustificare la quale si è tirato spesso in ballo lo stesso papa Francesco.
Chi scrive è stato otto anni presidente della Associazione biblica italiana e in questa veste mi sono preoccupato di intervenire a suo tempo perché questa traduzione fosse modificata, dato che non corrisponde al testo evangelico, anzi, ne costituisce sotto molti punti di vista una sorta di travisamento, lasciando addirittura pensare che Dio possa persino abbandonarci. Non entro qui in spiegazioni esegetiche che ci condurrebbero troppo lontano e che altri hanno già offerto.
Il prof. Pietro Bovati sj, segretario della Pontificia commissione biblica, ha pubblicato al riguardo un profondo articolo su Civiltà Cattolica per difendere una diversa, possibile traduzione (cf. Civiltà Cattolica, quaderno 4023; I-2018; 215-227), ovvero quella che per lui è la miglior traduzione possibile: «non introdurci nella prova».
Bovati propone addirittura una traduzione più libera, secondo le equivalenze dinamiche: «non metterci alla prova»; questa è anche la traduzione offerta dalla Nuova Bibbia della Riforma, da poco pubblicata, che avrebbe anche il vantaggio di essere una traduzione ecumenica. Più letteralmente si potrebbe anche tradurre: «non farci entrare nella tentazione», come proponemmo con molti biblisti italiani.
Questo è un esempio che mi tocca direttamente come biblista e che rivela come una delle tanto conclamate novità della nuova traduzione usata dal Messale non sia affatto conforme al testo evangelico. E tuttavia, «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare…», per dirla con Dante. È raro che nella nostra Chiesa si torni indietro su decisioni prese, anche quando ci si rende conto che sono quantomeno inopportune, se non addirittura errate.
Libro del prete o punto di partenza per una liturgia davvero partecipata?
La situazione di pandemia che stiamo vivendo ha creato adesso condizioni che non sono certo dispiaciute a molti difensori della tradizione preconciliare e del vecchio rito tridentino: niente scambio della pace, niente movimenti in Chiesa, niente possibilità di comunione sotto le due specie, niente gesti strani al Padre nostro…
A questo riguardo, il Messale prevede che vengano esclusi gesti non consoni con l’orientamento della preghiera al Padre, ma che si possono tenere le braccia allargate. Io non sono di per sé un entusiasta del tenersi per mano; eppure anni fa nella mia parrocchia, spiegando ai bambini la paternità di Dio, i bambini hanno iniziato a tenersi per mano al Padre nostro; se Dio è nostro Padre, noi siamo tutti fratelli (e sorelle, ovviamente).
In pochi mesi questo gesto si è esteso a tutta la mia comunità, anche ai parrocchiani più riottosi; non ho visto alcun motivo serio per ostacolarlo e, pandemia a parte che ora ce lo proibisce, non vedo ragioni per non doverlo continuare a fare.
Lo stesso dicasi del segno della pace (ora più biblicamente del “dono” della pace, anche se in verità solo Dio può realmente donare la pace, noi possiamo solo costruirla, trasmetterla); dovrò forse dire ai miei bambini, se ci saranno ancora, di non girare più per la chiesa a scambiare la pace un po’ con tutti, perché le norme liturgiche prevedono di farlo sobriamente solo con il vicino? Ma non è il popolo di Dio che deve adattarsi a una gestualità codificata da un libro e spesso estranea alla vita delle persone; è piuttosto la liturgia che deve prendere i suoi gesti da quelli che il popolo di Dio già vive e sente come suoi; del resto è così che ha fatto Gesù.
Quando la pandemia – lo speriamo – sarà passata, c’è il rischio che la nuova edizione del Messale divenga un ulteriore freno alla vita della Chiesa, se esso viene adesso presentato come un manuale da osservare puntigliosamente, come già si legge in un recente articolo di Avvenire: «No alle Messe fai da te» (Avvenire del 21 novembre 2020).
Il Messale non è tuttavia un dogma di fede né tantomeno un libro di scuola; è, o dovrebbe essere, un punto di partenza per un cammino di fede e di comunità, in vista di una liturgia realmente partecipata e creativa. In questo caso, se dal papa venisse un nuovo documento sulla scia di Magnum principium, se allo stesso tempo dal popolo di Dio nascesse un rinnovato senso liturgico, il Messale non sarebbe più il libro del prete, come salvo eccezioni lo è ancora adesso, con il vescovo di turno che raccomanda ai suoi preti di studiarlo, come se fosse appunto un libro di scuola, e di spiegarlo ai parrocchiani, come se essi fossero tanti scolaretti da istruire.
Questo Messale già maggiorenne nel momento in cui esce, con i suoi indubbi pregi e nonostante i suoi ancora molti difetti, diventerebbe così uno strumento di grazia e di fede per una liturgia realmente viva, creativa, partecipata.
- Don Luca Mazzinghi è docente presso la Pontificia Università Gregoriana. Questo suo intervento è apparso sul sito dell’Associazione “Viandanti”.
Vent’anni per fare un Messale. I nuovi catechismi li aspettiamo da 40 anni. Forse in Vaticano dovrebbero fare un corso su come prendere delle decisioni in tempi accettabili. Poi con tutti i problemi che ci sono, forse forse un nuovo Concilio… Oppure, aspettiamo prima qualche scisma.
Concordo con la riflessione di don Luca. Vorrei aggiungere che mi sarei aspettato un cambiamento anche per l’invito del sacerdote e la risposta dei fedeli alla fine dell’offertorio. Non ho mai sentito i fedeli terminare la loro risposta nello stesso momento (“Il Signore riceva dalle tue mani… per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa”). La liturgia francese è molto più sobria: “Preghiamo insieme al momento di offrire il sacrificio per la Chiesa intera”. I fedeli rispondono: “Per la gloria di Dio e la salvezza del mondo”. Ci si poteva ispirare a questa.
Ovviamente grazie a Luca Mazzinghi! era sotteso ma voglio esplicitarlo perchè ha l’autorità che può sostenere noi povere anziane fedeli.
La liturgia può essere viva ed evangelizzante solo se incentiva la partecipazione del popolo di Dio e non resta cosa da preti: il problema non era certo un nuovo messale con novità in fondo molto ristrette e alcune già in uso nelle comunità vive: il problema vero è la formazione dei nuovi preti (vedi un commento sopra) che credono di esserlo solo se mantengono il potere e la rigidità, e si circondano solo di credenti succubi (l’obbedienza vera è altro!!!!). Abbiamo bisogno di preti che sappiano essere ponti tra i fedeli, uomini e donne!, sappiano riconoscere la preparazione di ceti fedeli ecc….poche parole nuove che loro neppure condividono cosa può cambiare nella Chiesa? Speriamo che le famiglia sappiano essere creative e non siano anch’esse ingabbiate! Lo Spirito è novità e noi perchè abbiamo cos’ paura della creatività che il sensu fidei del popolo di Dio non farà deviare (come invece può capitare agli scribi presuntuosi di oggi).
Grazie. Bella e franca riflessione, Totalmente condivisibile.
Vorrei aggiungere un pensiero in ordine alla timida scelta di introdurre anche in ambito liturgico un linguaggio inclusivo della varietà dei generi, maschile e femminile.
Ha fatto indubbiamente bene la nuova edizione italiana del messale romano ad aggiungere, nella formula della confessione, alle due ricorrenze di fratelli anche “sorelle”: “confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli”; “e supplico la beata sempre Vergine Maria, gli angeli, i santi e voi fratelli e sorelle, di pregare…”. “Fratelli e sorelle” lo ritroviamo nel primo e più utilizzato invitatorio all’atto penitenziale: “Fratelli e sorelle, per celebrare degnamente i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati”. Ma anche nella monizione rivolta all’assemblea al termine della presentazione dei doni: “pregate fratelli e sorelle, perché il mio e vostro sacrificio…”. Nell’intercessione per i defunti della “preghiera eucaristica II e III” si chiede al Signore di ricordarsi dei nostri fratelli e delle nostre sorelle che si sono addormentati nella speranza della risurrezione. Nel corso della Veglia pasquale 2021 l’invito a vegliare in preghiera sarà rivolto dalla Chiesa ai fratelli e alle sorelle, anche se, poi, ad essere chiamati in causa continueranno ad essere solo “i suoi figli sparsi nel mondo” (“Fratelli e sorelle, in questa santissima notte, nella quale il Signore nostro Gesù Cristo è passato dalla morte alla vita, la Chiesa invita i suoi figli sparsi nel mondo a raccogliersi per vegliare e pregare”).
Mi sarei aspettato che il linguaggio inclusivo fosse utilizzato anche nelle parti del messale dove si parla solo di uomini e non anche di donne, solo di figli di Dio e non anche di figlie di Dio. Un esempio di uomini/donne. Nella preghiera eucaristica “Per le Messe per varie necessità IV”, quando si arriva ai defunti si dice a Dio: “Ricordati anche dei nostri fratelli e delle nostre sorelle”. Però, poco prima si chiede che “tutti gli uomini si aprano a una speranza nuova”: perché solo agli uomini e non anche alle donne è prospettata la possibilità di aprirsi ad una speranza nuova? Nella stessa preghiera si chiede di aprire “i nostri occhi perché vediamo le necessità dei fratelli”: e perché non dobbiamo vedere le necessità delle sorelle? Sempre nella “preghiera eucaristica per le Messe per varie circostanze” ci si rivolge a Dio, santo e degno di lode, che ama gli uomini ed è “sempre vicino a loro nel cammino nella vita”. Non sarebbe stato più rispettoso delle donne credenti proporre “Veramente santo sei tu e degno di gloria, Dio che ami gli uomini e le donne, sempre vicino a loro nel cammino della vita” ? Quanto a figli/figlie, nell’intercessione escatologica della Preghiera eucaristica IV, si prega il Padre misericordioso di concedere “a tutti noi, tuoi figli, di ottenere con la beata Maria…l’eredità eterna nel tuo regno”: perché non concedere anche alle figlie del Padre misericordioso di ottenere l’eredità eterna nel suo regno ? Perché, relativamente allo scambio della pace, si è ritenuto di sostituire solo il termine “segno” con il termine “dono” nell’invito “Scambiatevi il dono della pace”, lasciando inalterata la seconda bella formula opzionale “Come figli del Dio della pace, scambiatevi un gesto di comunione fraterna” ? Non sarebbe stato meglio invitare i figli e le figlie del Dio della pace a scambiarsi un gesto di comunione non solo fraterna ma anche sororale ? Nella “preghiera eucaristica per la Messa dei fanciulli I” i termini donne, figlie o sorelle non compaiono mai: Dio è benedetto “per gli uomini che abitano la terra” ma non per le donne; l’amore di Dio è grande “per tutti gli uomini”, ma non per tutte le donne; si invoca Dio di “guardare con bontà i nostri fratelli e i nostri amici”, ma non le nostre sorelle e le nostre amiche.
E si potrebbe, in fatto di carenza di linguaggio inclusivo, continuare a lungo a “fare le pulci” al c.d. “nuovo messale”.
Soprattutto mi sarei aspettato che il linguaggio inclusivo fosse introdotto anche nella “liturgia della Parola”: cioè, nella proclamazione della “seconda lettura” costituita da brani del Nuovo Testamento diversi dai Vangeli. Qui, i testi scritturistici continuano ad essere inesorabilmente rivolti ai soli fratelli, nonostante la normale assemblea liturgica di una comunità sia costituita da fratelli e sorelle (anzi, più da sorelle che da fratelli). Come se le sorelle non fossero in grado di recepire la Parola ! O, ancor peggio, come se le sorelle non esistessero o fossero messe da parte ! Perché costringere chi partecipa alle celebrazioni liturgiche cristiane a fingere che le donne non siano presenti ? Non è, questa, una inammissibile forma di discriminazione di genere in seno al popolo di Dio ? Un solo recente esempio: domenica 20 dicembre 2020, IV Avvento B, la seconda lettura propone Rm 16,25-27. Perché nell’incipit del lezionario ci si rivolge solo ai fratelli e non anche alle sorelle, tanto più che nell’edizione critica Nestle-Aland del Nuovo Testamento non c’è né “fratelli” né “sorelle” ? La liturgia non dovrebbe inculturarsi in contesti sociali dove l’eguale dignità dell’uomo e della donna costituisce uno dei temi più attuali e più avvertiti ?
In attesa della prossima (!) “revisione” del messale, confido nella saggezza e nel buon senso dei presidenti delle assemblee liturgiche che non avranno nulla da ridire se chi si presta a proclamare la seconda lettura deciderà autonomamente e intelligentemente di rivolgersi all’assemblea con fratelli e sorelle allorquando l’incipit del testo del lezionario prevede che lo si debba fare solo nei confronti dei fratelli.
Devo però confessare che questa “libertà”, sempre ammessa dagli ormai anziani preti della mia parrocchia, mi è stata negata dal nuovo giovane parroco ! Con il risultato che ho cessato, con dispiacere, di far parte del gruppo parrocchiale di persone disponibili ad esercitare il ministero di lettori/lettrici.
Ringrazio don Luca per la riflessione che approvo in larga parte.
Vorrei porre una domanda: tutti hanno elogiato nel periodo di lockdown il valore della celebrazione domestica. Anzitutto é stata riconosciuta e da molte diocesi incentivata. Chiaramente escludendo feste e domeniche, perché non pensare ad un tomo dedicato alle celebrazioni domestiche da portare in ogni famiglia ed incentivarne settimanalmente l’uso dove, nella stragrande maggioranza di casi, é impossibile partecipare alla Messa feriale? Perché non dare un libro al popolo per celebrare Dio in famiglia nei giorni non di festa?
La preghiera in famiglia va incentivata e sostenuta con stimoli e proposte.
Buone feste a tutti.
Articolo puntuale e pertinente nel mettere in evidenza l’inconsistenza delle recenti modifiche e, più in generale, del nostro modo di celebrare l’Eucaristia. Purtroppo ho la sensazione che, se stiamo ad aspettare una vera Riforma liturgica promossa dal clero, possiamo tranquillamente attendere le fatidiche Calendae greche. Io prego e spero che quella parte del Popolo di Dio, attenta al soffio dello Spirito, possa ribellarsi alle gabbie anacronistiche delle norme liturgiche e promuovere un vero e proprio Movimento per riformare la liturgia cattolica.
Concordo con ogni parola dell’intelligente articolo di Luca Mazzinghi, che ho anche avuto la grazia di conoscere personalmente e avere come mio professore di teologia negli anni della formazione.
A testimonianza di quanto sono giuste le sue osservazioni sulla traduzione del Padre Nostro, e quanto la traduzione che è stata scelta in italiano sia scorretta, vorrei far notare che i francesi nella Messa avevano come traduzione « Ne nous soumets pas à la tentation-non sottoporci alla tentazione », molto simile al nostro nuovo “non abbandonarci alla tentazione”, e hanno scelto nel 2017 di sostituirla con « Ne nous laisse pas entrer en tentation-non lasciarci entrare in tentazione » per una maggiore fedeltà al testo. Non lasciarci entrare nella tentazione, sarebbe stata a mio avviso la traduzione migliore anche per noi.
Noi passando dal non indurci in tentazione al non abbandonarci alla tentazione, siamo caduti dalla padella nella brace!!! Prima ci fanno mille problemi di non cambiare niente della traduzione latina del Messale, guai a toccare una virgola dell’Editio typica, non sia mai, e poi inventano un altro Vangelo….e ora ci tocca pregare con parole che Gesù non ha mai detto! Non si può proprio fare niente per rimediare a questo, cari fratelli Vescovi???
Sono una incompetente ma mi sembra che nelle osservazioni fatte ci sia un po di acido muriatico. Forse non siamo consapevoli del mistero che si celebra e siamo molto distratti.
Simonetta Arditi
Anche agli occhi (ed orecchi) di una “semplice” battezzata la “novità” di questo Messale si può solo inserire nel cammino del gambero: un nuovo passo indietro!
Sono d’accordo il testo del nuovo messale si e’ allontanato ancora di piu’ dal linguaggio comune della gente. Anche la teologia che esprime e’ regressa. Conoscendo traduzioni di altri paesi penso che questo allontanamento sia dovuto alla edizione latina. La liturgia rema contro l’ intelligibilita della fede nel contesto attuale