Come spesso accade in re theologica, più della necessità conta il caso. Per puro caso infatti, ieri, al fine di completare un articolo per una rivista, ho controllato la traduzione italiana ufficiale di uno dei testi più noti e più importanti della costituzione liturgica Sacrosanctum concilium – la definizione di “actuosa participatio” in SC 48: «per ritus et preces id bene intelligendum» – e, dopo aver costatato la traduzione sostanzialmente corretta della versione italiana, mi sono incuriosito: il sito www.vatican.va propone, in alto a destra, tutte le altre 12 versioni ufficiali. Ho cliccato sulla versione EN (inglese) e ho scoperto il primo errore! Poi ho cliccato FR e ES, tutto bene. Ma di nuovo, ho cliccato PT (portoghese) e di nuovo, ecco l’errore. Siccome la cosa merita un discorso compiuto, incomincio dall’inizio e racconto la storia da dove inizia per me.
La “partecipazione attiva” come chiave della Riforma Liturgica
Non ho mai dimenticato il momento, 18 anni fa, in cui per la prima volta ho iniziato a comprendere che cosa vi fosse in gioco nella frase centrale di SC 48. Era il 2003, anniversario dei 40 anni di SC, e l’arcidiocesi di Torino aveva organizzato la presentazione di un’“inchiesta sociologica” – curata da Domenico Cravero e i cui risultati si possono leggere qui. In quell’occasione mi fu chiesto di presentare il mutamento di concezione della “partecipazione alla liturgia” avvenuto con il Vaticano II. Fu quella l’occasione in cui feci, per la prima volta, una “lettura sinottica” della “partecipazione dei fedeli” di cui parla l’enciclica Mediator Dei di Pio XII con la “actuosa participatio” di SC. E la luce si accese.
Come dice Aristotele, le cose si capiscono in due modi: per analogia e per differenza. Allora compresi che non si capisce il modello di “partecipazione” proposto da SC se non si rilevano con cura le differenze rispetto al concetto e alla prassi precedente. Per dirlo in una parola, la “partecipazione dei fedeli” è intesa da MD come “actus animae”, come atto dell’anima, volto ad “avere gli stessi sentimenti del Signore Crocifisso”. È una partecipazione puramente interiore, che si realizza “di fronte” al rito, non “attraverso il rito” o “nel rito” o “grazie al rito”. La novità di SC sta proprio nell’uscire da questa idea e da questa prassi, che genera “muti spettatori”, e nell’assumere il rito liturgico come “mediazione”, come “linguaggio comune”, come “azione comune”. Allora per me si chiarì che dei tre avverbi utilizzati da SC per qualificare la partecipazione (conscie, pie, actuose), i primi due sono in una certa continuità con MD, mentre il terzo è la vera novità.
Il rilievo di “actuosa/attiva” come attributo della partecipazione alla liturgia
Voglio fermarmi ancora un poco su questo aggettivo, che viene facilmente frainteso. La partecipazione è chiamata “actuosa” perché consiste in un’azione comune. Non è soltanto una rappresentazione da imparare e fare propria o su cui provare sentimenti e devozione (a ciò porta la qualificazione di “cosciente” e di “pia”), ma è una “azione da condividere”.
Questo è un aspetto assai importante, soprattutto per la funzione che svolge SC 48 rispetto a quanto segue nel documento. Infatti è in ragione di questa “ridefinizione della partecipazione” che viene disposta dai numeri successivi (49-58) la riforma liturgica dell’ordo missae. I riti vengono riformati – anzitutto quelli eucaristici e poi a seguire tutti gli altri – perché la partecipazione implica l’azione. Se si fosse trattato semplicemente di maturare una “coscienza” o una “pietà”, la riforma non sarebbe stata veramente necessaria. Se si trattasse semplicemente di “comprendere” e di “essere pii”, riti nuovi e riti vecchi sarebbero sostanzialmente equivalenti. Se, invece, è in gioco l’“azione comune” di Cristo e della Chiesa, la decisione di riformare gli ordines viene giustificata e sostenuta soltanto dall’acquisita evidenza di questa esigenza di “partecipazione alla azione comune”. Ecco dunque la pertinenza della questione nella quale ci siamo imbattuti quasi casualmente.
Un testimone scomodo: il commento a SC di L. Girardi
Alle premesse presentate fino a qui debbo aggiungere un dato di estrema rilevanza, che traggo dal più recente tra i commenti al testo conciliare, ossia dal I volume del Commentario ai documenti del Vaticano II (curato da S. Noceti e R. Repole, Bologna, EDB, 2014), dove Luigi Girardi offre un puntuale corredo di notizie che ci aprono al senso più profondo e anche all’elaborazione dei testi di SC. A proposito del n. 48 egli annota quanto segue:
Il testo presentato in aula si esprimeva così: «Ut ritus et preces bene intelligentes, ea actuose, conscie et pie participent». I verbi intelligere e participere avevano come oggetto i riti e le preghiere. Riprendendo una proposta del card. Bea… il testo fu mutato… I riti e le preghiere non sono solo una realtà esterna, ma sono la mediazione con cui si accede al mistero che si celebra: la stessa comprensione non si ferma ai riti, né raggiunge il mistero della fede senza di essi; al contrario, si comprende il mistero della fede proprio attraverso i riti e le preghiere con cui si celebra. L’approdo finale del testo è decisivo per una rinnovata comprensione della mediazione simbolica dei riti… e per il giusto rilievo da dare alla forma rituale dell’eucaristia (179).
Questo dato storico e sistematico è assolutamente decisivo. Ci permette di scoprire, ancora meglio, che l’emendamento al testo precedente supera una lettura “cerimoniale” del rito e delle preghiere e permette alla Riforma Liturgica di trovare la sua vera giustificazione. Riti e preghiere non sono anzitutto “oggetti” di una intelligenza interiore, ma “mediazioni”, “linguaggi” e “codici” grazie ai quali e mediante i quali possiamo avere intelligenza del mistero. Ciò che sorprende, considerando questa ricostruzione storica, è che oggi, a 60 anni di distanza dal testo ufficiale di SC, vi siano diverse lingue vernacole in cui, secondo la traduzione ufficiale pubblicata sul sito www.vatican.va, si traduce non il testo approvato dal Concilio, ma la bozza precedente. E nessuno apre bocca di fronte a questo svarione.
Le traduzioni senza fondamento testuale
Senza aver potuto fare un esame completo delle 12 lingue, limitandomi alle principali lingue europee osservo che:
a) Tedesco, ungherese e spagnolo (e anche la versione polacca, che pure non compare sul sito) traducono letteralmente il latino, trasferendo il valore di “mezzo/mediazione” del “per” latino nelle lingue di arrivo; l’intelligenza avviene “mediante” o “attraverso” riti e preghiere.
b) Italiano e francese traducono con maggiore libertà, trasformando il complemento di “mezzo” in uno “stato in luogo figurato”: l’intelligenza avviene “nei riti” e “nelle preghiere”.
c) Inglese e portoghese traducono un altro testo: ossia il testo senza emendamento, e così riducono i riti e le preghiere a “oggetti” dell’intelligenza. Questo è del tutto illegittimo e gravemente falso.
Che cosa è in gioco in tutto ciò?
La differenza del concetto di partecipazione attiva consiste, come abbiamo visto, in una relazione diversa tra la liturgia, Cristo e la Chiesa. Il modello interiore e intellettualistico, sentimentale e cerimoniale, che rispondeva alla definizione di MD del 1947, poteva considerare normale – e addirittura poteva consigliare – che durante la messa il popolo “partecipasse” senza partecipare, ossia facendo altro. Questo era ben possibile in quel regime e sarebbe possibile anche dopo il Concilio Vaticano II se pensassimo ai riti e alle preghiere come “oggetti di intelligenza”. Nel momento in cui, invece, vengono riscoperti come “mediazioni”, come “linguaggi”, come “codici”, i riti e le preghiere esigono non soltanto un atto di riforma, ma una recezione della riforma perché la partecipazione diventi realmente “attiva”, ossia metta in comune riti e preghiere nell’esperienza di tutta la Chiesa. Già R. Guardini, 100 anni fa, aveva detto che la liturgia non era anzitutto una forma di conoscenza, ma “un fare, un ordine, un essere” (Formazione liturgica, 18). Se si legge in modo riduttivo il concetto di “partecipazione attiva”, si fraintende la riforma e la sua recezione. La riforma è stata un passaggio necessario, ma non sufficiente. Sbaglia sia chi la ritiene non necessaria, sia chi la ritiene sufficiente. I primi la combattono frontalmente, i secondi la svuotano dall’interno. Uno dei modi di svuotare di senso la Riforma liturgica è quello di fraintendere lo scopo per cui è stata fatta, ossia perché la liturgia sia azione comune di tutta la Chiesa. Nel momento in cui si riducono riti e preghiere a “oggetti di intelligenza” si perde la percezione di questo passaggio necessario e ulteriore rispetto alla Riforma liturgica.
Che cosa possiamo trarre da questa scoperta?
Non resta che trarre tre piccole raccomandazioni da questa sorprendente scoperta:
a) Sarebbe opportuno che quanto prima, almeno nel sito ufficiale della Città del Vaticano, in tutte le 12 lingue presenti, si offrisse una traduzione del testo approvato dal Concilio, non di un testo provvisorio, non ufficiale e altamente problematico.
b) Che accanto a questo rimedio “tecnico”, che però è urgentissimo, si riscoprisse il legame strutturale tra una “partecipazione attiva” come fine e una “riforma liturgica” come strumento.
c) Che proprio quando si sia compreso che il latino non è più una lingua viva, e forse solo a patto che si comprenda proprio questo, ci si deve preoccupare di fornire versioni nelle lingue vive che non siano “più miopi” del latino, né che smentiscano in modo comprensibile quello che il latino afferma solo per pochi iniziati.
Pubblicato il 28 febbraio 2021 nel blog: Come se non.