Don Ubaldo molto spesso durante la celebrazione vive un vero supplizio: la devota Ofelia, che sa a memoria tutto il Canone della Preghiera eucaristica II, quella che lui usa sempre, la ripete sottovoce e per tutta l’aula liturgica si sentono i sibili di quella pia donna che, ormai anziana e con la dentiera, fischia ad ogni “esse”. E lui è torturato da quel suono invadente, si sente distratto proprio quando, nel momento più solenne della liturgia, dovrebbe risuonare solo la sua voce.
Ha ragione il povero don Ubaldo, ma ognuno ha le sue piccole sofferenze, anche durante la celebrazione eucaristica.
La preghiera eucaristica nasce come espressione letterario-poetica con la quale la Chiesa obbedisce al mandato di reiterazione: «Fate questo come memoriale (zikkaron) di me». Gesù non ha inventato nulla: il gesto di spezzare il pane pronunziando una benedizione (berakah) su di esso e il gesto di versare vino nel calice, sul quale pronunziare una berakah di ringraziamento al termine del pasto, è un gesto che appartiene alla tradizione della liturgia domestica di Israele.
Il concetto di zikkaron nasce nell’ebraismo: in esso la celebrazione della Pasqua, nella quale si ricorda la liberazione del popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto attraverso il rito dell’agnello pasquale, è zikkaron (זִכָּרוֹן), “memoriale” di quella prima liberazione e promessa della liberazione futura. Esodo 12,14: «Questo giorno sarà per voi un memoriale (ebr. zikkaron); lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne».
L’azione di Gesù Cristo si inserisce su questa tradizione liturgica esistente per trasfigurarla e darle un nuovo significato. Quel gesto liturgico con il quale si inauguravano e si concludevano tutti i pasti d’Israele, ora assume una valenza nuova: è zikkaron di Gesù, morto e risorto, memoriale. Egli anticipa nei segni del pane e del vino la sua morte e la sua risurrezione. Non è un semplice ricordo.
Nella cena pasquale ebraica, nell’haggadah di Pasqua, abbiamo il racconto delle gesta di Dio in favore di Israele, e questo non è il ricordo di storia passata. Il pio israelita non dice: «Ricordiamo i nostri padri che sono usciti dall’Egitto», ma osa affermare: «Io sono uscito dall’Egitto, io sono entrato nella terra promessa», perché la grazia di Dio rende contemporanei a quell’evento di salvezza, celebra la presenza di Dio che ci porta e ci conduce, il cui agire è presente con noi e in noi. Gesù ha voluto inserire le sue parole dell’ultima cena in questa haggadah di Pasqua. Prima era solo parola. Ora Gesù Cristo osa dare a questa preghiera il significato della sua Pasqua.
E noi, allora, non ricordiamo quello che è avvenuto nel passato, ma per grazia di Dio siamo resi contemporanei a quell’evento che oramai ha superato e distrutto il tempo e lo spazio: la Pasqua di nostro Signore Gesù Cristo.
«L’eucaristia è molto più che una semplice cena. Il suo prezzo è stato una morte e la maestà della morte è presente in essa. Quando ci accostiamo ad essa deve riempirci il rispetto per questo mistero, il timore davanti al mistero della morte che si fa presente in mezzo a noi. Ma, accanto alla morte, è presente anche il fatto che essa è stata superata dalla risurrezione e noi possiamo affrontare questa morte come la festa della vita, come la trasformazione del mondo. In tutti i tempi, fra tutti i popoli, gli uomini nelle loro feste hanno cercato di sfondare la porta della morte, perché la morte è la domanda di tutte le domande. L’eucaristia, la festa cristiana, arriva fino a questa profondità della morte» (J. Ratzinger Il Dio vicino). Non è un pio intrattenimento, ma il memoriale della morte vinta dal Risorto.
Quando il sacerdote dice: «Questo è il mio corpo», è ovvio che il soggetto dell’espressione può essere solamente Gesù Cristo. Egli in persona Christi, non parla a proprio nome, non viene per conto di sé stesso, ma di Colui che rappresenta la Chiesa intera, la Chiesa di tutti i luoghi, di tutti i tempi, che gli ha affidato ciò che essa stessa ha ricevuto. «Che la celebrazione dell’eucaristia sia legata all’ordinazione sacerdotale, è qualcosa che dipende dall’essenza più profonda di questa parola che nessun uomo ha diritto di pronunciare da sé. Questa parola può essere pronunciata solo nel sacramento della Chiesa intera» (ibidem).
Cara Ofelia, dovresti imparare ad ascoltare le parole del Canone, senza dirle anche tu: lascia a don Ubaldo il suo ruolo unico, insostituibile. Su quell’altare accade qualcosa di più grande di tutto quello che noi possiamo fare o dire; la sua grandezza non dipende dalla nostra capacità organizzativa né dall’abilità di don Ubaldo e nemmeno dalla tua devozione. Le forme che noi possiamo dare possono solo essere un servizio alla grandezza che ci precede e che non siamo noi a creare. Adorare il mistero ci conduce al silenzio.