Nel rito di ordinazione presbiterale, al momento degli impegni, l’eletto al ministero del presbiterato si avvicina al vescovo, si inginocchia davanti a lui e pone le proprie mani congiunte in quelle del vescovo. Il vescovo dice: “Prometti al vescovo diocesano e al tuo legittimo superiore filiale rispetto e obbedienza?” – e l’eletto risponde: “Sì, lo prometto”.
Il gesto da parte dell’eletto nelle mani del vescovo si chiama immixtio manuum, letteralmente significa commistione delle mani. È un gesto che trae origine dall’omaggio feudale, dal rito cioè con cui il vassallo prestava obbedienza al signore e si impegnava a servirlo, ricevendone in cambio assicurazione di tutela e protezione.
L’immixtio manuum, l’intrecciarsi delle mani dell’ordinando nelle mani del vescovo è un gesto che impegna entrambi: l’uno mette la sua vita nelle mani dell’altro in segno di fiducia e di stima reciproca. Il vescovo, davanti alla comunità, si impegna ad amare, custodire, guidare, ascoltare il sacerdote; l’ordinando promette al vescovo rispetto e obbedienza di figlio.
Subalternità
Questo gesto è un segno di fiducia e di stima reciproca. Il vescovo, davanti alla comunità, si impegna ad amare, curare, guidare e ascoltare il sacerdote e l’ordinando promette rispetto e obbedienza filiale al vescovo.
L’immixtio manuum, trae origine dall’omaggio feudale, dal rito cioè con cui il vassallo, in epoca carolingia, prestava obbedienza al signore e si impegnava a servirlo, ricevendone in cambio assicurazione di tutela e protezione.
Galbert de Bruges notaio, monaco e cronista, distinse tre fasi del rito simbolico di accesso al vassallaggio, così come erano distinte ed evidentemente anche percepite nel Medio Evo: 1. homagium (omaggio, accettazione della fede, dono (divino); 2. fides (fede, fedeltà, fiducia, giuramento); 3. investitura (atto finale)[1].
Prima fase: homagium. Normalmente si attuava in due momenti. Il primo: verbale. Si trattava di solito di una dichiarazione, un impegno che esprimeva la volontà dell’intercessore di diventare uomo del signore, proprio come, nel battesimo, il nuovo cristiano, con la propria bocca o con la bocca del padrino, risponde a Dio che, per intercessione del sacerdote battezzante, gli aveva chiesto: “Vuoi diventare cristiano?” – “Sì, lo voglio”, anche l’intercessore stipulava un patto che aveva sì carattere generale, ma tuttavia, fin dal primo stadio, vincolante nei confronti del suo signore. Il secondo momento completava la prima fase dell’accesso al vassallaggio: si trattava dell’immixtio manuum: il vassallo poneva le proprie mani giunte in quelle del signore che, a sua volta, copriva le mani del vassallo con le proprie. Si tratta del gesto dell’incontro, del mutuo contratto.
Nell’immixtio manuum è chiaro che le mani che cingono appartengono a qualcuno di un livello superiore, esprime un gesto simbolico della sottomissione del vassallo al signore tuttavia, dall’altra parte, il gesto del signore contiene la promessa di aiuto, di protezione ma proprio questa promessa ne rivela la forza d’ordine superiore. Tale rituale delle mani è descritto già nei più antichi documenti, risalenti al VII secolo, relativi ai riti del vassallaggio[2].
La cerimonia consisteva nell’inginocchiarsi da parte del vassallo con le mani giunte per indicare la sua fedeltà al signore e il signore prendeva tra le sue mani quelle del suo vassallo. Questo indicava, da un lato, che il vassallo si riconosceva “uomo del signore” (spesso pronuncia una formula con la quale dichiara questa volontà, “voglio diventare un vostro uomo”) e, d’altro canto, che il signore si assume l’onere di tutelarlo.
L’atto di omaggio (latino: homagium) era un formale atto di sottomissione con il quale un signore feudale riconosceva la superiorità di un altro nobile. L’etimologia testimonia la natura di tale atto: il termine deriva infatti da homo (“uomo”) e agere (“condurre”) ed indicava una cerimonia durante la quale il nobile si dichiarava uomo fedele del suo signore e pronto a farsi condurre da questo.
La forma dell’omaggio poteva essere estremamente varia, a seconda della tipologia della natura del rapporto intercorrente tra il Signore e chi gli si sottometteva, variando da forme molto blande e puramente simboliche fino anche a forme umilianti.
Ecco, l’uno di fronte all’altro, due uomini: l’uno che vuol servire, l’altro che accetta e desidera d’essere capo. Il primo congiunge le mani e le pone, così unite, in quelle del secondo: chiaro simbolo di sottomissione, il cui senso era talvolta ancor più accentuato dall’atto d’inginocchiarsi. Il personaggio che offre le mani pronuncia nel medesimo tempo alcune parole, con le quali si riconosce “uomo” di colui che gli sta davanti[3].
Ministero e vassallaggio
Nell’ immixtio manuum è chiaro che le mani che cingono appartengono a qualcuno di un livello superiore, esprime un gesto simbolico della sottomissione del vassallo al signore tuttavia, dall’altra parte, il gesto del signore contiene la promessa di aiuto, di protezione ma proprio questa promessa ne rivela la forza d’ordine superiore.
Va rilevato che, quello della mano, è uno dei più importanti aspetti del simbolismo medievale e universale, oltre al fatto che s’instaura anche una reciprocità di gesti. Nella tradizione giuridica e nella terminologia romana, manus è una delle espressioni di potestas, del potere, nonché e soprattutto uno degli attributi principali del pater familias.
La forma dell’omaggio vassallatico influenzò anche il culto cristiano e il modo di pregare Dio che divenne il signore di cui invocare la protezione. Nei secoli precedenti chi pregava teneva le braccia aperte rivolte verso il cielo, mentre dal periodo feudale incominciò ad assumere la posizione a mani giunte, nel gesto di chi si sottomette affidandosi direttamente al suo superiore[4].
È il gesto che indica ubbidienza filiale e fedeltà: consiste nel porre la propria mano (o entrambe) all’interno di quella di colui al quale si promette obbedienza. In contesto liturgico, il gesto viene eseguito dagli ordinandi nei confronti del vescovo durante le ordinazioni diaconali e presbiterali al momento della promessa di fedeltà al Vescovo stesso. Questo gesto crea vincolo personale, comunione col vescovo, con la Chiesa, con Cristo, col Padre; è la consegna di tutto ciò che siete al ministero, senza riserve e senza limiti.
Il cerimoniale in base al quale un uomo entrava nel vassallaggio del suo futuro dominus, promettendogli fedeltà è stato applicato alla relazione gerarchica vescovo-presbitero, introducendo un legame vassallatico. Ci domandiamo: questo elemento presente nel rito di ordinazione presbiterale, considerato peculiare del rituale vassallatico, è il modo migliore per esprimere la relazione presbitero-vescovo?
Potere e/o dedizione?
Alla luce della teologia del Concilio Vaticano II, il rito dell’immixtio manuum, può essere considerato inadeguato per esprimere in modo completo e appropriato la relazione tra vescovo e presbitero.
Sebbene storicamente significativo, questo simbolismo può suggerire una relazione gerarchica troppo rigida e autoritaria, che non riflette adeguatamente la visione di una Chiesa comunionale e sinodale.
La relazione tra vescovo e presbitero dovrebbe essere vista in termini di corresponsabilità pastorale piuttosto che di dominazione e sottomissione. La sottomissione evocata dal gesto dell’immixtio manuum può quindi essere percepita come incongruente con questa visione di sinodalità.
Il rito dell’immixtio manuum può dare l’impressione che il presbitero sia in una posizione di dipendenza esclusiva dal vescovo, piuttosto che un membro attivo e corresponsabile del Popolo di Dio. La relazione tra vescovo e presbitero dovrebbe quindi essere espressa in modo che risalti la loro corresponsabilità pastorale a servizio della comunità, non solo una relazione di potere e obbedienza.
L’immixtio manuum può essere interpretato come un simbolo che sottolinea una relazione unidirezionale, dove il presbitero è principalmente un esecutore della volontà del vescovo. La relazione vescovo-presbiteri dovrebbe essere caratterizzata da una stretta cooperazione nella cura pastorale del Popolo di Dio. Il Concilio Vaticano II, ponendo al centro l’idea della Chiesa come «popolo di Dio», promuove una significativa nuova interpretazione del ministero ordinato.
Il gesto dell’immixtio manuum potrebbe essere percepito come enfatizzante una struttura di potere più che una relazione di servizio reciproco. Questo è particolarmente problematico in una Chiesa che, secondo il Concilio Vaticano II, dovrebbe riflettere l’esempio di Cristo Servo, il cui ministero è caratterizzato dall’umiltà e dall’amore pastorale.
Ogni forma di autorità nella Chiesa deve essere esercitata come servizio. Il vescovo è chiamato a servire i suoi presbiteri con amore pastorale, mentre i presbiteri sono chiamati a collaborare con il vescovo in questo servizio. La relazione vescovo-presbitero dovrebbe quindi essere rappresentata in termini che riflettono questa mutua dedizione e servizio piuttosto che una mera subordinazione.
È sempre il Concilio Vaticano II a definire che una delle priorità del servizio episcopale deve essere l’interesse e la cura del vescovo per il proprio presbiterio: “Per questa comune partecipazione nel medesimo sacerdozio e ministero, i vescovi considerino dunque i presbiteri come fratelli e amici, e stia loro a cuore, in tutto ciò che possono, il loro benessere materiale e soprattutto spirituale”[5].
Un gesto liturgico inappropriato
Ci sono sicuramente molte opportunità per raggiungere questo obiettivo, ma un modo diretto e semplice è praticare l’arte del «dialogare insieme». Un dialogo sincero, continuo e sereno tra preti e vescovo è fondamentale. Non è solo un desiderio, ma una vera e propria necessità.
Ritengo che il rito dell’immixtio manuum, nella sua forma attuale, sia inadeguato a esprimere pienamente la relazione tra vescovo e presbitero alla luce della teologia del Concilio Vaticano II. La sua riforma e reinterpretazione possono aiutare a meglio riflettere i principi di comunione, servizio pastorale e corresponsabilità che sono al cuore della visione conciliare e sinodale della Chiesa.
Pertanto, è necessario riconsiderare il gesto dell’immixtio manuum in modo che possa meglio rappresentare la corresponsabilità e la comunione. Potrebbe essere utile introdurre gesti che enfatizzano la reciprocità e la collaborazione, unitamente a un gesto nuovo che evidenzi l’obbedienza di vescovo e presbitero all’unico Vangelo di Gesù Cristo.
Sulla questione dell’obbedienza vi fu un interessante confronto tra i padri conciliari nell’ottobre 1965, nella fase finale dell’elaborazione del decreto. Alcuni avrebbero voluto leggere un’affermazione più netta della necessità che i presbiteri obbedissero ai vescovi, mentre altri auspicavano un’obbedienza attiva, più responsabile e collaborativa, e rigettavano ogni forma di episcopalismo[6].
[1] Cf. LE GOFF, Le rituel symbolique de la vassalité , Paris, Edition Gallimard, 1977).
[2] Cf. LE GOFF, Le rituel symbolique de la vassalité, Paris, Edition Gallimard, 1977).
[3] Cf. M. Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino 1999.
[4] M. Fossati – G. Luppi – E. Zanette, L’esperienza della storia, vol. 1, pag. 24, edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano 2012.
[5] PO 7.
[6] Cf. E. Castellucci, Presbyterorum ordinis. Introduzione e commento, in S. Noceti – R. Repole (a cura), Commentario ai documenti del Vaticano II 4. Christus Domini, Optatam totius, Presbyterorum ordinis, Dehoniane, Bologna, 2017, pp. 444-447.
non so se se la immixtio manuum dei preti abbia origine feudale o, piuttosto, il cerimoniale feudale lo abba preso “in prestito” dal cerimoniale liturgico, anche perché non è soltanto dei preti, ma anche dei diaconi (vedere n.ro 254 del Pontificale Romano).
… si dimentica troppo spesso che le promesse (“voti”) vengono fatte al momento dell’ordinazione diaconale, al momento dell’ordinazione presbiterale di fatto vengono rinnovate, purtroppo su questo punto il Pontificale non è molto chiaro, creando così un po’ di confusione …
Ascoltiamo le norme dettate dalla.Chiesa e mettiamole in pratica. Il presbiterio aiuti il Vescovo al governo della diocesi. In ogni FORANIA presente il Vescovo, ogni pastore faccia vedere come esercita il Culto ed a quanti in parrocchia, l’A nuncio del Regno di Dio e la Carità… venga condiviso con tutte le altre COMUNITÀ… siamo già pochi e per di più sparpagliati…
La spiritualita’ di comunione e’ la sfida per il nuovo millennio, diceva il Santo Padre Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte. ” Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione”. Concordo pienamente nella revisione dei Riti dei Sacramenti.
Parole e gesti nel cambiamento sociale non conservano più il senso originale in cui sono nati. Sono gesti che appartengono alla società in cui sono posti. Io l’ho vissuto sia nella mia ordinazione presbiterale che nell’ordinazione di presbiteri da parte mia come parole e gesto che significava collaborazione e corresponsabilità nel ministero e come comunione col vescovo e con il presbiterio e attraverso di essi con tutta la Chiesa. Al feudalesimo non ho mai pensato.
Peraltro, l’obbedienza non è esercizio disciplinare bensì esercizio ermeneutico: ha a che fare con l’ascolto e, di conseguenza, con la comprensione del senso autentico e radicale di ciò che si ascolta. Se uno ascolta male non può capire. Chiedere una obbedienza intesa in senso disciplinare è esprimersi male ed ostacolare un corretto ascolto, pregiudicare la giusta interpretazione e l’efficace comprensione della parola detta dal vescovo. La quale, in realtà, non può e non deve essere la parola “del” vescovo, ma l’eco della Parola. Come si può intuire, dunque, l’obbedienza è sinonimo di responsabilità credente al Signore. Ci può essere l’ostacolo di un ascolto fatto male, distratto, limitato. Ma ci può essere pure un’eco distorta della Parola, che induce chi ascolta a fraintenderla o, più realisticamente, a non rintracciarvi dentro la volontà di Dio, proprio perché quella parola detta male è un tradimento della Parola. Entra qui in gioco la crisi dell’autorità dentro la comunità ecclesiale: è un grave cortocircuito tra deficit di autorevolezza, autorità di conseguenza contestata, e aggravante irrigidimento autoritario. Quando parlo di deficit di autorevolezza voglio dire che c’è spesso, in certe figure apicali delle diocesi e degli organismi ecclesiali, una rovinosa anemia “autoriale”: cioè talvolta qualcuno, nell’esercizio del ministero pastorale, recita un copione, non si dimostra “autore”, o “facitore in prima persona” di ciò che dice e di ciò che richiede a chi lo ascolta.
Anche nel rito liturgico della cresima, il cosiddetto “buffetto” sulla guancia, o lo schiaffetto che si dava da parte del vescovo alla persona non appena celebrata la sua crismazione, è stato opportunamente smaltito – nel solco del rinnovamento conciliare – nel rito liturgico di quel sacramento, sostituito spesso da una sorta di carezza materna (e dico materna perché la intendo data al cresimato dal vescovo che in quel gesto non rappresenta se stesso bensì il Signore e la Chiesa del Signore). Analogamente il gesto rituale della immixtio manuum potrebbe essere inteso come trasfigurato nell’abbraccio dell’ordinato con l’ordinante e con gli altri presbiteri presenti all’ordinazione, come in effetti già accade. Purtroppo l’abbraccio può essere travisato in un gesto retorico, plateale, esibizionistico, che finisce per esprimere anch’esso – per certuni – il possesso personale e padronale del vescovo nei confronti dell’ordinato e non, invece, l’innesto ministeriale dell’ordinato dentro l’orizzonte ecclesiale-comunitario al quale egli è sacramentalmente stato “ordinato”.
Diamo tempo al tempo… Il Cardinale Martini diceva: la Chiesa è indietro di 200 anni (solo?). Per me il potere temporale della Chiesa sarà duro a morire; si insediò in coincidenza della caduta dell’impero romano e da li come qualunque altro regno della terra fra guerre (di religione????) e alterne vicende di alleanze da Est a Ovest e da Nord a Sud è arrivata ai tempi nostri per poi scoprirsi ogni giorno che passa “INADEGUATA” ad essere un Regno Terrestre dei seguaci di GESU’ CRISTO. La “Grandezza” della chiesa oggi la dobbiamo ai Santi Martiri Missionari che ignari o consci dei pericoli hanno portato il messaggio evangelico in giro per il mondo.
Il passaggio da una chiesa clericalista ad una chiesa declericalizzata si attua attraverso una gradualità. Una piccola, ma significativa, riforma che potrebbe essere realizzata è quella descritta da Domenico Marrone in questo suo intervento. Un minuscolo primo passo che indicherebbe una direzione.
Proprio perché ha un retaggio feudale (ben evidenziato in questo articolo), sarebbe opportuno iniziare a pensare di cambiare il gesto perché possa esprimere oggi che il presbitero è un collaboratore del vescovo e non un suo subalterno. Anche perché da questo gesto discende come conseguenza un modo di concepire e praticare l’obbedienza che è di.matrice feudale.