Alcuni anni fa la rivista Esodo mi ha chiesto un piccolo contributo sul tema della «violenza» nella tradizione liturgica cattolica. Da quel testo traggo alcuni spunti per una riflessione oggi purtroppo di nuovo molto attuale. E che rivela, in modo davvero scandaloso, la inadeguatezza dei testi del Messale del 1962, che alcuni vorrebbero utilizzare in modo spensierato come espressione della esperienza ecclesiale. Come dice il Siracide: «Non lodare nessuno prima che abbia parlato». Se diamo al Messale del 1962 la parola sulla guerra scopriamo che parla un linguaggio scandaloso, che non è e non può essere più il nostro.
«Chi resta saldo? Solo colui che non ha come criterio ultimo la propria ragione, il proprio principio, la propria coscienza, la propria libertà, la propria virtù, ma che è pronto a sacrificare tutto questo quando sia chiamato all’azione ubbidiente e responsabile, nella fede e nel vincolo esclusivo a Dio: l’uomo responsabile, la cui vita non vuol essere altro che una risposta alla domanda e alla chiamata di Dio».
D. Bonhoeffer
«La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia».
Benedetto XVI
Il delicato rapporto con Dio, come «oggetto immenso», «silenzio altissimo», «padre di misericordia», che di fronte all’uomo si fa parola e carne, che assume una forma e una materia, che diventa «fenomeno», suscita immediatamente alcune questioni di fondo, che riguardano evidentemente anche la relazione tra il principio della pace e della composizione di tutti i conflitti e l’esperienza della violenza e della sopraffazione che caratterizza la vita umana.
Se Dio viene convertito, dalla parola e dal culto, in «principio di autorità», può essere confuso, sovrapposto e addirittura identificato con ciò che le autorità umane fanno per imporre le loro logiche di giustizia e di pace, mediante le logiche della violenza, della sanzione e della sopraffazione. Dio diventa così l’ultimo timbro di una sovranità violenta, la più alta delle sanzioni, il primo custode di ogni violenza «comune».
Dio e la violenza bellica
Questa dinamica ha attraversato la storia. La stessa attestazione biblica, la parola più originaria, è già segnata a fondo da questa possibilità, che non di rado diventa una sorta di complicità di Dio nelle trame violente degli uomini e delle donne.
La prima forma di violenza verso Dio è, in effetti, quella che consiste nello spostare su Dio i disegni violenti degli uomini, per vederli giustificati, trasformandoli quasi in «atti dovuti» o addirittura in «atti di culto».
Si fa di Dio il principio autorevole e in qualche modo cieco di una realtà spezzata, lacerata e divisa duramente in due parti opposte, tra amici e nemici, tra bene e male, tra positivo e negativo. Dio diventa la garanzia di una disperazione, non di una speranza, diventa principio di maledizione, non di benedizione, di invidia, non di lode, di ingratitudine, non di rendimento di grazie.
In questa dinamica, che riguarda già in origine la stessa Scrittura e l’organizzazione della forma regale e ministeriale del popolo di Dio – del Primo come del Nuovo Testamento – entrano poi necessariamente anche le forme dell’elaborazione del culto e del pensiero teologico.
Vorrei soffermarmi qui sulle forme con cui il culto cristiano ha assunto – in mondi assai diversi dai nostri – una componente violenta dei rapporti sociali e l’ha spostata su Dio. Ciò è evidente soprattutto nei formulari per le «messe in tempo di guerra» e nelle preghiere «contro il nemico», che hanno segnato fino a pochi decenni fa l’espressione ecclesiale.
D’altra parte, la teologia ha a sua volta introdotto argomentazioni, principi, riferimenti che ha tratto dalla «ragione comune»: principi di evidenza violenta e ostile, che poi ha spostato anche su Dio.
La messa e la guerra dopo il Vaticano II
Anche il Messale Romano nell’edizione più recente (1970) contiene un formulario «in tempo di guerra e di disordine». Ma il lavoro fatto dopo il concilio Vaticano II ha rimosso ogni elemento di «violenza» sia nella domanda della Chiesa sia nelle qualità e nelle azioni attribuite a Dio. Leggiamo infatti oggi nella colletta:
O Dio, forte e misericordioso,
che condanni le guerre
e abbatti l’orgoglio dei potenti,
allontana i lutti e gli orrori che affliggono l’umanità,
perché tutti gli uomini, pacificati tra loro,
possano chiamarsi veramente tuoi figli.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Oppure:
O Dio, amico della pace,
conoscerti è vivere, servirti è regnare;
libera da ogni aggressione il popolo che confida in te,
perché, sotto la tua difesa e protezione,
possa dedicarsi senza timore al tuo servizio.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
È qui evidente come il linguaggio liturgico sia stato sottoposto ad un processo di purificazione, che ancora fino al 1969 recava testi di ben altra struttura e cultura.
La guerra nel Messale del 1962
La colletta del messale del 62, ultimo esemplare della tradizione tridentina, e che alcuni oggi pretendono di usare come se nulla fosse, suona infatti come preghiera verso un Dio che «prende parte al conflitto», che ha nemici e che aiuta una parte contro l’altra.
Deus, qui conteris bella, et impugnatores
in te sperantium potentia
tuae defensionis expugnas: auxiliare
famulis tuis, implorantibus misericordiam
tuam; ut, inimicorum suorum
feritate depressa, incessabili te gratiarum
actione laudemus. Per Dominum.
(O Dio, che distruggi le guerre, e che
sconfiggi coloro che contrastano quelli che sperano
in te con la potenza della tua difesa, aiuta
i tuoi servi che implorano la tua misericordia
affinché sia vinta la crudeltà dei loro nemici
e ti lodiamo con inesauribile azione di grazie.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…)
Ancora più significativo è comparare le due preghiere del postcommunio. Da una parte abbiamo il Messale del 1962 che ricostruisce un volto di Dio che castiga e punisce i suoi servi:
Deus, regnorum omnium regumque dominator,
qui nos et percutiendo sanas et ignoscendo conservas:
praetende nobis misericordiam tuam;
ut tranquillitate pacis, tua potestate
servata, ad remedia correctionis utamur. Per Dominum…
(O Dio, che domini ogni regno e ogni re,
tu risani con i flagelli e preservi con il perdono:
stendi su di noi la tua misericordia,
affinché, sicuri della tua potenza,
usiamo della tranquillità della pace
per emendare le nostre vite.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…)
Nel nuovo messale leggiamo, invece, una preghiera successiva alla comunione che non attribuisce a Dio alcun intento «retributivo», ma che nutre, riconcilia e conferma nella fraternità:
Signore, che ci hai nutriti con la dolcezza di quest’unico pane,
che ci conforta nelle prove della vita
concedi all’umanità, sconvolta dalla guerra,
di ricuperare il bene della pace,
per vivere secondo la tua legge
nella giustizia e nella fraternità.
Per Cristo nostro Signore.
La preghiera per i «nemici»
Tuttavia, oltre ai testi «riformulati» e «ripensati», troviamo anche un secondo livello di trasformazione della tradizione liturgica: ossia quei testi che fino al 1969 sono stati formalmente nel Messale e che utilizzavano l’espressione «preghiera per i nemici» e suonavano, nel Messale del 1962, con queste parole nel postcommunio:
Haec nos communio, Domine, eruat
a delictis: et ab inimicorum defendat
insidiis. Per Dominum.
(Questa comunione, Signore, ci liberi dai peccati:
e ci difenda dalle insidie dei nemici.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…)
Essa diventa, dopo il 1970, un testo più articolato e pensato in modo meno drastico:
Per questo mistero della nostra redenzione
donaci, Signore, di vivere in pace con tutti
e guarda benigno coloro che ci affliggono,
perché in un rinnovato vincolo di fraternità
possiamo insieme render grazie al tuo nome.
Per Cristo nostro Signore.
È così evidente come la tradizione liturgica, dopo secoli di linguaggio compromesso in modo grave con una «ostilità» e una «violenza riparatrice» spostata anche su Dio, abbia saputo prendere congedo da questo registro e depurarlo da ogni lettura parziale e conflittuale. Lo stesso termine «nemici» viene superato e diventa «coloro che ci affliggono». Si tratta di un lavoro prezioso di ridefinizione dei rapporti e di descrizione dell’azione, non del soggetto che la compie.
La pace che inizia dal linguaggio
Poiché il linguaggio è il primo livello di elaborazione della relazione con l’altro, la cura nella purificazione ecclesiale della preghiera è un contributo non piccolo alla crescita della cultura della pace. La guerra, come è evidente anche oggi, sotto i nostri occhi, inizia sempre dal linguaggio. La pace inizia dal trovare, di fronte all’altro, anche nella peggiore delle crisi, le parole più serene e più pacificanti. Per questo la riforma liturgica non è soltanto un passaggio tecnico tra diversi riti, ma una crescita morale e un approfondimento culturale che non può essere considerato «opzionale».
Il rito preconciliare non ha ancora elaborato una cultura della pace. Evidentemente non è colpa del rito, che è chiuso nel suo tempo. La colpa, semmai, è in chi oggi vuole ostinarsi a rimanere fermo a quel linguaggio, immunizzandosi dalla storia e dalla responsabilità, e proponendo la mistificazione dell’“interscambiabilità” tra rito precedente e rito attuale.
La guerra è un criterio discriminante: nel pensare e nel vivere il rapporto tra la messa e la guerra, non si può stare allo stesso tempo nel 1962 e nel 2022, senza diventare caricature di sé stessi, troppo lontani dall’uomo davvero responsabile della pace, anzitutto per le parole che usa e che riconosce sulla bocca di Dio.
Pubblicato il 28 febbraio 2022 nel blog: Come se non.
La Scrittura è piena di aporie di tal fatta, sia nell’antico (pardon, primo) che nel nuovo (secondo?) testamento. Urge un illuminato intervento di revisione! Marcione si riscalda a bordo campo…