Sul Guardian dell’8 maggio Simon Jenkins diceva di non riuscire a ricordare il numero di volte in cui nell’incoronazione di Carlo III si era nominato Dio, mentre mai era stato citato il parlamento, né ricordata la democrazia. Usava paradossi pesanti: «Nemmeno la Cina di Xi Jinping o la Russia di Vladimir Putin avrebbero osato convocare milioni di persone per farsi vedere mentre vengono svestiti e rinchiusi in un abitacolo riservato, per comunicare con l’Onnipotente, al fine di ottenere la legittimazione del loro potere», per domandarsi: «La Gran Bretagna è completamente impazzita?».
«Servizio»
Jenkins ammette che sarebbe stato anacronistico anche fare a meno di un qualsiasi rito di investitura del nuovo re, ma gli altri monarchi europei vengono formalmente riconosciuti dai loro parlamenti democratici, non da una Established Curch. La Church of England, fra l’altro, non rappresenta più un’intera popolazione, di cui solo un’esigua minoranza avrà potuto comprendere parole e gesti nei quali, certamente, non intendeva più identificarsi.
Se si voleva fosse il potere di Dio, non il parlamento, a legittimare l’autorità del re, Jenkins rammentava al lettore che, per aver preteso questo, il 30 gennaio 1649, re Carlo I aveva perso la testa. La sola parola comprensibile e condivisibile da tutti, «che il re e il principe William hanno invocato così spesso da sembrare agenti di marketing alla presentazione di un nuovo marchio», è stata «servizio».
Se allora non ci si attende che Carlo III faccia da Madre Teresa della Gran Bretagna, si auspica almeno che egli cominci a «servire» il suo popolo, aprendo ai londinesi i cancelli del giardino di Buckingam Palace, 16 splendidi ettari di verde, per farne un parco pubblico.
Mi faceva piacere sentire qualcuno, e per di più un suddito di sua maestà, che osava cantare fuori del coro, in difesa, più che delle istituzioni democratiche, di quella che Maritain definiva «una filosofia democratica». Mi domandavo, quindi, se ci fosse stato qualcuno che avesse avuto la stessa audacia in difesa della dignità della fede cristiana, di cui impunemente si era fatto strazio nel nobile spazio della Westminster Abbey.
«Mistica e teatrale»
Jenkins citava uno scrittore inglese che aveva descritto la monarchia del Regno Unito come un’istituzione «mistica e teatrale». La dimensione teatrale dell’incoronazione, in un popolo cristiano che in altri tempi venerava nel suo re l’icona di Cristo «re dei re», poteva ancora esprimere la mistica autentica della sua fede.
Ma oggi solo il singolo credente può compromettere se stesso, e solo se stesso, salendo sul palcoscenico, a mettere in scena la rappresentazione della sua fede. Lo ha fatto un uomo della casata dei Windsor, battezzato col nome di Carlo, della cui fede personale nessuno ha il diritto di dubitare. Lo ha fatto l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, degnissimo uomo di fede, successore di Tommaso Becket che, per aver difeso la purezza della fede della sua Chiesa, è stato assassinato.
Non lo ha fatto la folla variopinta ammassata nella navata della cattedrale né il popolo cui l’evento era destinato. Mi veniva anche in mente che forse l’arcivescovo primate di Canterbury si era sentito in quel frangente come Pio VII all’incoronazione di Napoleone. Se pure in una situazione non drammatica come era stata quella, egli era lì, obbligato, di fatto, dal suo ruolo istituzionale a dire parole e compiere, in nome di Cristo, i gesti dell’unzione per consegnare il suo re a un popolo che non pensava affatto di doverlo accogliere come l’Unto del Signore.
Era una celebrazione della fede che assumeva il pur alto valore civile dell’investitura del potere regale del nuovo sovrano, al modo di una fictio iuris. Se si riconosceva che sul piano giuridico era una fictio iuris, bisognava anche riconoscere che sul piano religioso era una fictio fidei. Era di sei mesi prima, infatti, l’annuncio del dato statistico dal quale risultava che nel Regno Unito, per la prima volta nella storia, i cristiani scendevano sotto la quota del 50% della popolazione e per il 37% si dichiaravano non professanti alcuna religione.
Intollerabile
È vero che anche nelle celebrazioni liturgiche delle nostre parrocchie cattoliche, per i matrimoni e i funerali, si celebrano liturgie con la maggioranza dei partecipanti presenti non per un motivo di fede ma per l’amicizia e gli affetti familiari che li legano agli sposi o ai congiunti del defunto. In questi casi, però, l’anomalia è risolvibile, e viene risolta, con la sua esplicitazione e l’invito rivolto ai presenti a trovare, ciascuno nella sua propria interiorità, i sentimenti che più li avvicinano a quelli della comunità di fede.
Questo non sarebbe stato possibile, in alcun modo, in quel giorno nella Westminster Abbey. Averlo fatto sarebbe equivalso a una clamorosa smentita della prestigiosa solennità e del senso stesso dell’evento. Ne avrebbe messo allo scoperto la contraddizione di un’istituzione civile che si piegava al bisogno di chiedere alla Chiesa, la quale a sua volta si piegava a farlo, di fornirle i riti della sua fede perché venissero usati come la formalità giuridica capace di legittimare l’assunzione del potere regale dal nuovo sovrano.
Certamente tutti i prelati officianti, l’arcivescovo cattolico di Londra, il cardinale Vincent Nicols, e tutti i credenti in Cristo partecipanti a quella liturgia hanno pregato per il re, per il suo popolo e per il mondo. Ed è cosa buona. Che in tutte le chiese del Regno Unito, comprese, ovviamente, quelle cattoliche, si sia pregato in quei giorni per il re, per il suo popolo e per il mondo, è cosa buona. Che la preghiera sia stata ispirata dalla passione per l’unità delle Chiese, è cosa buona. Che uomini di altre religioni siano stati invitati a coinvolgersi con la preghiera nell’evento, è cosa buona.
Molti cristiani si sono rallegrati che nel mondo intero si sia potuto veder celebrare in maniera così solenne la fede in Dio e in Cristo. Confesso di non essere stato fra questi. La fictio iuris è uno strumento utile al diritto, la fictio fidei è intollerabile.