Don Ubaldo è molto perplesso: nella messa che segna l’inizio l’anno pastorale (e già questo lo confonde: esiste forse un periodo dell’anno in cui non c’è pastorale? si chiede…) le catechiste sono molto attive per fare in modo che i ragazzini si sentano coinvolti. E lui si sente travolto, timido com’è, da tutti questi bambini che fanno di tutto… forse troppo!
Trema all’idea di quello che vedrà arrivare all’offertorio: dalle scarpe allo zainetto, dai cartelloni al libretto di catechesi, corredati dalla dotta e dettagliata spiegazione del significato di quelli che vengono chiamati simboli. A volte è arrivata anche una pagnotta bella grande e lui non sapeva dove metterla e cosa farne.
Don Ubaldo è troppo buono per provare ad opporsi, e poi non sa come difendersi: teme di perdere le sue amate catechiste, se osa contraddirle sulle loro iniziative. E così, suo malgrado, diventa connivente con quelle scelte che nascono da buona volontà, ma anche da profonda ignoranza.
Dopo la liturgia della parola inizia la liturgia eucaristica. Abbiamo visto che questo tipo di suddivisione può generare una sorta di confusione: si rischia di separare una parte dall’altra, mentre è l’intera celebrazione che mostra il mistero di Cristo morto e risorto.
Nella liturgia eucaristica la parola di Dio non è assente: anche in questa parte risuona la Scrittura (pensiamo alle parole dell’istituzione, per esempio). La Parola consente di riconoscere nel pane e nel vino i segni di Cristo morto e risorto, e questi permettono di sentire viva ed efficace la parola di Dio.
Gli antichi chiamavano questa parte missa fidelium, la messa dei fedeli, perché solo i battezzati (fedeli) vi possono partecipare, a differenza della prima in cui ci sono anche i non battezzati (missa catecumenorum, la messa dei catecumeni che vengono congedati dopo l’omelia).
Questa precisazione ci apre ad una riflessione importante: solo chi ha ricevuto lo Spirito di Dio può avvicinarsi al mistero di Dio che si esprime nei divini misteri. Cristo morto e risorto in mezzo a noi può essere guardato, assunto e adorato nei segni del pane e del vino solo da chi è battezzato, abilitato a questo non da una sua virtù, ma dalla grazia dei sacramenti.
Questa parte della liturgia si apre con la presentazione dei doni. Il rito nasce prima di tutto da un’esigenza pratica: preparare l’altare per il sacrificio eucaristico; successivamente si è arricchito di significati simbolici, indicando l’ingresso di Gesù nel mondo e il suo offrirsi per la salvezza dell’umanità.
Nel Messale (PNMR) troviamo scritto: «Terminata la liturgia della Parola i ministri preparano sull’altare il corporale, il purificatoio, il calice e il messale…». La norma rituale nomina corporale, purificatoio, calice e messale che sono strumenti: non hanno nessuna rilevanza simbolica. Non vengono quindi portati in processione. Da questo capiamo che non si porta il calice nella processione della presentazione dei doni, perché il calice non è un simbolo come il pane e il vino: è solo uno strumento.
Si portano nella processione offertoriale il pane, il vino (insieme all’acqua) e le offerte per i poveri. Tutto ruota attorno al pane e al vino che sono il punto focale dell’azione liturgica. Infatti, il Messale precisa: «All’inizio della liturgia eucaristica si portano all’altare i doni, che diventeranno il corpo e il sangue di Cristo». Questa frase sgombera il campo da ogni equivoco: zainetti, scarpe, libri, anche la pagnotta o l’uva, non sono i doni che diventeranno il corpo e il sangue di Cristo. Nella preparazione dei doni, vengono portati all’altare pane e vino con acqua, cioè gli stessi elementi che Cristo prese tra le sue mani per trasformarli nel sacramento della sua Pasqua.
È certo «opportuno che i fedeli esprimano la loro partecipazione per mezzo dell’offerta, portando il pane e il vino per la celebrazione dell’eucaristia, o altri doni per le necessità della Chiesa e dei poveri». Questo significa che l’atto dell’offerta, nel quale il primo ad offrirsi è Cristo, necessita della nostra partecipazione, e questa ha bisogno di diventare palpabile, «portando il pane e il vino e altri doni». Per questo è triste vedere le oblate (così si chiamano il pane e il vino) già sull’altare fin dall’inizio della celebrazione, perché viene messa in ombra la nostra partecipazione al mistero celebrato.
Gli altri doni non sono simboletti di vario genere, ma quello che viene offerto per i poveri. Anticamente, dopo il pane e il vino, venivano portati all’altare tutti i doni concreti che poi la Chiesa utilizzava per i poveri: frutta, verdura, sacchi di farina, animali, stoffe e così via (per questo alla fine della presentazione dei doni, il celebrante si lavava le mani, prima di toccare le oblate).
Nella liturgia entrano a pieno titolo tutti i gesti della carità per quel corpo di Cristo che sono i poveri. Il fatto che qualcuno materialmente porti questi doni, racconta tutta la nostra partecipazione, non perché “tutti fanno qualcosa”, ma perché chi agisce lo fa sempre a nome della Chiesa, dell’assemblea. Anche se materialmente non porto nulla, non per questo non sto partecipando attivamente a questo rito. Mi unisco con quello che vivo all’offerta di Cristo. Faccio entrare in lui le mie fatiche, le mie gioie, le mie preoccupazioni. Colui che è offerto, immolato e glorificato è Cristo per mezzo dell’offerta della sua stessa vita e noi entriamo in questa dinamica di offerta.
Dietro a quell’orribile morte, Gesù Cristo consegna sé stesso al Padre in obbedienza: questo è il significato del sacrificio e dell’offerta. È l’amore che c’è dietro a quelle piaghe che ci salva, non le piaghe in sé stesse. E questo è l’amore della Trinità, quell’amore che il Padre dall’eternità riversa nel Figlio, e il Figlio restituisce, per mezzo dello Spirito, al Padre. Quell’amore per il quale la Trinità non può accettare di essere separata dall’uomo: Dio non accetta la nostra separazione!
Con la presentazione dei doni, unendoci a questa offerta, noi mettiamo la nostra vita dentro l’amore di Dio e diventiamo capaci di amare. Tutto quello che può oscurare o mettere in ombra questo grande mistero va evitato. Questo non è il momento dei nostri simboletti, della nostra catechesi, dei nostri cartelloni, degli scarponi, delle pagnotte o della festa: è l’offerta di Gesù Cristo in tutta la sua drammatica e salvifica realtà.