L’Epifania del Signore[1] è solennità densa di sensi teologici, pregnante di messaggi missionari. È capace anzitutto di essere una luce ulteriore sulla grotta della Natività: per così dire, aggiunge vastità alla luce natalizia, nel senso che l’apre a stella in tutte le direzioni della famiglia umana, verso le generazioni di tutti i tempi futuri; ma perché non dire anche: verso le generazioni passate fino ad Adamo? e perché non uscire dall’alveo, pur immenso della comunità degli uomini, per dire che l’Epifania apre la grazia di Natale fino ad ogni spazio degli uomini, fin nelle pieghe della natura, in tutta la creazione, insomma?
Il Dio infinitamente nascosto si manifesta agli occhi dell’uomo
Dio è “totalmente altro” nonostante la rivelazione, è ineffabile nonostante la preghiera che ci lega a lui, è nascosto nonostante l’incarnazione che ce lo ha mostrato come l’Emmanuele, il Dio non solo vicino, ma il «Dio con noi» (Mt 1,22-23).
E chi può dire che perfino in Cielo, anche se «lo vedremo così com’egli è» (cf. 1Gv 3,2), finirà di essere il Dio «più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20), ossia più grande della nostra vita, anche di quella glorificata?
Dio non può rinunciare alla sua infinità divina, alla sua identità divina, alla sua mistericità: la kénosi è il velamento di queste infinità, identità, mistericità divine, non la loro sostituzione.
Ma la grandezza del mistero di Natale e della sua manifestazione sta proprio in questo: che l’Infinito si è fatto piccolo, l’Eterno è entrato nel tempo, il Verbo che diviene infante (infans = colui che non parla), la Gloria si è velata perché la sua luce potesse essere sostenuta dai nostri occhi di creature in stato di viatori e in una condizione vespertina: Dio «ora lo vediamo come in uno specchio, in maniera confusa» (1Cor 13,12).
La grazia di Natale e dell’Epifania dura ancora: Dio si è mostrato, ma resta ancora velato, cioè adatto ad essere visto dai nostri deboli e opachi occhi carnali. Coprendo la sua divinità con il velo della carne, Dio ci ha usato misericordia, perché così ha reso possibile la sua presenza personale fra noi.
Come potevamo godere della compagnia di Dio senza l’umiltà del Natale (Dio che si abbassa fino a noi) e la carità irradiante dell’Epifania (Dio che si manifesta nella sostenibilità dei nostri occhi)?
La misericordia di Dio per noi comprende quell’umiltà e quella carità: «La natura incorporea di Dio non può essere contemplata da occhi mortali. […] A causa dell’eccessiva luce si dissolverebbe ogni carne, a meno che, per disposizione ineffabile di Dio, o la carne si muti in luce per poter vedere la luce, o la luce si muti in carne per essere vista dalla carne» (Pd. Clementine, Hom. 17,16).
Dio ci ha usato misericordia: a Natale ha scelto la “carne” per velare la luce della sua Gloria, e nell’Epifania ha invitato tutti gli uomini ad entrare in contemplazione con lui.
Un Salvatore nato per tutti e accolto da pochi
Si può affermare che la grazia dell’Epifania e la sua genialità misterica mirano a far vedere l’altezza, la profondità, la latitudine del mistero natalizio. Il mistero dell’Epifania è, pertanto, legato essenzialmente all’evento di Natale: senza questo non saprebbe dire chi è manifestato, dove è il “cardine della salvezza”, chi è, anzi, il Salvatore universale.
L’Epifania e Natale si cercano: senza Natale, non avrebbe chi mostrare; senza l’Epifania, Natale resterebbe come chiuso in un movimento involutivo su di sé e come bloccato nel messaggio e nella grazia di salvezza che reca con sé.
L’Epifania qualifica il Natale con la nota dell’universalità: si tratta di una “cattolicità” non facile da riconoscere e da accettare. In modo molto significativo e ammonitore, l’Epifania, che deve mostrare l’universalità del Bambino di Natale, è segnata dal mistero del rifiuto.
L’evangelista al fronte dell’accoglienza, che coinvolge gentili ed ebrei, contrappone il fronte del rifiuto, che comprende Erode, il pagano, i sommi sacerdoti, gli scribi del popolo (cf. Mt 2,2-3.8). Sono posti tutti i termini del dramma: la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo (cf. At 4,11; 1Pt 2,4.7); e continua ancora ad essere così: la costruzione della «casa dell’uomo» (E. Bloch) continua ad essere fatta dimenticando quale sia la «pietra angolare».
Il dramma segue Cristo e gli uomini ai quali egli è mandato dal Padre come unico Salvatore: gli uomini lo rifiutano o stentano ad accoglierlo, ma il proposito del Padre resta immutato nella coscienza credente della Chiesa: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12).
L’Epifania è mistero “complesso”, come del resto tutti i misteri di Cristo: proponendo il Cristo come Salvatore universale (l’icona dell’universalità sono i magi), pone l’accento sul particolare del Salvatore: solo quel Bambino di Betlemme è l’unico salvatore: ma come dirlo a tutti, come presentarlo a tutti, come farlo accettare da tutti?
L’Epifania, mentre ci consola mostrandoci il Cristo, ci lega anche, e per sempre, alle croci della missione e della pastorale, che conoscono la tristezza del rifiuto di Cristo, il mistero della “lontananza” da lui, la sofferenza che i suoi seguaci sono “minoranza”.
La ricerca della verità salvifica sfocia nel “faccia a faccia” con Cristo
I magi, i cercatori della Luce, il simbolo intramontabile dei pellegrini dell’Assoluto, sono in permanente ricerca di Dio, la profezia personalizzata che mostra come Dio si faccia incontrare da chi sa accogliere i suoi segni e si lascia da essi guidare, passano per Gerusalemme facendo in essa una sosta obbligata: la verità della salvezza non è generica, non è vaga, non è qualunquistica; essa, invece, è concreta, è grazia che vive nel tempo degli uomini, conosce le coordinate spaziali della sua geografia. «La verità viene dai giudei» (Gv 4,22).
I magi si mostrano come l’icona vivente della ricercatori della verità salvifica: questa non la si trova sempre subito, poiché può richiedere un lungo cammino; non la si trova sempre con facilità, poiché può richiedere un faticoso cammino; non la si trova sempre vicina, poiché impone di “partire da lontano”; non la si trova da soli, poiché pretende la coralità, la “compagnia” e il camminare insieme; non la si trova per impossessarsene, ma per contemplarla e per adorarla; infatti, la verità salvifica non risiede in formule astratte, in teoremi intricati, in speculazioni fumose, ma nel faccia a faccia con Cristo: in lui solo la ricerca della verità conclude salvificamente.
Il cristianesimo è – sì! – verità, ma non nel senso di una gnosi, magari lucida, alla quale si arriverebbe con una conoscenza razionale o con ascensioni ascetiche; la verità cristiana, nel senso più radicale e insuperabile del termine, è una persona, è Gesù Cristo che di sé ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). È il messaggio che i magi hanno profeticamente accolto e hanno consegnato a noi, perché anche noi, inginocchiandoci, adoriamo la Verità che ci salva.
L’icona dell’Epifania: il Bambino e sua Madre
L’esegesi si è curvata, con pietà e acume interpretativo, su Mt 2,11: «Entrati nella casa, [i magi] videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono». Conosciamo, così, significati sempre più ricchi e fecondi per la teologia, la spiritualità e la missione (cf. le forti e sottili pagine del biblista del “Marianum”, A. Serra: Maria secondo il Vangelo, Brescia 19882, pp. 102-111; la rivista dei Monfortani Theotokos 4 [1996] 1: numero interamente dedicato a illustrare il binomio matteano: «Il Bambino e sua Madre»).
Leggendo questi testi, deduciamo che l’Epifania è una misteriosa decifrazione del Natale: ne coglie, infatti, nessi misterici particolari, dimensioni sottese, aspetti nascosti. Il suo è un ruolo rivelativo e manifestativo anche in questo senso. Ma poniamoci dinanzi all’icona biblica dell’Epifania: essa non è solo densa di colori, ma, se si potesse dire, è icona viva: conserva voci veterotestamentarie; vi si sente l’eco pia dei Salmi (cf. 42-43; 84), porta il suo soffio la forte ala dei profeti: specie di Isaia (cf. 49; 56; 60); infine, evoca profeticamente le grandi voci della Tradizione sia giudaica che cristiana.
Sono molti i parallelismi fra l’evento natalizio dell’Epifania e i fatti pasquali. Il primo è fra la «casa» di Betlemme e il nuovo monte Sion. I magi sono aiutati dalla stella del Messia che va loro «innanzi» (cf. Mt 2,2.9) e li guida alla «casa» di Betlemme, dove si trova il Bambino, come i discepoli saranno guidati dal Risorto che va loro «innanzi» e li conduce sul nuovo monte Sion (cf. Mt 26,31).
Il secondo parallelismo riguarda l’adorazione che i magi rendono a Gesù Bambino (cf. Mt 2,11) e quella che i discepoli tributano a Gesù risorto (cf. Mt 23,37).
Il terzo parallelismo riguarda l’adorazione dei magi e quella dei discepoli: l’una e l’altra non avvengono in Gerusalemme, ma in Galilea.
La “città” del gran Re: Maria e la Chiesa, una sola “Gerusalemme”
Esiste una grande corrispondenza tra il racconto di Matteo (2,11) e le profezie di Isaia (49; 60): i magi «adorano» il Bambino e gli recano in dono «oro, incenso e mirra» (Mt 2,11), come era stato profetizzato per il Re Messia (cf. Is 60,6).
C’è, infine, un sottilissimo parallelismo, che svela le dimensioni mariane ed ecclesiali dell’Epifania.
I magi, pur passando a Gerusalemme per informarsi circa il Bambino, non trovano il Messia in essa, al contrario dell’antico Israele che cercava di «vedere» il suo Dio in Sion (cf. Sal 42-43,3), nelle cui mura come in un “grembo” era il Tempio, ossia la «casa» in cui Dio abitava.
Ma, davvero i magi non vanno a Gerusalemme? Maria non è, come Gerusalemme (Is 56,3-8), la Città-madre? Maria non è la Donna-popolo, non è la «figlia di Sion» (Zc 9,9), dove si attua la regalità di Cristo per il suo popolo? Non è stato detto a lei: «Dite alla figlia di Sion: “Ecco il tuo re viene a te”…» (Mt 21,5)?
«I magi… il Bambino e Maria, sua madre»: sono i personaggi indissociabili dell’icona dell’Epifania. Si chiede di non dimenticare la «casa» dell’adorazione dei magi: è la «casa» della Chiesa (cf. Ef 2,19-20), che è costruita in luogo della «casa d’Israele» (Mt 10,6). La conclusione è: Gesù lo possiamo trovare come l’hanno trovato i magi, ossia sulle ginocchia di Maria, misteriosa Gerusalemme, dentro la Chiesa, anch’essa Gerusalemme, città di mistero (cf. Mt 5,14).
Come si vede, Maria è indissociabile da Cristo e dalla Chiesa: la conseguenza è che a Cristo si va passando per Maria e per la Chiesa. Maria e la Chiesa sono infatti la stessa Gerusalemme, la città del gran Re.
[1] Inizialmente la festa dell’Epifania costituiva un’unica festa con quella di Natale, avendo lo stesso oggetto: l’incarnazione del Verbo, celebrata però sotto una denominazione e in date differenti in Oriente e in Occidente: qui il 25 dicembre, lì il 6 gennaio come festa dell’Epifania. La distinzione in due feste dal contenuto diverso avviene tra la fine del IV e l’inizio del V sec. A Roma la festa del 25 dicembre aveva un unico oggetto: la nascita di Gesù a Betlemme, secondo il racconto di Luca. Il Vangelo di Matteo però, che riferisce anche la visita dei magi dal lontano Oriente per adorare il Bambino, non poteva non imporsi all’ammirazione dei cristiani, venuti anch’essi, per la maggior parte, dal paganesimo. I magi rappresentavano le primizie della gentilità, gli antenati nella fede. Così, adottando la festa orientale del 6 gennaio, si diede all’Epifania un tema nuovo: quello dell’omaggio reso dai pagani al Figlio di Maria, il Figlio di Dio. La prima testimonianza occidentale della festa è del pagano Ammiano Marcellino. Sant’Agostino e san Leone Magno hanno lasciato diversi sermoni per tale giorno. Sembra che l’Africa, Roma, Ravenna, Milano, pur ricordando il Battesimo di Gesù, probabilmente per non avervi praticato il conferimento del sacramento del Battesimo, lascino prevalere molto nella festa dell’Epifania il mistero di un’altra teofania, quella dei magi, nella quale Gesù si era manifestato come Re e Signore di tutte le genti. Se il tema della venuta dei magi a Betlemme resterà predominante quando la festa dell’Epifania si diffonde in Occidente, la Gallia, che aveva strette relazioni con l’Oriente, si preoccupò di unirvi il ricordo del battesimo di Gesù. In seguito vi si aggiunse anche il ricordo del segno di Cana, nel quale Gesù «manifestò la sua gloria» e i «suoi discepoli credettero in lui» (Gv 2,11).