“Magnum principium”, lo sblocco delle traduzioni

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La pubblicazione del motu proprio Magnum principium, firmato il 3 settembre e che entrerà in vigore il 1 ottobre 2017, costituisce una svolta importante nella lunga questione delle “traduzioni liturgiche”. Per comprenderne il significato occorre brevemente contestualizzarne il testo nella vicenda degli ultimi 20 anni, per poi esaminare il contenuto normativo, quello ecclesiologico e quello teologico del documento. Si tratta di un documento breve (qui il rimando al testo, corredato da una nota giuridica e da una interpretazione da parte del segretario mons. Roche), ma i cui effetti sono destinati a modificare profondamente le abitudini ecclesiali, le rappresentazioni teologiche e le pratiche istituzionali. Anzitutto provo a ricostruire il contesto, nel quale il documento può assumere oggi tutta la sua importanza.

a) Le traduzioni impossibili

Il titolo e l’attacco del documento si rifanno ad un “grande principio” affermato dal Concilio Vaticano II, ossia alla “comprensione dei testi liturgici” da parte del popolo, per assicurare la partecipazione all’azione celebrativa. La storia del “grave compito” di tradurre i testi liturgici ha conosciuto diverse fasi, ma negli ultimi 30 anni aveva conosciuto, progressivamente, una sorta di paradosso: con la istruzione Liturgiam authenticam (2001) si era affermato un principio di “traduzione letterale”, come garanzia della fedeltà al testo latino, che aveva reso di fatto impossibile ogni buona traduzione. Le conferenze episcopali si trovavano pressate da una polarità irresolubile: o obbedivano alla normativa della istruzione, e traducevano in modo incomprensibile per il loro popolo; oppure traducevano in modo comprensibile, ma non vedevano approvate le traduzioni da parte della Congregazione. Dal 2001 il disagio era sempre più cresciuto, fino alle proteste esplicite che negli ultimi anni erano arrivate dagli episcopati tedeschi, francesi, statunitensi, canadesi, italiani…

In realtà il “blocco istituzionale” dipendeva, come vedremo, da un duplice blocco teorico, che pretendeva di garantire la fedeltà secondo due principi troppo drastici: si doveva tradurre letteralmente e si doveva tradurre senza interpretare. Ma l’esperienza ecclesiale, e la riflessione teologica, hanno dimostrato l’illusorietà teorica e la distorsione pratica di questa pretesa.

b) La modifica del Codice

Il cuore del motu proprio è una modifica del Codice di diritto canonico, al can 838, che viene riformulato, introducendo una distinzione decisiva (cf. nota ufficiale  qui) . Il rapporto tra Santa Sede ed episcopati locali prima prevedeva un unico strumento di correlazione – la “recognitio”. Ora, riprendendo una distinzione non nuova, ne prevede due: accanto alla “recognitio” viene introdotta la “confirmatio”. Con la prima la Santa Sede entra direttamente nelle scelte operate dalla conferenze episcopali, quando riguardano l’adattamento dei testi. Con la seconda si limita ad un controllo formale, presupponendo la “fedeltà di traduzione” come garantita dalla esperienza locale degli episcopati. Questa distinzione ha immediatamente due effetti:

  • ridimensiona la pretese di controllo centrale, che dal 2001 erano cresciute a dismisura, sindacando puntigliosamente e unilateralmente su ogni singola parola tradotta;
  • tiene conto dell’esigenza di “interpretazione” per la resa del latino in una “lingua del popolo” e la affida, ordinariamente, alla competenza dei vescovi del luogo.

Con questa articolazione tra “recognitio” e “confirmatio” non soltanto avremo uno snellimento procedurale nella approvazione delle traduzioni, ma anche il delinearsi di una teologia e di una ecclesiologia in cui la “sinodalità” e il “decentramento” diventano prassi necessaria.

c) Le parole iniziali: teologia della liturgia e ruolo degli episcopati

In effetti, pur nella sua stringatezza, il documento papale non rinuncia ad uno spazio di “argomentazione teologica” nel quale troviamo affermati almeno quattro principi che non ascoltavamo con tanta chiarezza da quasi 50 anni:

  • Il “grande principio” della esigenza di comprensione della preghiera liturgica da parte del popolo.
  • Il principio per cui la “parola” è mistero senza che ciò dipenda dalla “incomprensione”, ma dalla profondità inesauribile del suo significato.
  • In terzo principio è la “competenza episcopale”, che viene ribadita con forza, come eredità conciliare e come esigenza intrinseca al rinnovamento della vita liturgica del popolo di Dio. La composizione tra esigenze degli Episcopati ed esigenze della Santa Sede trova, con la riforma del Codice, più facile e felice correlazione.
  • Il quarto principio è una “teoria della traduzione”, bene espressa nella frase:
    «fideliter communicandum est certo populo per eiusdem linguam id, quod Ecclesia alii populo per Latinam linguam communicare voluit».

Questa formulazione mostra bene l’importanza di tradurre non parola per parola, ma da cultura a cultura. Ciò che deve essere comunicato – la parola della salvezza – deve trovare espressione diversa quando entra in lingue e culture diverse. La corrispondenza tra lingue non è statica, ma dinamica. Irrigidire il “contenuto” in parole fisse conduce, irreparabilmente, a traduzioni incapaci di comunicare. La esigenza di un “glossario comune” non contraddice, ma giustifica questa scelta ordinaria.

d) Essere fedeli al testo: che cosa significa?

Una delle conseguenze di questo MP è una preziosa riflessione sul tema della “fedeltà”. Che cosa significa, infatti, essere “fedeli al testo”? Essa comporta una duplice fedeltà: non solo al testo, ma anche al destinatario. Per garantire questa duplice fedeltà non è sufficiente una competenza centrale, ma è decisiva anche una competenza locale. La logica del MP è quella di una “riconsiderazione della periferia”: per rendere pienamente il significato di un testo liturgico, originariamente latino, dobbiamo entrare nella lingua del popolo non solo con la testa, ma anche con il corpo. Questo possono farlo non funzionari romani, ma vescovi in loco. Una fedeltà solo letterale contraddice la complessità della struttura ecclesiale e della storia dei popoli. Il riferimento al Concilio Vaticano II è l’orizzonte in cui per essere fedeli alla tradizione occorre riconoscersi la possibilità di cambiare.

e) Tradurre è interpretare: la esigenza di competenze decentrate

Un secondo aspetto, che dobbiamo considerare nel documento, è il superamento della illusione che si possa tradurre senza interpretare. Dietro alla distinzione tra “recognitio” e “confirmatio”, sta, in fondo, la consapevolezza che non è possibile un atto di traduzione reale ed efficace, che non si cali nella particolare interpretazione che ogni lingua “diversa” offre del testo latino. Per passare dal latino alle lingue parlate occorre non semplicemente una trasposizione lessicale, ma sempre anche un’interpretazione culturale, esistenziale, storica, sociale. Quella che sembra a prima vista una distinzione giuridica e fredda, permette di far entrare la freschezza e la ricchezza delle vite dentro le parole della liturgia. Le quali sanno essere fedeli al latino solo se restano fresche e vive. Una teologia della liturgia partecipata e una ecclesiologia di comunione sono il presupposto e l’effetto di questa importante riforma del codice. E l’unità è garantita non dall’arretrare sul latino, ma dall’avanzare nella traduzione delle lingue del popolo.

f) Lo sblocco e il rilancio: lo spazio urgente di una VI Istruzione

Uno dei primi titoli, usciti su un grande giornale italiano, che deva notizia di questo MP, suonava così: Il papa concede più libertà agli episcopati…”. Un bravo collega teologo, il prof. Stefano Parenti, aveva subito annotato in un commento in rete: «Attenzione, qui il papa non concede, ma restituisce». Questa osservazione è del tutto corretta e gliene sono grato. Ci sono voluti 16 anni per rendersi conto che la pretesa di controllare tutto dal centro, di trasformare le lingue vernacole in semplici strumenti del latino, era un’idea unilaterale e distorta, frutto di una teoria del testo, della comunicazione, della teologia e dell’ecclesiologia senza veri fondamenti nella tradizione. Ora il MP ristabilisce la logica della traduzione nell’alveo della sua tradizione più sana. Sarà molto difficile sottovalutare questo passaggio. Ma ciò che qui è stato riconosciuto necessario, e che va salutato come un salutare contributo al cammino della riforma liturgica, deve essere giudicato, con altrettanta chiarezza, come insufficiente. Le due intense pagine del MP, che hanno grande efficacia sul piano procedurale, e che impostano lucidamente una rinnovata coscienza teologica ed ecclesiologia dinamica, devono ricreare le condizioni di una “comunicazione liturgica intorno al tradurre” che non può non richiedere in modo urgente una nuova istruzione. Il MP sblocca la vita della Chiesa che celebra, ma rivela anche un grande desiderio di nuove motivazioni: tale desiderio dovrà essere colmato da una nuova istruzione, che sappia uscire dalle secche – non solo procedurali, ma argomentative – in cui ci aveva condotto Liturgiam authenticam. Forse la stessa commissione che ha elaborato questo “provvedimento d’urgenza” potrà occuparsi di stendere una nuova istruzione, che consideri accuratamente, serenamente e distesamente tutto lo sviluppo della Riforma già compiuto, nonché quello ricco e fecondo che resta ancora da compiere.

Pubblicato il 11 settembre 2017 nel blog: Come se non.

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