Le discussioni di questi giorni, che intrecciano questioni liturgiche e questioni familiari, portano alla luce una questione delicata, che tuttavia merita di essere considerata con grande attenzione.
Le resistenze dei 4 cardinali e di alcuni vescovi alla recezione di AL non riguardano semplicemente la materia matrimoniale o familiare, ma toccano profondamente il modo di considerare l’esercizio dell’autorità. Ciò che di AL alcuni soggetti non riescono a comprendere è che, nel discernimento, venga attribuita un’autorità non solo alla legge oggettiva, ma anche all’esperienza e alla coscienza di “soggetti” – vescovi, parroci e sposi – diversi dal “magistero papale”. Questo, evidentemente, modifica un modello di pensiero e di azione che, tra fine ottocento e primi novecento, e soprattutto a partire dal Codice del 1917, ha cercato di tradurre tutto il magistero in legge oggettiva e tutta la “canonistica” in “diritto canonico”. Alla luce di questo modello di comprensione, ogni concessione ad “altre autorità”, diverse dalla legge oggettiva, diventa concessione insopportabile al relativismo, perdita di tradizione, rinnegamento di identità.
In campo liturgico, invece, abbiamo conosciuto negli ultimi 15 anni un’evoluzione inversa. Tanto sul piano della traduzione – dal 2001 – quanto sul piano dell’utilizzo del Vetus ordo – dal 2007 – si è preferito avocare alla autorità centrale ogni decisione, cercando di sottrarre ogni discernimento ai vescovi e ai presbiteri.
Si è preferito creare una “legge oggettiva” della traduzione e della articolazione tra NO e VO, per sottrarre discrezionalità e discernimento alla periferia, attribuendo ogni autorità rispettivamente alla Congregazione del culto e alla Commissione Ecclesia Dei.
Così, con un’operazione di centralizzazione senza precedenti, si è creato e alimentato un doppio mito: quello della “traduzione letterale” e quello di una capillare presenza di “tradizionalisti”. Senza ascoltare più il discernimento locale dei vescovi nell’ambito delle traduzione e delle opportunità di celebrare secondo il VO, si è preferito costruire il mito di una pura fedeltà al latino e di un parallelismo universale tra VO e NO.
Mi chiedo: da dove viene questa volontà accentratrice? Viene da Napoleone e dall’ideale di una “legge universale e astratta” applicabile ad ogni caso. Così scopriamo che la paura del discernimento, così tipica delle reazioni preoccupate verso AL, non è altro che un “condizionamento antimodernistico”, che aspira a combattere il moderno con le sue stesse armi. La vera tradizione, però, non è quella. Vera tradizione è esercitare l’autorità riconoscendo la realtà non come occasione per l’applicazione di una norma generale, ma come luogo di manifestazione della verità. La verità non è nella legge generale, ma nella realtà concreta. Sia pure con una comprensibile fatica, AL ha riscoperto la vera tradizione in campo familiare. Sembra che sia venuto il momento di ritrovare il gusto della tradizione anche in liturgia: riconsegnando alle conferenze episcopali una vera autorità sulle traduzioni nelle lingue moderne e ai singoli vescovi un efficace discernimento sulla “forma rituale” da impiegare nella comunità celebrante loro affidata.
Pubblicato il 19 gennaio 2017 nel blog: Come se non.