Sul ruolo del presbitero, sullo stato della liturgia e sulla incidenza della stessa nella pastorale, raccogliamo la visione di don Massimiliano Cenzato, direttore dell’ufficio liturgico e dell’archivio della Diocesi di Mantova.
- Massimiliano, quale bilancio ti senti di tracciare a più di cinquant’anni dalla Sacrosantum Concilium?
S.C. è la prima Costituzione e, forse, a livello teologico, la meno matura tra quelle conciliari, ma è anche quella che ha posto le basi per tutto l’impianto ecclesiologico successivo, arrivato ai vertici con Lumen Gentium e Gaudium et Spes. Credo che in questi cinquant’anni la Chiesa universale abbia cercato di adattare i propri riti allo spirito della Sacrosantum Concilium e lo si nota immediatamente se si aprono i testi liturgici.
Emblematico il momento in cui ha inizio la liturgia eucaristica: prima essa era segnato dal sacerdote abbigliato, “paratus”, ora, invece, dal momento in cui il popolo è convenuto ed adunato. Già questo denota un cambio di mentalità che si riverbera in ciò che si è stato posto a livello ufficiale.
In questi decenni abbiamo assistito al succedersi di varie fasi: una prima, caratterizzata da un tentativo di eliminare tutto ciò che sapeva di vecchio e di stantio, quindi una di recupero, poi, un’altra ancora negli anni ’80, vissuta con una certa libertà, talora un po’ anarchica. Infine, un poco alla volta, si è tornati a ricercare il gusto del celebrare in forme più ordinate e dignitose.
Come prete giovane di inizio del terzo millennio, mi rendo conto come oggi, a partire dai vertici della Chiesa fino ad arrivare ai sacerdoti e alle comunità locali, sia presente una forte attenzione a che la celebrazione dei Sacramenti e dei riti avvenga nei modi adeguati.
In questi tempi, purtroppo, la maggior parte dei credenti non sempre può spendersi nella carità e nella testimonianza, ma sempre si ritrova nella liturgia. È qui – nell’incontro della Chiesa “reale” – che oggi, forse, conviene spendere un po’ più di energie di risorse.
- Come è cambiato, a tuo parere, il ruolo del ministero sacerdotale e quindi dei laici nella liturgia?
Penso che i ritardi nella attuazione delle indicazioni magisteriali non siano da rintracciare tanto a livello di vertice, quanto, piuttosto, a livello delle comunità locali. Il ritardo vero è probabilmente da ricercare nella solo parziale comprensione e attuazione della ecclesiologia: la visione di Chiesa del Vaticano II è, infatti, molto più aperta e libera rispetto alla visione monolitica in cui il prete occupava stabilmente il centro.
Anche qui notiamo un ampio spettro di posizioni: teniamo presente che, soprattutto prima del Concilio, il prete, nel rito, faceva un po’ tutto: era lettore, cantore, presidente. Quindi la ministerialità era fortemente ridotta; la partecipazione dei fedeli era per vicinanza di sentimenti, non perché questi partecipassero alla stessa azione.
Con i nuovi riti e i nuovi libri liturgici si è recuperata la vitalità della Chiesa medievale o antica, mentre, da questo punto di vista, a volte il prete continua ad assommare in sé molti compiti.
La liturgia attuale prevede la presenza del sacerdote, ma anche di ministerialità presenti in varie forme. Pensiamo solamente alla liturgia della Parola: sono previsti i lettori, il salmista, il diacono, il coro, i ministranti con cero e candele, eventualmente il commentatore. Qui la sfida non è tanto quella del prete che deve cedere spazio, quanto quella dei laici chiamati ad occupare questi spazi a loro dedicati.
In uno dei numeri dell’ordinamento generale del nuovo Messale – che peraltro ha già quasi vent’anni – è previsto che il prete sia aiutato dai laici addirittura nella scelta delle orazioni. La disponibilità dunque c’è, ora occorre il coraggio di prestarsi a tali compiti. È bello e incoraggiante che nella maggioranza delle comunità che posso osservare, sia laici che sacerdoti si stiano sforzando di camminare su questa strada.
- Cosa dici della riforma del Messale romano?
Si tratta della terza edizione e, sostanzialmente, non differisce molto dalle precedenti come struttura e come programma rituale. D’altra parte, è stata fatta una grande opera di traduzione che i laici non hanno potuto apprezzare appieno, perché nella liturgia eucaristica il Messale è usato, sostanzialmente, solo dal presidente.
Non si tratta di avere un rito nuovo, dunque. Già nelle premesse della CEI è dichiarato lo scopo primo del nuovo messale, che è quello di riscoprire il modo di celebrare, il gusto di questa azione. Sarebbe bene, comunque, che anche i laici leggessero il nuovo Messale poiché la posta in gioco è apprendere la cosiddetta “ars celebrandi” , cioè un’arte di celebrare la liturgia utilizzando i linguaggi più appropriati in una sinestesia che riesca a potenziare il livello emozionale della celebrazione in modo che possa far vibrare il cuore dei fedeli.
Tramite questo, vengono inclusi criteri come la “nobile semplicità” che parrebbe un ossimoro, ma che di fatto ci aiuta a comprendere come una liturgia sia richiesta di avere una sua solennità e una sua dignità e, d’altra parte, una sua semplicità, ovvero non sia pomposa, ma porti a vivere immediatamente il senso delle azioni liturgiche compiute in quel momento. Un esempio fra tutti: è necessario evitare un eccesso di verbosità.
Il vecchio adagio “la liturgia fa ciò che dice e non dice quello che fa”, indica che i segni e i simboli non vanno spiegati ma vissuti, e quindi va preservata la verità di quello che si sta svolgendo. Ognuno nell’assemblea sta dentro quell’azione e l’azione liturgica tiene insieme l’assemblea celebrante.
- Qual è il posto del canto nella liturgia?
Il linguaggio sonoro non verbale è certamente uno dei più importanti. Tutti i riti, di tutte le religioni, non possono farne a meno: il linguaggio della musica è uno dei più potenti perché riempie lo spazio liturgico, coinvolge e avvolge tutti i presenti. Altri linguaggi a volte si perdono: pensiamo a quello della luce, a quello gestuale, a quello prossemico; essi sono soggetti maggiormente ad essere elusi dall’attenzione dei fedeli, ma quello canoro è immediato e immersivo, pertanto molto più efficace.
Quando sant’Agostino quando diceva “qui canit bis orat” affermava una cosa reale: mentre si canta non solo si sta dicendo qualcosa della propria fede, ma ci si associa all’azione che sta avvenendo. E non è solo una parte di testa, razionale, ma emotiva perché ti fa vibrare dentro, tutto è implicato: il respiro, il cuore, la mente, gli occhi e l’essere vicino agli altri che cantano.
Da qui la necessità di una cura particolare per la parte musicale e per i testi: non per nulla Lutero ha ottenuto grandi risultati sul piano catechetico-divulgativo con la composizione di canti i cui testi trasmettevano la sua dogmatica. Il rischio per noi è opposto: ovvero l’utilizzo di parole che hanno scarso significato o, addirittura, non hanno nulla di cristiano. I direttori dei cori dovrebbero scegliere i canti non solo sulla base dell’armonia, ma anche in base ai testi e alla coerenza con l’atto liturgico che si sta attuando, perché quel linguaggio deve esprimere ciò che si sta vedendo. Non si canta “nella” Messa, ma si canta “la” Messa.
- Come stanno funzionando i gruppi liturgici?
La storia di questi gruppi è in chiaroscuro: a livello teorico il gruppo liturgico dovrebbe essere presente in ogni comunità. La nostra chiesa locale, nel 2008, ha dedicato l’intera Settimana pastorale a questo tema col titolo “L’opera bella”, dando frutti duraturi, anche come ministerialità, che, da quel momento, hanno preso le mosse.
Il gruppo liturgico dovrebbe essere il luogo dove ci si prepara, si studia, si diventa sempre più competenti a livello liturgico, ma anche un luogo dove si vive la comunione, perché tiene insieme le varie ministerialità liturgiche: i ministri straordinari della Comunione eucarestia, il coro, i lettori, senza dimenticare coloro che hanno creatività per gli addobbi floreali della chiesa, ad esempio. Ognuno di questi svolge un ruolo importante nella concertazione della liturgia nel suo complesso.
È compito del gruppo liturgico, dunque, curare la regia dell’azione liturgica celebrativa: regia remota con la formazione e con la memoria storica; regia prossima nel dislocare persone, luoghi e oggetti per le varie celebrazioni e nel creare le condizioni della relazione con gli altri gruppi della comunità; infine, una regia puntuale, attenta e attuativa nel momento della celebrazione stessa, liberando così il presidente dalle preoccupazioni contingenti. In sostanza, si dovrebbe avere un’azione liturgica che si svolga in modo concertato, con ordine, secondo i canoni della “nobile semplicità” a cui ho fatto riferimento.