La lettera motu proprio Magnum principium ha riaperto un grande spazio ecclesiale di recezione della riforma liturgica. Tale spazio, tuttavia, appare in MP come una “foto in negativo”. Ossia dischiude competenze che devono prendere carne e sangue. E devono farlo localmente.
Ecco che per intendere bene questo passaggio storico, torna assai utile la riflessione più generale proposta da M. Neri proprio ieri, su SettimaNanews, sotto il titolo “Il respiro corto delle Chiese locali” , da cui traggo questa bella immagine.
«Detta in una battuta: la retorica cerca di imitare l’ispirazione ariosa di Francesco; la pratica approda a un immaginario ecclesiale lontanissimo da essa. Ossia, il desiderio sincero è quello di ritradurre in loco la realtà di Chiesa che egli vuole inculcare nei nostri cuori, ma alla fine pressiamo il tutto in un corsetto che non ha nulla a che fare con essa. E, si badi bene, lo facciamo noi che di Francesco siamo convinti estimatori, mica quelli che si oppongono in tutti i modi al suo corso».
Questa osservazione vale, evidentemente, per tutto il complesso delle forme pastorali di una diocesi o di un Chiesa nazionale. Ma si applica anche, in modo sorprendentemente efficace, anche alla recente storia della “recezione della riforma liturgica”. La quale, a partire da Liturgiam authenticam ha ricevuto, dal centro, un messaggio troppo forte e poco chiaro: il corsetto doveva essere così stretto che non si riusciva più neppure a respirare.
Ora, a partire dal 1 ottobre, con MP c’è lo spazio per cambiare stile e prospettiva. Ma come abiteremo ecclesialmente tale spazio?
Qui a me pare che si possa e si debba rilanciare il ruolo che la Congregazione del culto divino può esercitare positivamente in questo delicato passaggio. Essa non custodisce soltanto le “esigenze di universalità” rispetto a conferenze episcopali particolari. Questa è la vecchia comprensione delle congregazioni. Dopo il Concilio Vaticano II siamo obbligati a pensarle non solo come “custodi della tradizione contro gli abusi”, ma anche e forse anzitutto come “interpreti dell’aggiornamento per il rinnovamento degli usi”. La specializzazione delle congregazioni non è l’abuso da combattere, ma l’uso da promuovere. Una congregazione che si chiude nella gelosa custodia di “corrispondenze statiche”, perde la sua funzione e si isola rispetto alla realtà: può sognare una Chiesa cattolica di preti tutti orientati ad est nella preghiera eucaristica, tutti fermi all’altare nel rito della pace, e pronti a celebrare S. Giovanni XXIII patrono delle truppe d’assalto…
Ma la Congregazione ha una grande responsabilità non solo nel far valere le ragioni universali, ma anche nell’orientare sapientemente le ragioni del radicamento locale della tradizione. Per questo il MP non è sufficiente. O, meglio, il MP è tutto ciò che può essere chiesto al papa. Ora la Congregazione deve scrivere una nuova Istruzione, in cui predisporre e articolare tutto questo campo di giusta attenzione alle ragioni della differenza locale, perché la unità sia ricca e non uniforme.
A questo proposito tornano particolarmente utili, anche per capire la logica di MP, i numeri iniziali di Amoris lætitia (2-3) dove il ruolo del magistero viene riletto secondo la grande tradizione “non invasiva” che ha caratterizzato la Chiesa fino al XIX secolo: vi si dice che il magistero papale e curiale non deve risolvere tutte le questioni. Anche in questi termini bisogna comprendere il riconoscimento di autorità attribuito alle conferenze episcopali, senza le quali alla tradizione/traduzione manca qualcosa di decisivo, che il magistero papale o curiale non è in grado di garantire.
Non è un caso che la “frizione” del motore curiale non abbia funzionato, in questi ultimi 20 anni, proprio sul tema del “tradurre”. Tradurre la tradizione è una esigenza inaggirabile, che il Concilio Vaticano II ha indicato chiaramente come destino provvidenziale della Chiesa del XX secolo. Avevano provato ad illuderci di poterne fare a meno, riducendo le lingue popolari a “calchi del latino”. In questo modo avevamo tutti rischiato di pensare che la tradizione non potesse più ricevere nulla di nuovo. Ma le lingue con cui oggi celebriamo non sono solo una inadeguata traduzione del latino, ma espressioni nuove che dicono aspetti del mistero che il latino e il greco non erano in grado di esprimere! Le lingue, tutte le lingue, sono lingue di Babele. Nessuna lingua è la lingua di Pentecoste. La Pentecoste permette di “capire e vivere il mistero in tutte le lingue”.
Questo è lo spazio per una nuova VI Istruzione, in cui la Congregazione del culto divino – uscendo dall’ossessione riduttiva della lotta agli abusi – aiuti a scoprire “usi sorprendenti” della tradizione liturgica cristiana, grazie alla meravigliosa complicatezza delle culture contemporanee, che non sono solo da “ostacolare”, ma anche da “onorare”. Per usare la immagine di Neri: la Congregazione non deve specializzarsi in corsetti, ma può e deve proporre per la tradizione modelli di “rivestimenti” più ampi, più colorati e non solo lunghi fino ai piedi. Salvo il fatto che il vestito concreto sarà sempre confezionato non al centro, ma in periferia; e che anche la periferia dovrà faticosamente liberarsi dai “corsetti mentali”, che facilmente essa tende ad autoimporsi, sebbene dal centro riceva oggi modelli di ben altra fattura.
Pubblicato il 15 settembre 2017 nel blog: Come se non