Nicola Sfredda, pianista, compositore e didatta, è docente titolare presso il Conservatorio di Mantova, dove insegna Pratica del Repertorio Vocale, Accompagnamento Pianistico e Pedagogia Musicale. Tra le sue pubblicazioni, “La musica nelle chiese della Riforma” (Torino, Claudiana, 2010) e “Elementi di Didattica e Pedagogia Musicale” (Milano, Rugginenti, 2019). Qui risponde a domande di Giordano Cavallari sul posto del canto e la musica nelle liturgie delle Chiese e nei reciproci rapporti.
Quali sono i caratteri essenziali e permanenti del culto riformato, valdese in particolare?
I Riformatori hanno inteso il culto secondo tre criteri fondamentali:
- riformare la liturgia riportandola al suo riferimento biblico originario (ad fontes);
- utilizzare la lingua del popolo, anche al fine di un coinvolgimento attivo dell’assemblea all’azione liturgica;
- conciliare la costanza di alcuni elementi costitutivi (oggettivi nel loro riferirsi alla fonte evangelica) e la varietà e ricchezza di elementi variabili (in relazione al contesto storico e culturale). L’unità della fede si manifesta nella diversità delle sue espressioni.
Le varie vicende storiche hanno sviluppato la nascita di varie tradizioni e varie “denominazioni”, ognuna delle quali ha proprie caratteristiche e quindi anche differenti approcci alla concezione liturgica. La Chiesa Luterana, più antica, ha mantenuto una struttura del culto più tradizionale. Nelle chiese cosiddette “riformate”, a seguito dell’opera dei riformatori francesi e svizzeri (tra i quali il più famoso fu Calvino), si è progressivamente prodotta una maggiore varietà di soluzioni, sempre però incentrata su alcuni punti fermi: la lode del Signore, la confessione di peccato e l’annuncio della Grazia, la lettura biblica e la predicazione, le preghiere di intercessione e la benedizione conclusiva.
Una importante differenza, rispetto al cattolicesimo, riguarda la concezione dei sacramenti: ad esempio il rito della Cena non è necessariamente presente in ogni culto, ma ha una scansione periodica; quindi, il culto è un momento di condivisione comunitaria della Parola biblica, anche quando in esso non è presente il rito sacramentale.
Qual è, sin dalle origini del culto riformato, il ruolo della musica e del canto?
Anche in questo ambito le tradizioni sono varie. Certamente in Lutero il ruolo della musica è considerato fondamentale, sia dal punto di vista liturgico, sia come strumento pedagogico di formazione alla fede del credente.
In altri teologi la sensibilità è differente: alcune denominazioni “radicali” arrivano a non ammettere l’uso della musica nel culto, ma sono casi relativamente rari. Diversa è invece la predilezione stilistica: oggi, mentre in alcune chiese è molto forte il senso della tradizione musicale classica (dal Cinquecento al Settecento), in altre è più sentito il repertorio “romantico” ottocentesco; altre ancora prediligono linguaggi più moderni, con interesse prevalente per lo stile “pop”.
Cos’è il Corale?
Il Corale è la forma classica del Lied per la Chiesa, così come è stato concepito da Lutero stesso, che si occupò attivamente del repertorio musicale per la liturgia. Esso ha dei collegamenti con l’antica tradizione del canto ecclesiastico medievale, e al tempo stesso ha stimolato una creatività musicale che ha prodotto una fiorentissima produzione, almeno fino alla seconda metà del Settecento. La melodia principale era originariamente inserita all’interno della polifonia vocale, alla voce di tenore; ma ben presto fu affidata alla voce superiore, che divenne prevalente, con grande evidenza della linea melodica e della chiara percezione delle parole.
Nel periodo barocco il Corale ha dato luogo a composizioni di grande complessità, come ad esempio i mottetti su temi di Corale e i Preludi Corali per organo.
In certo senso, sì, il Corale si può considerare l’espressione più propria della musica cultuale della Riforma, anche se poi l’evoluzione storica e geografica del protestantesimo ha portato ad esperienze anche molto diverse e distanti.
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Dal ‘500-‘600 ad oggi, nelle Chiese della Riforma che cosa è cambiato in fatto di musica e canto?
La musica della Riforma si è sempre adeguata allo sviluppo delle poetiche musicali. Ad esempio, nell’Ottocento la struttura dell’Inno, benché formalmente simile all’antico Corale – ossia una melodia al soprano, di chiara evidenza melodica, inserita in una polifonia a quattro voci di struttura prevalentemente armonica – ha assunto i caratteri e la poetica tipici di quell’epoca: un certo stile della melodia e in particolare dell’armonizzazione sono conformi agli ideali estetici del Romanticismo musicale. In seguito, si è affermata sempre più l’attenzione alle tradizioni musicali locali: uno degli esempi più celebri è la produzione degli spirituals nell’ambito della cultura afroamericana, che ha introdotto inflessioni melodiche, uno stile vocale e una componente ritmica del tutto nuovi e differenti rispetto alle abitudini della tradizione.
Oggi, accanto alla creazione di repertori in qualche modo influenzati dalla tradizione, nei giovani compositori è molto presente l’influenza di vari modelli del “pop”.
Oggi, quindi, che musica e che canto si fanno nelle chiese della Riforma in Italia?
Le chiese valdesi, in Italia, mantengono un legame forte con la tradizione musicale; altre chiese (ad esempio quelle battiste) sono più orientate allo stile moderno. Dal 1922 le Chiese protestanti italiane adottano un innario comune, che è stato poi ripensato con altri criteri nel 1969 e poi ancora nel 2000, anno di pubblicazione dell’Innario Cristiano attuale, che è l’innario ufficiale della FCEI, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, nata nel 1967. Ma, ad esempio, nelle Chiese battiste, accanto all’Innario Cristiano, si utilizza dal 2012 un altro Innario, Celebriamo il Risorto, che tiene conto di questa differente sensibilità che ho rapidamente descritto. Inoltre, si stanno diffondendo pubblicazioni bilingue, a causa dei significativi inserimenti di immigrati, spesso anglofoni.
Anche la Chiesa Luterana in Italia ha adottato, dal 2010, un innario bilingue (in questo caso italiano e tedesco) che è ovviamente molto legato alla tradizione del Corale, ma non esclude aperture a stili più recenti.
L’accoglienza di persone e comunità provenienti da altri continenti, come sta cambiando il culto nelle Chiese riformate in Italia?
Il fenomeno migratorio ha un forte impatto anche sulle Chiese protestanti in Italia: vi sono moltissimi africani, ma anche la componente sudamericana è molto numerosa e non dobbiamo dimenticare la popolazione asiatica (in particolare coreana), nella quale pure c’è una importante componente di confessione evangelica (in particolare metodista).
Certamente tutto ciò comporta nuove sfide e prospettive di cambiamento. In particolare, nelle tradizioni africane e sudamericane, ad esempio, è molto importante la partecipazione del corpo all’azione liturgica: perciò la danza è una componente necessaria, che tuttavia contrasta molto con le abitudini europee. Inoltre, sono usati abitualmente gli strumenti a percussione, integrati all’espressione della musica liturgica. Tutto ciò ha provocato un cambiamento, che da un lato è una positiva sollecitazione a rinnovare le abitudini più tradizionali, dall’altro è avvertito con qualche disagio dai membri di una Chiesa più tradizionalista.
Il risultato è un equilibrio, forse precario, ma molto stimolante per tutti.
Se è possibile fare un confronto: come mai la musica e il canto nelle chiese valdesi, nonostante una normale evoluzione, hanno mantenuto sostanzialmente inalterati alcuni caratteri fondamentali originari, mentre ciò non è avvenuto, in genere, nella Chiesa cattolica, ove sono comparsi tanti generi diversi?
Da quanto sin qui: una evoluzione c’è stata ovunque, soprattutto negli ultimi anni; certamente la Chiesa Valdese, in questo ambito, si dimostra un po’ più legata alla tradizione rispetto alle altre denominazioni protestanti. Ma anche nella Chiesa Valdese prevale l’idea che ogni persona debba sentirsi a suo agio nel momento del culto, che è anche una “scuola” che educa al rispetto reciproco.
Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, posso valutare dalla testimonianza di tantissimi amici cattolici, molti dei quali musicisti: nonostante la giusta comprensione delle motivazioni profonde che hanno spinto la Chiesa alla riforma liturgica operata dal Concilio Vaticano II, molti tra questi amici lamentano una sorta di “deriva” della qualità musicale, sempre più rivolta al pop e sempre più distante dalla grande tradizione musicale plurisecolare; tutto ciò, anche al di là del dettato stesso dei documenti conciliari.
In un certo senso, potrei concluderne che la Chiesa Cattolica si è avvicinata ad una concezione della musica tipica delle Chiese Protestanti, ossia la ricerca di un coinvolgimento dell’assemblea mediante l’utilizzo non solo della lingua comune ma anche di stili musicali più vicini alla competenza media delle persone. Questa scelta comporta due conseguenze che rischiano di confliggere tra loro: da un lato la ricerca del coinvolgimento e della partecipazione, dall’altro un indebolimento della qualità musicale. Ciò riguarda anche l’uso degli strumenti, tra i quali il classico organo liturgico sembra essere sempre più spesso sostituito da chitarre e strumenti a percussione.
La realtà comunque è complessa, certamente non riducibile ad un unico schema. Mi aveva molto colpito, anni fa, la testimonianza di una musicista cattolica, la quale raccontava che nella sua Parrocchia coesistevano ben quattro cori, distinti per fasce di età e per gusti musicali: è evidente che anche qui possiamo vedere il bicchiere mezzo pieno – nella capacità di accogliere e di far esprimere tutte le varie componenti della comunità ecclesiale – oppure mezzo vuoto nella separazione della comunità stessa in ambiti che rischiano di non comunicare tra loro.
Qual è il corretto rapporto, dunque, tra tradizione e innovazione musicale nel culto?
C’è una continua, feconda dialettica. Secondo me, ogni atteggiamento, se radicalizzato, può essere negativo: un eccesso di intolleranza a favore della tradizione ovvero dell’innovazione, rappresentano fattori di chiusura che ostacolano la fraternità.
Poi, ovviamente, ognuno ha le sue preferenze. Le mie personali, ad esempio, sono sicuramente legate alla grande musica della tradizione, ma non mi dispiace affatto battere le mani per seguire il ritmo dei canti africani. E aggiungo: meglio una canzone pop cantata bene, piuttosto che un Corale cantato in modo inappropriato!
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C’è dialogo e scambio, oggi, tra musicisti valdesi e cattolici circa la musica e il canto nella liturgia?
Certamente. Innanzitutto, le influenze storiche sono reciproche fin dalle origini, come ha bene illustrato Chiara Bertoglio nel suo libro sulla musica e le riforme del Cinquecento (qui).
Negli Innari protestanti del Novecento italiano, che ho citato, troviamo anche qualche autore cattolico. E oggi, con lo sviluppo del movimento ecumenico, la condivisione dei canti è una bellissima realtà.
Anche con gli ortodossi?
Sicuramente. Mi piace citare qui la presenza di cori ecumenici presenti in varie città italiane.
A Verona siamo attivi dal 2006: il nostro repertorio è condiviso e nasce dal rispetto reciproco e dal reciproco interesse alle produzioni delle altre Chiese. La regola fondamentale è cantare testi che siano condivisi, dal punto di vista teologico, da tutte le componenti: e vi assicuro che questo repertorio è vastissimo! Comprende tra l’altro grandi opere della tradizione – il testo dell’Ordinarium Missae, ad esempio, è accettato da tutte le Chiese – ma pure una produzione nata specificamente per l’ambito ecumenico: pensiamo ad esempio ai bei canti della Comunità di Taizè, e non solo.
Per quanto riguarda gli ortodossi, a Verona abbiamo relazioni significative con la Chiesa romena (molto numerosa) e con quella russa; abbiamo avuto cantore e cantori di entrambe le comunità, che ci hanno fatto conoscere le loro tradizioni: bellissime!
Quale valore la musica e il canto possono costituire, a fini ecumenici, tra Chiese cristiane?
Nell’ambito ecumenico una delle situazioni che più felicemente permettono il dialogo tra le Chiese è proprio l’animazione musicale.
Esiste ormai un fecondo repertorio specificamente ecumenico, come ho accennato più sopra: sono bellissimi, ad esempio, i canti della Comunità di Taizè, che riescono a conciliare mirabilmente uno stile fine, di impronta classica, con una semplicità che riesce a raggiungere la fruizione di molte persone. Le assemblee ecumeniche internazionali utilizzano un repertorio di varia provenienza, un po’da ogni zona del mondo.
In Italia conosco innanzitutto le assemblee del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche), l’associazione interconfessionale di laici, fondata da Maria Vingiani negli anni Sessanta: anche in questo ambito il canto condiviso nelle liturgie è molto vivo e sentito.
Poi ci sono Cori Ecumenici in alcune città italiane, come detto. Io conosco in particolare l’esperienza di Verona, nata nel 2006, che nel corso degli anni ha radunato varie persone di provenienza confessionale diversa (cattolici, valdesi, luterani, anglicani, ortodossi romeni e russi), ha tenuto concerti e partecipato a liturgie (in particolare nell’ambito della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, e per la Giornata Mondiale di Preghiera); il repertorio è tratto dalle varie tradizioni, rispettando la condivisione di tutto ciò che unisce le diverse Chiese: la fede trinitaria, il Padre Nostro, la confessione del peccato, la lode, i testi di ispirazione biblica.
La musica è un linguaggio che unisce, spesso in modo più immediato rispetto al confronto teologico. Quando si canta insieme, è più facile superare ogni barriera e sentirsi non solo amici, ma autenticamente fratelli e sorelle nella fede. Nel profondo del cuore umano, il bisogno della spiritualità ci avvicina, laddove a volte le discussioni razionali ci possono allontanare: ed è qui, in questo ambito, che la musica compie una delle sue funzioni più alte e profonde!