Anche l’offertorio è stato interessato dalle disposizioni rivolte a contenere la diffusione del Covid-19, soprattutto quella parte che nel Messale è definita «preparazione delle offerte», lì quando il celebrante dice: «Abbiamo ricevuto questo pane, lo presentiamo a te; abbiamo ricevuto questo vino, lo presentiamo a te».
Le parole presuppongono il gesto con cui l’assemblea porta i propri doni all’altare, come il ragazzino che tira fuori i pani e i pesci: sembra ben poco per sfamare tanta gente, ma se Dio benedice l’offerta umana questo basterà.
Nella Chiesa antica, i fedeli consegnavano ai celebranti pani e piccole fiasche di vino: i diaconi sistemavano sull’altare la quantità necessaria per la comunione, il resto veniva depositato per essere distribuito ai poveri. Per ricevere il pane eucaristico era anzi necessario aver contribuito con la propria offerta; la consegna faceva parte del rito (così Cipriano di Cartagine, alla metà del terzo secolo, rimproverava una donna ricca ma avara: «Tu vieni al rito del Signore senza il pane del sacrificio, ma poi ardisci ricevere una parte del pane sacrificato, offerto dal povero»).
Nel VI secolo, l’imperatore Giustiniano volle far raffigurare tale momento nei mosaici della chiesa di San Vitale, dove lui stesso e la moglie Teodora compaiono appunto nell’atto dell’offrire il pane e il vino.
La partecipazione all’offertorio denotava l’essere o meno in comunione con la Chiesa; chi si trovava in condizione di estraneità in quanto penitente o eretico non poteva portare l’offerta all’altare. Più tardi saranno i celebranti a scendere tra i fedeli per raccogliere pane, vino o altro che poteva essere utile per il culto, secondo una modalità che è attestata fino all’XI secolo.
Tale uso fu progressivamente abbandonato, da un lato, perché le chiese stesse si arricchirono (per cui il significato economico dell’offertorio divenne secondario), dall’altro, per motivi pratici: invece del cibo si consegnò il corrispettivo in denaro. E così l’offertorio rimase “detto” più che “agìto”.
La riforma liturgica del XX secolo ha cercato di ridare spazio a tale momento, prevedendo qualcosa di più dei pochi passi con cui i ministranti portano sull’altare calice e patena; almeno in alcune occasioni, infatti, è previsto che i fedeli stessi portino all’altare il pane e il vino insieme ad altri oggetti (non sempre, in verità, adatti all’occasione).
Come sappiamo, le misure di contenimento del Covid-19 hanno però spazzato via tutto: pane e vino si trovano già sull’altare, come se l’assemblea non avesse nulla a che fare con essi. E anche la raccolta del denaro è stata spostata alla fine, come se fosse una qualunque raccolta di fondi invece che «la forma popolare dell’oblazione liturgica», che «mantiene sempre un carattere sacro. È l’offerta fatta in vista del Sacrificio, con la quale il fedele si unisce al grande atto che si compie sull’altare» (Mario Righetti, Manuale di Storia liturgica, 1966).
Speriamo possa presto tornare anche la processione offertoriale, e che magari proprio questa fase di eclissi possa aiutare a riscoprirla. Nell’attesa, sarebbe bello che il celebrante ripristinasse almeno quel piccolo percorso, per cui il cibo non si trova fin dall’inizio sull’altare, ma giunge alla mensa partendo da un tavolino o da una balaustra. E si dovrebbe trovare il modo per riportare l’offerta in denaro – il prezzo del pane e del vino – al suo posto: durante l’offertorio.
Sono simboli, vale a dire cose capaci di unirci: non è di questo che abbiamo oggi bisogno?