Come è noto, il Concilio Vaticano II nella sua costituzione liturgica, tra le 7 indicazioni che dà per la Riforma della celebrazione eucaristica, indica la ripresa della «partecipazione più perfetta» alla eucaristia, mediante la «comunione sotto le due specie» (SC 55). Spesso si legge in modo minore questa affermazione, come se si trattasse di una semplice “raccomandazione pastorale”.
In realtà la “svolta pastorale” che il Vaticano II esige, richiede di intendere questa indicazione alla luce della “intelligenza per ritus et preces” che il n. 48 di SC stabilisce come criterio fondamentale di interpretazione della “partecipazione attiva”.
Questo orizzonte di comprensione – che elabora una nuova nozione di “azione simbolico-rituale” e una nuova prassi partecipativa – introduce non solo pratiche, ma teorie necessariamente nuove nel corpo ecclesiale, il cui impatto iniziamo solo oggi ad apprezzare anche in sede di teologia eucaristica.
Vorrei soffermarmi in questo breve testo sulle conseguenze che questo nuovo modo di pensare introduce nella classica dottrina eucaristica della “transustanziazione”. La presenza di del Signore risorto in mezzo ai suoi viene pensata in modo molto più ampio e complesso, rispetto alla grande ma limitata teoria della «presenza sostanziale sotto le specie del pane e del vino».
a) La dottrina e il rito
Un chiarimento di fondo deve essere offerto anzitutto sulla relazione che si instaura tra una prassi rituale e la sua interpretazione teorica. Dobbiamo riconoscere, infatti, che le numerose “controversie eucaristiche” – che hanno segnato la riflessione ecclesiale – hanno prodotto effetti sulla prassi non lineari. Di fatto, allo scopo di evitare errori dottrinali, hanno non di rado introdotto indifferenze o unilateralità rituali. Possiamo identificarne solo alcuni:
- la concentrazione sulla “presenza sostanziale sotto le specie” ha distratto profondamente dalle altre forme di presenza del Signore, nella Parola, nella preghiera, nell’assemblea (cfr. SC 7);
- la “presenza sostanziale sotto le specie” ha ridotto il peso della “presenza ecclesiale” del corpo di Cristo, che rimane sempre l’effetto primario della celebrazione eucaristica;
- l’attenzione alla “sostanza” ha condotto ad una pratica degli accidenti che oscilla tra indifferenza e ritualismo, rischiando di smarrire la logica simbolica delle sequenze rituali;
- la stessa celebrazione dell’eucaristia ha sofferto per l’invadenza di una lettura intellettualistica della presenza, che ha ridotto la rilevanza di gesti, sequenze e coerenze interne alla azione rituale;
- infine, ma forse in primis, la separazione tra “sacrificio” e “comunione” – frutto del conflitto con la tradizione protestante – non ha giovato a una comprensione unitaria del rito eucaristico e delle continuità tra sacrificio e banchetto;
Possiamo considerare soprattutto quest’ultimo punto, per cercare di illustrarlo meglio con qualche esempio.
b) I riti di comunione e la transustanziazione
Il modo con cui cerchiamo di uscire da questi imbarazzi, da almeno 50 anni, è ancora esitante e balbettante. Questo è un fatto inevitabile: lo stesso linguaggio con cui proponiamo le “nuove aperture” risente di un lessico spesso vecchio e inadeguato. Se infatti esaminiamo i “riti di comunione” delle nostre celebrazioni eucaristiche, possiamo chiaramente individuare almeno tre soglie problematiche:
– La irrilevanza della “frazione del pane”
Il rito dell’eucaristia prevede una sequenza in cui la frazione del pane produce le particole per la comunione dell’assemblea. Ancora oggi è diffusa la prassi di “nutrire l’assemblea” con la particole già consacrate, e di utilizzare comunque anche sull’altare “particole” già frazionate. La “transustanziazione” e la “centralità del tabernacolo” – insieme alla prassi di comunicare l’assemblea dopo la fine della celebrazione – hanno largamente influito su questa distorsione.
– La “forma” della comunione sub utraque
Anche il recupero di una prassi di “comunione sotto le due specie” è avvenuto, per lo più, con una bassa coscienza della “qualità” del rapporto con pane e vino. Le due “materie” non sono semplicemente “specie” di una sostanza che è contenuta comunque integralmente “sotto ciascuna delle due”! Accedere a pane e vino come corpo e sangue di Cristo non significa ricevere “una specie intinta nell’altra”, ma accedere all’unico pane spezzato e all’unico calice condiviso, come mediazione del corpo e sangue del Signore. Questo atto comune, con tutta la sua risonanza intima e familiare, ristruttura figliolanza e fratellanza ecclesiale, con una potenza immediata irriducibile ad altri gesti. L’interferenza della “transustanziazione” su questo recupero è assai pesante, e non per colpa della nozione in sé, ma per colpa di una recezione intellettualistica e ritualistica della tradizione, che ha trovato in questa formalizzazione teorica un formidabile alleato.
– La processione di comunione
La forma più spirituale di comunione dovrebbe essere una gioiosa processione all’altare di tutta l’assemblea. Movimento, canto, ritmo sono le condizioni di questa esperienza spirituale: una comprensione della eucaristia che si concentra soltanto sulla “sostanza” rischia di considerare tutto questo o come indifferente o addirittura come distrazione dall’essenziale. Essenziale appare solo “reduplicare” il ringraziamento individuale, quasi nell’indifferenza verso la azione comunitaria.
c) Paradossi dottrinali e rituali
La transustanziazione opera dunque un’inevitabile riduzione della mediazione rituale della presenza del Signore, concentrando il cuore del rito soltanto sulla “formula di consacrazione sulla materia”. I campanelli che ancora oggi suonano su quella soglia sono la testimonianza dell’effetto di distorsione che la grande teoria ha operato sulla tradizione. Comprendere che il rito eucaristico sperimenta “presenza” nella intera sequenza rituale – nel raduno, nei riti di ingresso, nella liturgia della Parola, nella professione di fede, nella pregare per tutti, nel presentare i doni, nella solenne anafora eucaristica, nei riti di comunione e nei riti di congedo – esige un approccio più ricco e articolato rispetto alla relazione formale tra sostanza e accidenti. Il centro dell’eucaristia non è una “consacrazione del pane e del vino”, ma l’ ascolto della Parola e la preghiera anaforica che approdano al rito di comunione. Questa comprensione ampia dell’eucaristia ha bisogno di una “teoria della presenza” più ampia. Anzi, potremmo dire che la “transustanziazione” può “vedere” solo la consacrazione ed è, in un certo senso, il prodotto teorico di questo angolo visuale. Mentre una prospettiva più ampia di esperienza della presenza del Signore deve saper produrre una teoria più articolata, più ricca e più dinamica.
d) L’uso di “particole tonde”: la deriva individualistica della transustanziazione
Un esempio finale può aiutare a comprendere che cosa è in gioco in queste riflessioni. Abbiamo tutti esperienza della prassi ecclesiale cattolica, che celebra i riti di comunione utilizzando “particole” già spezzate, anzi confezionate in anticipo rispetto alla frazione del pane, e spesso già consacrate e semplicemente distribuite dal tabernacolo, al momento del rito di comunione.
Senza entrare in tutte le questioni che questa prassi propone, vorrei sollevare una riserva sulla “forma tonda” della particola. Ritengo infatti che, mentre il pane eucaristico è del tutto naturale che sia tondo – e in effetti tale è sempre l’hostia magna – non si comprende perché mai si ritenga che debba essere tonda anche la particola. Forse per imitazione “in miniatura” del pane intero. Ma bisogna riconoscere che la forma tonda della particola rischia di cancellare un’esperienza elementare del rapporto tra il Signore e la sua Chiesa. Egli la incontra come quella “pienezza” che è data a ciascuno per mediazione della comunità. Ognuno riceve il corpo di Cristo non semplicemente in modo “diretto”, ma “attraverso la Chiesa”. Per questo l’unico pane, spezzato, è offerto “come frammento” ad ogni singolo, che può riconoscere il corpo di Cristo nel Signore e nella Chiesa.
Questa verità viene oggi mediata dalle menti, ma non dai corpi. La particola deve essere un frammento, non un intero in miniatura. Il frammento può avere qualsiasi forma, ma non quella tonda, che è forma dell’intero. Invece i corpi, sulla base di un utilizzo unilaterale anche della nozione di transustanziazione, ritengono di avere contatto “intero” con il Signore, e di dovere anche “rendere grazie” da soli, senza tenere conto che tutta l’eucaristia è, appunto, rendimento di grazie comunitario. Per rimediare a questa distorsione, tuttavia, non è sufficiente “confezionare particole non più tonde”! Occorre invece produrre una “teoria della presenza” che non si immunizzi dalla azione, dai linguaggi simbolici e dai processi rituali. Per arrivare a produrre i frammenti/particole mediante la frazione del pane – ossia per recuperare il senso primario di una elementare sequenza rituale, che non sappiamo neppure vedere – non abbiamo bisogno solo di rubriche più adeguate, ma di teorie teologiche più fedeli alla ricchezza della tradizione, con la moltitudine dei suoi linguaggi corporei e con la finezza delle sue sequenze rituali.
Pubblicato il 2 novembre 2017 nel blog: Come se non.