Non è detto che credere in Dio sia una condizione indispensabile per fare una buona omelia. Come pure, non sempre avere fede è sufficiente a fare una predica come si deve…, come forse molti di noi hanno sperimentato non senza sconcerto o disappunto. Sappiamo bene che, specie di questi tempi, la qualità della predicazione è ciò che in molti casi fa la differenza, in bene o in male: per molti fedeli essa è addirittura un fattore chiave nel rendere attrattive le celebrazioni liturgiche e motivare a frequentare la parrocchia.
Lo conferma, tra l’altro, anche il Documento finale dell’ultimo Sinodo sui giovani: la «scarsa cura nella preparazione dell’omelia e nella presentazione della parola di Dio» è una delle ragioni che spiegano come mai «un numero consistente di giovani non chiede nulla alla Chiesa», ritenendola «non significativa per la loro esistenza» (n. 53).
Predicazione intelligentemente artificiale?
Forse sono stati pensieri e riflessioni di questo genere ad aver indotto un sacerdote ungherese a chiedere aiuto a ChatGPT, una nuova potente App che compone testi in base ad alcune semplici indicazioni dell’utente. Come riportato dalle agenzie di stampa, qualche settimana fa un prete di un piccolo paese sul Danubio ha affidato la stesura dell’omelia all’intelligenza artificiale.
Intervistato al riguardo, il sacerdote ha candidamente riferito di avere detto al pc: «Sono un prete, vorrei parlare di questioni di fede, mi aiuti per favore a fare la mia predica di domenica?». Detto fatto. È bastato premere enter e l’omelia è venuta fuori senza problemi. Il parroco l’ha quindi proposta ai fedeli molti dei quali, sembra, non si sono accorti della provenienza. Il testo, intitolato Messaggio del nostro Fratello Macchina, è stato successivamente pubblicato sul sito della parrocchia.
È probabile che la notizia sia attendibile, anche se non si può escludere che sia stata confezionata ad arte (magari dalla stessa App) con l’obiettivo di evidenziare non tanto le carenze omiletiche del clero ma, soprattutto, mettere in risalto le potenzialità del programma ChatGPT: un’azione promozionale, insomma, sfruttando la curiosità dell’accaduto.
Ciò che ci arriva sembra comunque chiaro, rassicurante e sconcertante a un tempo: chiunque può essere intermediario del messaggio di Dio, anche un idolo moderno come sono le App. Niente di originale – si potrebbe anche aggiungere –, dal momento che i prontuari e i «bigini» con prediche già fatte o impostate sono sempre esistiti e l’App ne è solo la versione più recente e potente.
Non a caso alcuni fedeli, sentita la predicazione «artificiale», hanno espresso dubbi e perplessità: «Questa predica non differiva tanto da molti altri testi, pronunciati nella routine di molti preti, dove parole e idee suonano vuote», hanno dichiarato.
Ciò che oggi significano termini come «grazia», «redenzione», «peccato», «salvezza» non è più di per sé evidente: parole del genere hanno perso la loro comprensibilità. La sfida di parlare di Dio oggi passa necessariamente attraverso il confronto con le esperienze e le interpretazioni della gente: si tratta di attivare una predicazione generativa o, meglio, una predicazione che genera.
La predicazione comunica vita e salvezza
Se è vero che la fede non è sufficiente a far ben predicare e la retorica comunicativa non basta a convertire le persone, va affermato con altrettanta forza che la predicazione efficace va oltre questi due aspetti. Nessuna App, nessun modello di Intelligenza Artificiale (I.A.) potrà mai generare una predicazione efficace, dal momento che essa non ha vita al suo interno, né la può generare.
In questo, a ben vedere, anche le App dell’I.A. non sembrano avere niente di diverso da quanto ben espresso dal Salmo a proposito degli idoli:
«Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
hanno orecchi e non odono,
hanno naso e non odorano,
hanno mani e non toccano,
hanno piedi e non camminano,
la loro gola non emette alcun suono.
Come loro sono quelli che li fanno,
tutti quelli che in essi confidano» (Salmo 115).
La predicazione, per contro, è efficace quando al suo interno scorre la vita, quella di Dio ma soprattutto la vita degli uomini, e l’incontro/dialogo salvifico che, in questo modo, si produce nella libertà. «Si tratta di risvegliare attraverso la predicazione la vita, non solo la vita cristiana o addirittura spirituale, ma la vita in tutte le sue dimensioni, fisica, psichica, intellettuale e affettiva. È innanzitutto e soprattutto accogliere la vita nei suoi aspetti più elementari, in ciò che è necessario ogni giorno per esistere, soprattutto in modo degno dell’uomo» (P. Bacq).
Quello che davvero rende la predicazione un annuncio di salvezza è la sua capacità di intercettare la vita delle persone presenti e reali, per farla entrare in risonanza con la Parola di vita capace di trasformarla.
La predicazione efficace è comunicazione di una storia di salvezza in cui sono coinvolti più protagonisti: Gesù Cristo e la storia della fede che ha suscitato nei suoi primi discepoli, la vita e la testimonianza del predicatore e, non ultima, la vita e le esperienze di chi ascolta, dei destinatari.
Nella predicazione non si tratta di mettere in risalto la gloria e potenza di Dio – aspetti di cui Dio non ha bisogno – ma mettere in relazione Dio con la vita delle sue creature, per far sentire loro di essere accolte, amate e salvate: è ciò che davvero importa. A Dio non importa «mettersi in mostra», «autocelebrarsi», ma farsi prossimo all’uomo.
La predicazione vitale (che dà vita e speranza) è, dunque, una forma speciale di ospitalità: il predicatore si mette per primo in gioco, non “spiega” ma racconta, invita e accoglie nel suo mondo coloro a cui la predicazione è rivolta e si fa accogliere da quello degli interlocutori. In questo modo, i destinatari sono messi in grado di far diventare questo racconto-predicazione messaggio significativo per loro stessi, nella loro vita.
La predicazione efficace è in questo senso un processo di «incarnazione», nel quale la cosa più importante non è la Parola di Dio ma la vita delle persone illuminata dalla Parola di Dio.
Come afferma il teologo C. Theobald, «non esiste alcun annuncio del Vangelo di Dio senza coinvolgimento dei destinatari. Ciò di cui si tratta nell’annuncio è già all’opera nei destinatari per cui lui o lei può accettarlo in libertà».
Competenza narrativa
Il primo compito della predicazione non è un compito di «addestramento motivazionale» (ce la farai) e neppure di tipo educativo (il tuo impegno verrà ricompensato), ma quello di incoraggiare a vedere i rischi della vita come tale e, in essi, a non perdere la fiducia.
Non si tratta di parlare del coraggio ma di fare coraggio, non si tratta di parlare di speranza ma di risvegliare la speranza, non si tratta di filosofare sulla consolazione ma di consolare. Questa è la dimensione più pregnante della predicazione e il compito del predicatore: dare la medicina, non tenere lezioni sulla medicina.
Per questo, più che il ricorso ad App prodigiose, risulta più efficace adottare un modello che metta al centro della predicazione la competenza narrativa, per creare le condizioni di una predicazione vitale e generativa: la Buona Novella di un Dio che ama e salva l’uomo chiede una buona narrazione, in grado di mettere la relazione Dio-uomo al centro. La narrazione, infatti, penetra nella vita dell’interlocutore in modo integrale (ragione, emozione, esperienza), alimenta l’accoglienza, apre al cambiamento, condivide un percorso di conversione.
Il modello narrativo va oltre l’integrazione tra fede e vita: mostra piuttosto che la fede è vita e che ogni vita ha domande di fede, riprendendo lo stile comunicativo presente nel Vangelo fatto di racconti, parabole, esempi, immagini, rilanci spiazzanti.
L’obiettivo ultimo è costruire una relazione positiva con gli ascoltatori, empaticamente autorevole, in grado di favorire coinvolgimento e apertura. Per questo, occorre adottare uno stile che sappia da subito coinvolgere, suscitare interrogativi, sollecitare un discernimento e orientare la presa di buone decisioni in funzione di ciò che realmente interpella i presenti.
Nella gioia e nella letizia
Non si tratta di rendere la predicazione semplicemente meno noiosa e più accattivante, seducente, persuasiva, magari ricorrendo all’uso di effetti speciali più o meno tecnologici. Si tratta, piuttosto, di farsi prossimo all’interlocutore, fargli spazio, sintonizzarsi sulla sua vita, sui suoi bisogni, desideri, accoglierlo e ospitarlo … perché, a sua volta, rilegga e rinarri la sua vita alla luce della Parola, si decida e «faccia anche lui lo stesso».
Nessun timore: la posta in gioco vale l’impegno, compresi qualche difficoltà e benefico errore. Mettiamoci serenamente alla prova: i primi a venirvi incontro e ad aiutarvi in questo sforzo e sfida di rinnovamento pastorale e ministeriale saranno proprio i destinatari, e i giovani in particolare, che riconosceranno in questo il loro linguaggio, accompagnandovi a parlarlo sempre meglio. Ma soprattutto – come ci ricorda sant’Agostino – potremo vivere la predicazione nella dimensione della gioia e della letizia.
Roberto Mauri, psicologo e psicoterapeuta, appartiene alla equipe del Centro Studi Missione Emmaus (https://www.missioneemmaus.com/; email: roberto@missioneemmaus.com).
Sentire un’omelia che a un certo punto ti fa addormentare non è il massimo del gradimento!
Eppure capita in momenti importanti e con celebranti importanti.
Ricordo mia mamma che tornata a casa dalla messa dava del “poveretto” al predicatore spiegando che avrebbe avuto bisogno di sostegno e di aiuto nel suo discorso.
Forse una volta su mille trovo un prete che fa una predica che ti mostra Gesù Cristo. Non c’è in gioco la vita? Come fai a presentarti davanti a un’assemblea senza mostrare la nudità del tuo essere riflessa nello specchio del vangelo? Come fai a surrogate il tutto in un discorsetto di omelia tediosa?È quel che capita “normalmente” con predicatori e anche di calibro. Peccato! Gesù Cristo predicando avanzava verso la croce e la risurrezione. Molti nostri preti non si accorgono neanche che con le loro prefiche si seppelliscono in vuoto conformismo o moralismo di facciata a salvaguardia di “mestiere”, convenienza e benestare. E la Vita? La Via? Chi la indica? I predicatori, nella predica, dovrebbero dare testimonianza sul loro percorso sulla strada della vita, fare il punto sul percorso della comunità tutta e ricavarne indicazioni per procedere. Allora sì! Musica e vita nuova si assaporerebbero nelle comunità.
Apprezzo moltissimo il contenuto dell’articolo sulla predicazione. Ascolto le confessioni in una delle più grandi chiese della città dove abito. Per esperienza personale so quanto sia importante che il prete dedichi quotidianamente del tempo alla meditazione sulle Scritture. Non tanto e non solo, per preparare la predica, quanto per se stessi. Di fatti non tralascio mai di chiedere ai preti se meditano. La stragrande maggioranze mi risponde negativamente (sic!): hanno una giornata piena di cose da fare … Cosa ci si aspetta da persone come queste? Di conseguenza non è poi raro imbattersi in “funzionari di Dio”, dediti alla causa della istituzione-chiesa, o nel clericalismo, servendo se stessi solamente. E questo nonostante che papa Francesco sin dal suo primo scritto Evangelii gaudium ha trattato in diversi paragrafi (n. 135 ss.) l’importanza dell’omelia e della sua preparazione. E solo ultimamente, come dice l’Autore, ha trattato lo stesso argomento nel Documento finale dell’ultimo Sinodo sui giovani (n.53). Che Dio venga in nostro soccorso!!!!