Don Asdrubale a volte si sente in balìa del coretto dei giovani. Hanno appena imparato un “Santo” che a loro piace tanto, ma le cui parole non sono quelle della liturgia: parlano di uccellini che cantano, di festa e di gioia e poi il ritornello sfocia in un meraviglioso “Osanna”. Lui è un po’ perplesso, ma poi pensa che basta l’idea del “Santo”.
D’altra parte, anche lui ogni tanto cambia le parole del Canone, quando gli sembrano un po’ troppo difficili, così non se la sente di far rientrare nelle righe i suoi giovani, perché poi loro potrebbero non sentirsi più né coinvolti né partecipi dell’atto liturgico.
Partecipare vuol dire prendere parte a qualcosa, essere coinvolti; ma, nella liturgia, non siamo coinvolti perché facciamo materialmente qualcosa (uno legge all’ambone, uno canta il salmo, uno raccoglie le offerte e così via) così che solo chi presta un servizio pare sia davvero implicato, come se fosse la comparsa in un’azione teatrale.
Al contrario, partecipare vuol dire entrare nella dinamica offertoriale di Cristo che offre la sua vita, secondo la logica pasquale. I fedeli partecipano realmente solo entrando in questa dinamica offertoriale, unendosi a Gesù, obbedendo al Padre: morendo a sé stessi, entrano con la loro vita nella Pasqua e la presentano a Dio.
Nella liturgia noi ci inseriamo nella dinamica di un amore che deve essere corrisposto: l’immagine nuziale pervade tutta la liturgia nella quale la Chiesa-Sposa abbraccia, incontra e ama Gesù Cristo-Sposo.
La liturgia eucaristica si inaugura con la pacatezza della presentazione dei doni: accanto ai segni del pane e del vino, che evocano quell’ultima sera in cui egli offrì la sua vita, si presentano i doni per i poveri, che richiamano quella carità fattiva e concreta con la quale partecipiamo all’offerta di Cristo. Tutto questo avviene quasi senza dir nulla. E il rito si chiude con l’orazione sulle offerte che dichiara questa nostra unione al mistero pasquale che stiamo celebrando. Questa orazione, poiché è una preghiera, richiede che anche tutta l’assemblea sia in piedi per pregare.
Segue poi il Prefazio con cui ha inizio la Preghiera eucaristica: «A questo punto ha inizio il momento centrale e culminante dell’intera celebrazione, la Preghiera eucaristica, ossia la preghiera di azione di grazie e di santificazione. Il sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell’azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa Preghiera è che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio. La Preghiera eucaristica esige che tutti l’ascoltino con riverenza e silenzio» (PNMR 78).
Il Messale afferma che questo è il momento culminate della celebrazione: tutto è avvolto dal silenzio in cui risuonano solo le parole del sacerdote, nessun altro suono, melodia o parola deve riecheggiare nell’aula liturgica, anche se don Asdrubale vorrebbe ogni tanto un sottofondo sonoro alle sue parole.
Nell’acclamazione del Sanctus tutta l’assemblea, unendosi alle creature celesti, è condotta dentro l’esultanza del Paradiso che inneggia a Dio: ricordiamo che anche il Sanctus fa parte del canone per cui le sue parole non possono essere cambiate a piacimento!
Il Canone si chiama così perché è fissato dalla Tradizione della Chiesa: è intoccabile.
La Sacrosanctum concilium, la costituzione dogmatica sulla sacra liturgia, ha delle parole fortissime in merito: «Regolare la sacra liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, la quale risiede nella Sede apostolica e, a norma del diritto, nel vescovo… Di conseguenza, assolutamente nessun altro, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica» (SC 22).
“Nessuno osi…” mette in riga don Asdrubale e anche il suo coretto. È un richiamo forte all’obbedienza alla liturgia che non è cosa nostra; è della Chiesa. E tutti noi siamo i suoi servitori, perché è la cosa più preziosa che abbiamo: in essa la potenza di Cristo morto e risorto ci raggiunge.
La Chiesa usa parole forti per barricare la celebrazione e proteggerla da tutto ciò che può creare delle derive, sia teologiche che pastorali.
Io devo poter riconoscere la messa in ogni luogo, anche se non conosco la lingua del posto. Sarà la stessa messa in Germania come in Australia, in Africa come in America.
Per l’istituzione dell’eucaristia non basta la sola ultima cena. Le parole che Gesù pronuncia sono un’anticipazione della sua morte, trasformazione di ciò che non ha senso nel senso che si apre a noi.
«Queste parole non sono vuote perché mantengono nel fluire dei tempi la forza che nasce dalla sua morte reale. Ma questa morte resterebbe vuota, se le sue parole rimanessero solo una pretesa irrisolta. Quelle parole resterebbero vuote, se non arrivasse la risurrezione in cui si rende visibile che queste parole sono pronunciate a partire dall’autorità di Dio e che il suo amore è di fatto così forte da poter andare oltre la morte. Nell’eucaristia queste tre cose stanno insieme: la parola, la morte, la risurrezione» (J. Ratzinger, Il Dio vicino).