La decostruzione del modello classico di sapere e di pratica eucaristica passa necessariamente attraverso un “mutamento delle pratiche”. Nel nuovo post Ghislain Lafont, partendo dalle novità introdotte da Pio X agli inizi del XX secolo, pone al centro dell’attenzione il sorgere del concetto di “partecipazione attiva”, con i suoi meriti e con i suoi limiti. Una lettura clericale della partecipazione ha condizionato gli inizi del movimento liturgico e ancora condiziona, oggi, i suoi possibili sviluppi. Diviene così concetto-chiave per interpretare non solo la Riforma liturgica, ma anche il mutamento della coscienza che la Chiesa ha di sé. (Gli altri interventi: Perché una “nuova” teologia eucaristica?; Un’eucaristia in paradiso?; Sacrificio simbolico; Verso il sacrificio eucaristico; Eucaristia, essenzialmente una lode; Costruzione della teologia eucaristica classica).
L’eucaristia è una pratica, non un discorso: «Prendete e mangiate…fate questo…». Il cristiano che “va” a messa è detto “praticante”. Se dunque la pratica si modifica, se è abbandonata, o, se, al contrario, è intensificata, la riflessione su di essa subisce un’evoluzione. Per questo penso che il decreto Sacra Tridentina Synodus, pubblicato il 20 dicembre del 1905 dalla Congregazione del Concilio su richiesta di papa Pio X, si colloca al punto di partenza di tutte le evoluzioni ulteriori per ciò che concerne la celebrazione dell’eucaristia e la riflessione su di essa. Come si sa, questo testo era un’esortazione pressante alla pratica quotidiana della comunione sacramentale. Non era il primo dedicato a questo tema e, come accade spesso ai documenti della Chiesa, esso evocava gli antecedenti formulati al Concilio di Trento e successivamente. La differenza tra questo testo e i testi precedenti è che, contrariamente agli altri, esso ha avuto una efficacia: poco a poco si è rimessa in moto la comunione durante la messa, in settimana e anche la domenica. Ci si può domandare perché.
Il motivo sostenuto dal papa per invitare alla comunione era il rapporto stretto esistente tra la santità e il sacramento. Negativamente: il testo sottolinea che non bisogna essere santi prima di fare la comunione. Positivamente: la ricezione frequente del sacramento rinforza il cristiano: vi si riceve la forza di reprimere le passioni, si è purificati dai peccati veniali e aiutati a evitare i peccati mortali. Altre formule si trovano nel testo: «soddisfare la volontà di Dio, unirsi a lui più intimamente nella carità, combattere i propri difetti e debolezze», o ancora «aumentare l’unione con Gesù Cristo, alimentare con più forza la vita spirituale, ornare l’anima di virtù più abbondanti, offrire un pegno più sicuro di vita eterna». La prospettiva è dunque piuttosto morale e individuale, ma nessun approfondimento dottrinale o liturgico sarebbe stato possibile nei decenni successivi, se non vi fosse stato innanzitutto un ritorno alla pratica di comunione eucaristica. D’altra parte, all’epoca essa era circondata da diverse prescrizioni che evitavano il pericolo di un rapporto meccanico: così il digiuno eucaristico che bisognava rispettare (da cui discendeva il ricorso alle messe del mattino), la comunione in ginocchio alla balaustra, l’azione di grazie dopo la messa, il ricorso regolare al sacramento della penitenza creavano un clima di raccoglimento teologale e di vigilanza personale, senza il quale la riflessione teologica ulteriore sicuramente non avrebbe avuto luogo.
D’altra parte, questo decreto sulla comunione frequente faceva seguito ad altri provenienti dallo stesso papa. Poco dopo la sua elezione, san Pio X aveva pubblicato un motu proprio, Tra le sollecitudini, sulla musica sacra, dove incoraggiava a sviluppare le celebrazioni del culto, e quindi in primo luogo l’eucaristia, in un contesto musicale sobrio e autentico. Un passaggio di questo MP suggeriva la finalità ultima della riforma proposta: «Il nostro più vivo desiderio essendo in effetti che il vero spirito cristiano rifiorisca in ogni modo e si conservi presso i fedeli, è necessario provvedere anzitutto alla santità e alla dignità del tempio in cui i fedeli si riuniscono precisamente per attingere a questo spirito nella sua sorgente prima e indispensabile: la partecipazione attiva ai misteri sacrosanti e alla preghiera pubblica della Chiesa». Il testo faceva allora l’elogio del canto gregoriano, nella sua restaurazione allora promossa dai monaci di Solesmes e invitava alla pratica: «Che si abbia una cura del tutto particolare nel ristabilire l’uso del canto gregoriano tra il popolo, affinché i fedeli di nuovo oggi, come un tempo, possano prendere parte più attiva alla celebrazione degli uffici liturgici».
Ora la restaurazione del canto gregoriano da parte dei monaci di Solesmes si inscriveva nella linea delle “Istituzioni liturgiche” di don P. Guéranger, fondatore e abate di quel monastero: in questo senso, lo sforzo di Pio X era come un riconoscimento del principio e un invito all’attuazione della liturgia, sul piano musicale, certo, ma anche al di là della musica: per l’insieme dell’istituzione liturgica della Chiesa. Ma forse ciò non sarebbe stato sufficiente se, in Belgio e in un contesto più pastorale, dom Lambert Beauduin non avesse ripreso e valorizzato questa rinascita della liturgia a livello del popolo cristiano nella sua totalità, mediante un’attività intensa e diversificata, di cui il piccolo libro del 1914, La piété de l’Eglise. Principi e fatti, è contemporaneamente un resoconto e un manifesto.
In definitiva, io credo che, se il decreto del 1905 ha portato i suoi frutti, cioè se l’eucaristia è stata ripristinata nella Chiesa al suo posto di principio primo della vita cristiana, ciò è potuto accadere perché il decreto è caduto in un contesto favorevole, ossia quello del movimento liturgico nascente. In altri termini, i decreti di papa Pio X, uniti agli sforzi di riflessione teorica e di attuazione pratica di pensatori e pastori, hanno iniziato un nuovo periodo nella storia spirituale della Chiesa latina, facendo seguito ad un’altro precedente e di durata millenaria: si è aperto in effetti un tempo di pratica eucaristica radicata sul piano liturgico, che poco a poco avrebbe condotto ad una valorizzazione diversa dell’insieme del mistero cristiano. Dai decreti di Pio X al Concilio Vaticano II, poi da questo a nostri giorni, una via era stata tracciata; tale via è stata percorsa, ma è ancora aperta.
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Ciononostante, in questi sforzi di inizio secolo XX, vi era un limite, forse un ostacolo al prosieguo di approfondimento teorico e di traduzione pratica: ho sottolineato nei testi di Pio X l’espressione, messa in evidenza con entusiasmo da don Beauduin, “partecipazione attiva”. Ma di che cosa si trattava? All’inizio del decreto Tra le sollecitudini si legge: «ricevere la grazia dei sacramenti, assistere al santo Sacrificio dell’altare, adorare il santissimo sacramento del Corpo del Signore, unirsi alla preghiera comune della Chiesa». Ricevere, assistere, adorare, unirsi, non sono verbi della pratica, non dicono niente di ciò che si dovrebbe fare. Le azioni sono riferite ad altri, ci si unisce ad esse (così anche è detto per la preghiera comune), ma non sono competenze dirette del cristiano. Allora si è veramente attivi? Forse la pratica del cristiano si limita – cosa già immensa di per sé – a ricevere la comunione?
Un elemento di risposta viene dalla lettura del primo capitolo della Piété liturgique. Cito le prime righe: «Il potere sacerdotale del gran sacerdote della Nuova Alleanza è la fonte sovrabbondante di tutta la vita soprannaturale. Ora questo potere santificante, Gesù Cristo lo esercita quaggiù soltanto attraverso il ministero di una gerarchia sacerdotale visibile»(il corsivo è dell’autore). E poco più avanti ci viene detto: «Fare di noi delle vittime viventi e sante, offerte ogni giorno alla gloria del Padre in unione con l’unico sacrificio di Cristo, questa è la missione santificante della gerarchia cattolica». Ora san Paolo, al capitolo 12 della Lettera ai Romani, che qui è evidentemente la fonte di don Beauduin, scrive a tutti i suoi destinatari (non solo ai responsabili della comunità romana): «Vi esorto, fratelli, in nome della misericordia di Dio a offrire voi stessi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio». Da una parte, la gerarchia fa per noi, dall’altro l’apostolo esorta a offrire se stessi. Chi dunque fa che cosa? Il capitolo continua: la gerarchia organizza le funzioni sacre, in primo luogo il sacrificio eucaristico e tutto ciò che lo circonda, letture e cerimonie della messa, ma anche gli altri sacramenti e sacramentali; i preti celebrano solennemente l’ufficio divino. La gerarchia organizza lungo l’anno il ciclo delle feste. Ma essa suddivide anche i fedeli in parrocchie, guida le loro riunioni, accompagna le loro feste familiari e di ogni tipo: «Sotto le mani benedicenti dei ministri di Cristo… le membra di Cristo risorto sono poste dal sacerdozio creatore della Chiesa in un rinnovamento anticipato». Di qui la conclusione: «Non si inculcherà mai abbastanza nelle anime di coloro che cercano Dio l’esigenza di associarsi il più intimamente possibile e con la maggiore frequenza disponibile a tutte le manifestazioni di questa vita sacerdotale gerarchica che abbiamo appena decritto e che ci mette direttamente sotto l’influenza del sacerdozio di Gesù Cristo». Ho sottolineato le parole associarsi intimamente, non per criticarle, ma per porre una questione: dove si trova, in questa intimità, la partecipazione attiva? La comunione sacramentale è sufficiente a fare del cristiano un soggetto liturgico in senso pieno?
La mia ipotesi è che, all’inizio del XX secolo, si è ancora nell’ambito definito dalla deriva della vita cristiana in direzione clericale che ho descritta nel capitolo precedente, e che aveva ricevuto il suo carattere sacrale dagli scritti gerarchici dello PseudoDionigi, familiari alla teologia classica a partire dall’alto Medioevo. La rinascita liturgica ai suoi inizi non poteva in un solo colpo prendere le distanze da questo contesto; le saranno necessarie le esperienze e gli esperimenti non solo liturgici, ma anche pastorali, che si attueranno tre le due guerre 1914-18 e 1939-45. Ma ciò che è importante trarre non solo da Pio X, ma anche da Dom Beauduin, non sono gli elementi classici in parte obsoleti, ma l’impulso dato in una nuova direzione, iniziata da essi e ancor oggi in divenire, che va nel senso di una partecipazione veramente e non solo intimamente attiva del popolo di Dio: certo all’eucaristia, ma anche a tutta la vita della Chiesa.
Pubblicato il 20 aprile 2018 nel blog: Come se non.