Si fece buio su tutta la terra

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Il Venerdì santo mi ha sempre suscitato senso di abbandono. Di fronte alla morte ognuno è solo perché l’evento colpisce individualmente, subendolo.

La storia del cristianesimo riflette e prega sulla morte del Signore. Se prima della sua morte ci sono stati episodi di ingiustizia e di persecuzione, il punto più alto della tragedia è in quel «si fece buio in tutta la terra».

La sintesi è dettata dalla preghiera di Gesù nel Getsemani che i tre Vangeli sinottici riportano con parole simili: Mt 26, 30-46; Mc 14, 26-42; Lc 22,39-46.1

La descrizione più realistica della tristezza di Gesù di fronte alla morte è narrata dal Vangelo di Marco.2

I verbi usati dal testo indicano sgomento, angoscia, tristezza. Il commento più lapidario del brano riassume in tre passaggi il dramma della morte che si avvicina: Gesù soffre, invoca, chiede compagnia.3

È il quadro di ogni dolore. La sofferenza può diventare insopportabile, per la tristezza che produce, per l’angoscia che ne deriva, fino ad averne paura. L’evangelista Luca aggiungerà. «E il suo sudore divenne come grumi di sangue, che scendevano sulla terra» (Lc 22, 44).

Quel «come» vuole indicare la drammaticità dell’evento che richiama sangue. Per chi, con amorevolezza e presenza, aiuta chi sta per morire, conosce molto bene i sentimenti espressi dai Sinottici.

Vengono in mente le solitudini e le angosce di quanti, giustamente e ingiustamente, intravvedono la morte e ne hanno paura. Solo il silenzio partecipativo può accompagnare tanta dolore: partecipare al lutto esige discrezione, come in silenzio la morte avanza.

Gesù, nella coscienza della passione invoca il «babbo», «il mio babbo», con espressione accorata. È l’invocazione che strazia chi sta accanto a chi soffre. A volte si invoca il medico, a volte i propri cari, a volte la morte, a volte Dio stesso. L’invocazione ha sempre l’unico obiettivo di allontanare il male.

Si pone la grande questione che da sempre attraversa la “donazione” della vita a gloria di Dio. È possibile che qualcuno abbia la grazia di accettare il dolore e la morte per scopi sublimi. Sono persone dalla fede profonda e limpida, aiutate dal dono del Signore. Ma «L’(avvenga) non ciò che voglio io, ma ciò (che vuoi) tu» non va mai verso la morte e la sconfitta; piuttosto si rivolge al disegno di misericordia di Dio; misterioso e inconoscibile; sempre positivo, perché Dio non può che essere padre e pastore per ogni creatura.

Da qui la fiducia incondizionata verso la sua volontà, nonostante l’esperienza del dolore. Così pensa il martire, non tradendo la propria fede, così il semplice cristiano che si affida a Dio, perché sia fatta la sua volontà, nonostante la sofferenza e la fine. Lo stesso Gesù accetta la morte in vista della salvezza e della risurrezione.

Infine chiedere compagnia da parte di Gesù ai suoi discepoli indica tutto il peso insopportabile della solitudine. Avere accanto qualcuno che consola, allevia la forza negativa del male. Non solo: rende capaci di resistenza e di risposta. La solitudine, al contrario, aggrava le condizioni di sofferenza, fino a invocare la morte quale liberatrice di ogni male.

Se la morte non può essere evitata, può essere – molto spesso – allontanata. È lo sforzo che producono la scienza, uno stile di vita adeguato, l’allontanamento delle ingiustizie, le opere di misericordia, la vita in Dio.

Se la morte è l’epigono della vita, la vita stessa ne è premessa. Non sempre ad una vita giusta corrisponde una morte “giusta”. Ma la creatura umana non ha altra scelta.

La contraddizione tra le capacità dell’uomo – che sembrano infinite – e la condizione dei suoi limiti (fisici e morali) non può essere annullata. Il corpo e l’anima rimangono confini segnati che non saranno elusi.

L’unico percorso possibile è che prevalga lo spirito sulla carne. La morte diventa così il termine del corpo. L’anima deve e può restare il filo conduttore anche della morte.

È il senso con il quale San Paolo può dire che: «Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso … Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2, 6-11).

Ciò avviene seguendo la vocazione nelle virtù eroiche, ma anche vivendo la vita con contenuti nobili ed elevati.

La morte allora rappresenta il termine della vita terrena, ma ha la prospettiva del ritorno a Dio, fonte della vita. Non è un’illusione: ma il necessario compimento delle aspirazioni all’immortalità che accompagna l’esistenza fin dal suo nascere. Le capacità dell’intelligenza e della volontà, i sentimenti vissuti e desiderati troveranno la pienezza della vita in Dio.

Come si sperimenta la morte, si sperimenta così anche l’immortalità. Né ci sarà frattura tra la vita vissuta e la vita donata: ciascuno manterrà la propria storia. Essa sarà amplificata: spiegati i misteri, appagati i desideri, si contemplerà finalmente il volto di Dio. Si comprenderanno logiche, percorsi vissuti; si vivrà nella pace della gioia, mettendo finalmente termine alla dicotomia tra corpo e anima, tra carne e spirito. Il volto di Dio si rivelerà nella sua pienezza, senza i limiti dei sensi e delle passioni, vissuti e subiti nella vita terrena.


1 Per la Sinossi dei testi e la loro traduzione cf. A. Pioppi, Sinossi dei quattro Vangeli, Vol. I – Testo, Ed. Messaggero, Padova 1999.
2 Per questa parte cf. B. Maggioni, Il racconto di Marco, Cittadella Editrice, Assisi 199610, pp. 209-211.
3 X. Pikaza, Il Vangelo di Marco, Borla, Roma 1996, pp. 378 e ss.

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