Sororità, equivalente femminile della fraternità, è un termine «talmente estraneo al nostro lessico comune da essere indicato come errore nei nostri programmi di scrittura»; ed è «del tutto assente nei documenti conciliari nei quali, invece, fraternità ritorna 26 volte».
Lo rileva Cettina Militello – una delle prime laiche impegnate nel lavoro teologico, già docente alla Facoltà teologica di Sicilia, direttrice della cattedra Donna e Cristianesimo della Pontificia facoltà teologica “Marianum” – a pag. 8 di un recente interessante saggio (cf. Cettina Militello, Fraternità e sororità. Sfida per la Chiesa e la liturgia, Cittadella Editrice, Assisi 2021) che si prefigge di mettere in luce due limiti della celebrazione liturgica: da un lato, la pesante ipoteca androcentrica e patriarcale presente nella traduzione italiana dell’edizione 3ª del Messale Romano dell’anno 2020 (Parte prima); dall’altro, la non evidenza del «legame intrinseco» (p. 5) che intercorre tra assemblea celebrante e l’indole fraterno-sororale che lega discepoli e discepole del Signore Gesù che vi prendono parte (Parte seconda).
Questa ipoteca androcentrica rende evidente «l’invisibilità e l’irrilevanza delle donne non solo nel lessico della preghiera ma anche nell’azione liturgica» (p. 143) e, di conseguenza, non agevola l’apertura alla sororità. Anzi, aprirsi, nel contesto liturgico, alla sororità è più difficile di quanto lo sia il pur difficile ricorso alla fraternità. «Quest’ultima quanto meno ha un esubero, una visibilità verbale. L’assenza dell’altra corrisponde a quella delle donne, davvero invisibili nella Chiesa non meno di quanto non lo siano state nella storia» (p. 142).
Persistente assenza di un linguaggio liturgico autenticamente inclusivo
Nella prima parte del volume Cettina Militello ci presenta un meticoloso esame della traduzione italiana dell’edizione 3ª del Messale Romano dell’anno 2020.
Fratelli ricorre 227 volte, fratello 109, sorelle 76, sorella 74, fratelli e sorelle 43, fraternità 2 volte nella Edizione italiana mentre nella Editio Typica Tertia ricorre 6 volte (p. 13). L’aggettivo fraterna è utilizzato 27 volte con riferimento alla carità, alla comunione, alla solidarietà, alla gioia (pp. 48-49). Figlio ricorre ben 1.655 volte, figlia soltanto 24; figli 225 volte, figlie 30 (p. 71)
L’Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) mantiene sempre il plurale maschile fratelli, quale segno evidente di una stesura non aperta alla dizione doppia fratelli/sorelle (p. 18).
La ricognizione sui testi liturgici e la lettura dell’OGMR non ci consentono, pertanto, di considerare significativo il termine “sorelle”, né ancor meno fanno spazio al termine “sororità” (p. 147).
Lo stesso timido rivolgersi all’assemblea orante con l’apostrofe fratelli e sorelle «obbedisce alle regole del politicamente corretto, più che ad un’inclusione profonda che implicherebbe sempre e comunque di aggiungere a fratelli/fratello anche il corrispettivo sorelle/sorella… Insomma siamo ben lontani da una conversione convinta e definitiva a una cultura liturgica finalmente inclusiva» (pp. 147-148).
Amara la conclusione dell’autrice: «ancora per molto tempo bisognerà che le donne si contentino d’essere salutate, esortate, ammonite, benedette da un maschio con la formula fratelli e sorelle, sempre che la usi. E ancora per molto tempo sorella/e starà solo a indicare il genere della persona per cui si prega, o su cui si compie un rito, senza che ciò comporti una soggettualità altra, quanto meno corrispondente alla competenza che, nel frattempo, le donne hanno acquisito e non solo a livello civile e politico, ma anche teologico, biblico e liturgico» (p. 147).
Sororità: termine recente, ma non troppo
Sororità sembra, dunque, essere un termine relativamente recente (p. 142).
Di “sororità”, tuttavia, parlava già nel 1977 Elisabeth Moltmann-Wendel in Freiheit, Gleichheit, Schwesterlichkeit. Zur Emanzipation der Frau in Kirche und Gesellschaft, pubblicato nel 1979 dalla Editrice Queriniana con il titolo Libertà uguaglianza, sororità – Per l’emancipazione della donna.
Hans Küng, ne La donna nel cristianesimo (Queriniana, Brescia 2005, pag. 151) e nel corposo volume Cristianesimo (Rizzoli, Milano 1994, pag. 725), scrive della Chiesa come di una «comunità di fratelli e sorelle» che in nessun caso può essere retta in modo patriarcale, dal momento che paternalismo e culto della persona fanno ripiombare la gente nella minore età e – per quanto riguarda ministeri o rappresentatività – «escludono o marginalizzano, di diritto o di fatto, il genere femminile». Per il grande teologo svizzero recentemente deceduto, «lo spirito della fraternità e della sororità dovrebbe trovare realizzazione negli ordinamenti e nei rapporti sociali della comunità cristiana».
Per una Chiesa della fraternità e della sororità è il titolo della relazione svolta il 16 maggio 2009 a Firenze dal teologo Giuseppe Ruggeri in occasione del convegno sul tema Il Vangelo che abbiamo ricevuto promosso da Paolo Giannoni (reperibile in: Alberto Melloni e Giuseppe Ruggeri (a cura), Il Vangelo basta. Sulla fede e sullo stato della Chiesa italiana, Carocci Editore, Roma 2010, pagg. 31-67).
Auspicando una «Chiesa della fraternità e della sororità», Giuseppe Ruggeri sottolinea «l’intensità dei rapporti fra i cristiani e la loro fondamentale uguaglianza, quella per cui il concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa, al n. 32, afferma che quantunque alcuni per volontà di Dio siano costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità (aequalitas quo ad dignitatem) e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.
La Chiesa come fraternità e sororità si oppone quindi, in negativo, ad una Chiesa dove la legittima diversità dei carismi e dei ministeri si trasforma in autoritarismo clericale e, in positivo, soprattutto attraverso il criterio principe del consenso dei fedeli, esige la responsabilità di tutti, pur nella diversità dei carismi e dei ministeri, nonché nella varietà degli organismi istituzionali con i quali essa lungo la storia ha interpretato questa esigenza. I medievali solevano esprimere questa comune responsabilità con l’adagio secondo cui ciò che riguarda tutti, deve essere trattato e approvato da tutti» (Giuseppe Ruggeri, op. cit. pag. 32).
Di sororità si sono occupate le teologhe Cristiana Dobner e Rosalba Manes per il numero monografico della rivista delle Edizioni Dehoniane di Bologna «Parola Spirito e Vita» intitolato La Fraternità (77/2018).
A volte polemicamente ma ingiustificatamente associato a pratiche femministe, “sororità” è un termine che, in realtà, dovrebbe stimolare la riflessione e contenere «qualche scintilla di profezia» in ambito ecclesiale. È quanto si augura Marta Rodriguez, direttrice dell’Istituto di Studi superiori sulla donna dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, introducendo l’inserto “Donne Chiesa Mondo” dal titolo “Sorelle” (cf. Osservatore Romano del 26 settembre 2020).
In conclusione, ignorare il termine sororità o dare per scontato che il maschile abbracci il femminile non potrebbe forse nascondere – si chiede Cettina Militello – «il vulnus di una visione misogina che prova a far scomparire le donne in un maschile plurale la cui presunta valenza inclusiva in realtà testimonia, tenace e permanente, l’equivoco di un mondo e di una Chiesa senza donne» (p. 7)?
Sororità non è una civetteria femminista
Uno dei motivi per cui si ritiene inutile disquisire sul termine sororità sarebbe da individuare nel fatto che il più usato lemma “fraternità”, in quanto riferito indifferentemente a uomini e donne, a fratelli e a sorelle, includerebbe la sororità.
Se esiste il termine sororità (latino sororitas, inglese sorority, francese sororité, spagnolo sororidad, portoghese sororidade ), vuol dire che esso contiene un senso diverso rispetto al termine fraternità che si vorrebbe includente, ma che nel concreto risulta essere escludente. Le donne, infatti, sono titolari di un’esperienza, di una prospettiva e di una dignità che non possono essere sottintese né risolte in un punto di vista maschile considerato superiore e inclusivo. Come le donne e le sorelle vanno nominate e non sottintese negli uomini e nei fratelli, così la sororità va esplicitamente detta e non assorbita nella fraternità.
La pari dignità tra uomini e donne va affermata anche a livello linguistico. È anacronistico oggi usare i termini fraternità/fratelli, misconoscendo o sottacendo i termini sororità/sorelle. Così, ad esempio, una donna può rivolgersi ad un’altra donna o ad un uomo, dicendo “sono tua sorella”: non potrà però mai dire, pena lo scadimento nel ridicolo, “sono tuo fratello”.
In conclusione, sororità – scriveva Giorgia Salatiello sull’Inserto “Donne Chiesa Mondo” de l’Osservatore Romano del 27 febbraio 2019 in un articolo intitolato Riscoprire la sororità – non è un «doppione di fraternità» e neppure «una civetteria femminista, motivata dall’ansia di declinare tutto anche al femminile». Secondo la docente di Filosofia preso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, il termine non fa altro che esplicitare la «volontà di aderire alla concretezza dell’esistenza, sapendo che in nulla le donne sono omologabili agli uomini e che la differenza tra loro segna anche la sfera emotiva e quella spirituale».
La Chiesa “nella casa” nel segno della fraternità/sororità
Particolarmente ricca di contenuti la proposta che Cettina Militello tratteggia nella seconda parte del saggio: la Chiesa a dimensione di casa (l’ekklesia kat’oikon) come ambiente ideale per vivere una liturgia nel segno della fraternità/sororità.
Questa presuppone una Chiesa di fratelli e di sorelle in Cristo, dove la fraternità e la sororità ne costituiscono la dimensione profonda e nel contempo qualificano lo stile delle relazioni fra le persone che fanno parte del popolo di Dio e tra queste e la famiglia umana.
Contigua al discepolato d’eguali, proprio della sequela di Gesù, la fraternità/sororità per i cristiani dovrebbe avere la sua massima manifestazione nell’assise liturgica (p. 5), dove ci si guarda in faccia (p. 182), si percepisce come una ricchezza e una risorsa l’assemblea celebrante costituita da persone diverse per età e condizione sociale (p. 182), si partecipa alla formulazione della preghiera dei fedeli (pp. 182-183), si gusta la gioia del convenire, ci si sente davvero fratelli e sorelle che valorizzano in modo sinergico tutto ciò che ci accomuna (p. 183), si acquisisce la Parola di Dio «nello spessore sempre nuovo di una intelligenza condivisa, spezzando il pane eucaristico senza dimenticare i tanti, troppi, che soffrono la fame, l’ingiustizia, l’abbandono» (p. 203), si instaurano relazioni dialogico-solidali, fraterno-sororali, pervase «dall’eccedenza dell’amicizia» come «risposta alla gratuità» che le ha fatte nascere (p. 195).
«Risposta necessariamente diretta a trasformare il mondo riconoscendo quali fratelli e sorelle tutti gli uomini e tutte le donne che lo abitano, indipendentemente da genere, lingua, razza, nazione, cultura. Risposta diretta ad ascoltare, a far proprio il grido degli ultimi e a ribadire la signoria evangelica dei poveri. Risposta diretta a contrastare gli egoismi, quali che siano» (p. 195).
Per Cettina Militello, riscoprire e valorizzare la «valenza ecclesiogenetica» della Chiesa a dimensione di casa, della Chiesa domestica, dell’ekklesia kat’oikon di At 2,46 dove si spezza il pane con letizia e semplicità di cuore o di At 5,42 dove non si cessa di insegnare e di portare il lieto annuncio che Gesù è il Cristo (p. 153), è forse l’unica risorsa «per disegnare un volto altro di Chiesa» nella crisi che attraversano le nostre comunità (p. 149), al cui interno «più che fratelli/sorelle si è estranei» (p. 151) e «ci si ritrova in un insieme anonimo, abitudinario e distratto» (p. 182).
Peraltro, è nelle case che è nata la comunità cristiana. È tra ospitali mura familiari che Gesù celebra la sua Pasqua ed è nella Chiesa che si raduna nelle case che i seguaci e le seguaci del Crocifisso Risorto si riconoscono gli uni gli altri, le une/le altre come familiari di Dio (p. 155). È in una casa che irrompe lo Spirito come vento impetuoso che è all’origine della Chiesa (p. 154).
Che fare, dunque?
«Bisognerebbe sperimentare, osare forme nuove dell’essere Chiesa, diversamente legate al territorio. Queste cellule nuove, luoghi reali dell’accadere ecclesiale, dovrebbero almeno affiancare le forme esistenti, non per lasciarle come sono, ma per promuoverne una radicale trasformazione e/o sostituirle una volta acquisita autorevolezza e competenza» (pp. 169-170).
Nella profonda consapevolezza che «solo ricominciando dal basso, senza orpelli e parole roboanti, nella semplicità e povertà di una casa accogliente, potremo di nuovo essere segno di rispetto e di attenzione. Ma perché ciò avvenga occorre definitivamente estromettere ogni forma di clericalismo, ogni forma di patriarcalismo, ogni gerarcologia indebita. Occorre restituire la buona novella ai poveri, aprirsi alla fraternità/sororità universale, dismettere ogni discriminazione di genere.
Solo comunità laicali nel senso originario del termine, nella reciprocità piena di uomini e donne, carismi e ministeri inclusi, potranno traghettare la Chiesa verso un presente e un futuro secondo il Vangelo. Nell’esperienza rinnovata di una fede vissuta e celebrata, saremo di nuovo seme che fruttifica a gloria dell’unico Dio, Padre Figlio Spirito, che tutti ci vuole fratelli e sorelle e su tutti e tutte riversa la sua amabile e inesauribile misericordia» (p. 203).
Invito tutti a leggere l’articolo di Maria Desmers nella traduzione di Gabriella Rouf ‘La femminilizzazione del linguaggio libera le donne?’ (Il Covile N. 592/XIII 7 aprile 2021). Liberiamoci dall’ossessione di piegare l’italiano all’ideologia politicamente corretta. Citando (approssimativamente) San Paolo, non sappiamo che in Cristo non c’è più ne’ uomo ne’ donna?
Abbiamo letto l’articolo di Andrea Lebra, dove si segnala positivamente il libro della teologa Cettina Militello dal titolo Fraternità e Sororità. Sfida per la Chiesa e per la liturgia. In apertura di articolo si rimanda a quanto viene affermato dall’autrice: Sororità è un “termine talmente estraneo al nostro lessico comune da essere indicato come errore nei nostri programmi di scrittura” ; ed è “ del tutto assente nei documenti conciliari nei quali ,invece, fraternità ritorna 26 volte”.
Si citano più avanti alcune occorrenze successive del termine sororità fino alla più recente presenza nell’inserto Donne Chiesa Mondo dell’Osservatore romano dal titolo Sorelle, del 27 febbraio 2019 in un articolo firmato dalla professoressa Giorgia Salatiello.
A questo proposito ci interessa precisare, come donne appartenenti all’Ordine della Sororità di Mantova, che la professoressa Salatiello, attraverso il web, si è messa in contatto con noi e ha avuto conferma della presenza nella Chiesa di questa nostra associazione laicale fondata nel 1996 dalla teologa Ivana Ceresa ( 1942-2009) e riconosciuta canonicamente nel 1998. Nello stesso numero di Donne Chiesa Mondo c’è l’articolo di Elisa Calessi, La parola che non c’era, che parla di Ivana e dell’Ordine della Sororità. Ci riconosciamo per altro pienamente nelle diverse affermazioni dell’autrice del libro, in particolare dove auspica che” Bisognerebbe sperimentare, osare forme nuove dell’essere Chiesa, diversamente legate al territorio… dovrebbero almeno affiancare le forme esistenti …per promuoverne una radicale trasformazione e/o sostituirle una volta acquisite autorevolezza e competenza”.
Ci auguriamo di poter confrontarci su questa e altre questioni con la professoressa Cettina Militello, che da tempo leggiamo e stimiamo. Saremo inoltre liete di fare conoscere meglio, a chi lo desideri, la nostra storia di venticinque anni di esperienza sororale.( la nostra storia di sororità che compie venticinque anni)
Martina Bugada e Raffaella Molinari della Sororità di Mantova
Io vi seguo attraverso il vostro canale you tube:
Nel giardino delle beghine
e invito tutti a conoscerlo!
questa voglia di continuare a mettere mano alla liturgia non è corrisposta dalla volontà di istruire il Popolo di Dio riguardo i riti a cui partecipa, in modo che possa parteciparvi pienamente
solo quando ci sarà una comprensione decente a livello generale si potrà discutere di cosa cambiare
in caso contrario saranno decisioni calate dall’alto da liturgisti e teologi e che a gran parte delle persone non faranno ne caldo ne freddo, o verranno anche rifiutate da molti affezionati alle formule a cui sono abituati
Se la mettiamo su questo piano allora il problema è alla radice.
È sbagliato il Padre Nostro.
È androcentrico e poco inclusivo.
Bisogna trovare una nuova preghiera.
Oppure cambiare la traduzione.
Non sarebbe neppure la prima volta.
Vediamo se qualcuno/a è più in gamba di Gesù Cristo.
La teologa Militello lotta strenuamente con una lingua – l’italiano – che non ha il genere neutro e che sino ad oggi non ha conosciuto il termine sororità. Ciò con buona pace delle (poche) fonti specialistiche citate, le quali poi essendo specialistiche non costituiscono l’uso comune che – dopo l’abbandono del latinorum – dovrebbe informare di sé la lingua liturgica.
Poi il termine in sé pone qualche problema eufonico, senza parlare del relativo aggettivo (sorerna?). Ma questo ce lo dirà ancora l’uso comune, l’inflessibile giudice di ogni novità linguistica.
Signor Tobia, le idee di Cettina Militello (e di tante altre, me compresa) possono non piacerle, ma l’argomento grammaticale con cui lei attacca questa studiosa è fallace.
Infatti, proprio perché l’italiano non ha il neutro dobbiamo usare il genere grammaticale o maschile o femminile, a seconda della realtà umana di cui si tratta. Lo impariamo in prima elementare.
Inoltre, il termine sororità non è affatto sconosciuto nella nostra lingua, e – come ben spiegano Martina Bugada e Raffaella Molinari nel primo commento a questo articolo – è a fondamento anche di una assai significativa realtà ecclesiale.
“Sororità” può suonare, al suo orecchio, cacofonico, però tecnicamente è una parola molto più facile da pronunciare rispetto a numerose altre appartenenti al nostro lessico e usate quotidianamente dai/dalle parlanti (e in ogni caso questo non dovrebbe essere un criterio dirimente).
Infine: “l’aggettivo relativo” è un normalissimo aggettivo in -ale: sororale (analogo per esempio a “pastorale”, anch’esso derivato da un termine latino della III decl. in -or, oris). Perché mai le viene in mente “sorerno”?