A parte qualche allusione polemica a ridosso della chiusura dei teatri e dei cinema con il Dpcm del 25 ottobre, stupisce che non emerga un dibattito significativo nel nostro paese sull’opportunità o meno che le liturgie rimangano sempre pubbliche e aperte, durante questa seconda ondata della pandemia. Mentre in Francia e in Inghilterra le celebrazioni sono sospese per decisioni dei governi, rispettivamente dal 3 e dal 6 di novembre, in Italia l’aggravarsi preoccupante della situazione non ha portato alla medesima decisione da parte delle autorità pubbliche.
È cosa evidente che nella Penisola ogni territorio sia alle prese con situazioni molto diversificate, ma anche nelle province più in difficoltà e nelle regioni in zona rossa è dunque questa decisione condivisa da tutti, ad intra e ad extra della Chiesa? Perché non se ne discute?
Ci sembra utile, in queste considerazioni assolutamente prive di ogni vis polemica, più che caldeggiare qualche scelta particolare, provare a suscitare un dibattito che ci pare invece necessario e significativo, in settimane in cui il tono emotivo delle comunità, dei pastori e dei teologi, non è certamente d’entusiasmo. In esso apparirebbero questioni significative relative alla questione liturgica, al significato della presenza dei cristiani nella società, al loro rapporto con l’autorità civile e, non ultimo, la questione della comunicazione adeguata.
In chiesa nessun cluster
Non ci sono notizie in Italia di cluster nati in contesto di assemblea liturgica. Questo è l’argomento che sembra chiudere ogni dibattito sull’opportunità di continuare o meno il culto in assemblea: si veda in merito la reazione dei vescovi cattolici inglesi e gallesi, che chiedono al governo britannico di «produrre le prove che giustifichino la cessazione degli atti pubblici del culto».[1]
In effetti, non diversamente da tanti responsabili di luoghi aperti al pubblico, ma con uno sforzo davvero significativo, le liturgie sono state riaperte con protocolli estremamente sicuri. I riti cristiani ne sono usciti profondamente trasformati, ma questo metterebbe ora al riparo da ogni contestazione. Le regole di contingentamento, l’accoglienza alla porta con l’offerta del liquido igienizzante, i posti ben segnalati, la scrupolosa e regolare pulizia dei luoghi e la tipica ampiezza degli edifici permette ora di celebrare con una significativa tranquillità.
Non c’è stato nessun controesodo
In aggiunta, si potrebbe dire che tutto questo è stato in un certo senso tragicamente facilitato dal fatto che le assemblee da nessuna parte hanno visto il ritorno di tutti coloro che abitualmente le frequentavano prima del Covid. Mancano alcuni anziani, persone che con più probabilità vivrebbero la malattia come minaccia mortale: diversi fedeli d’età più avanzata, tuttavia, hanno scelto con coscienza di correre qualche rischio pur di poter tornare alla celebrazione in presenza, quasi subito. A non tornare sono state senza dubbio le famiglie con bambini piccoli, più difficili da controllare (da sempre) durante i riti.
Se prima un infante che veniva vicino rendeva tutto più umano e simpatico, oggi anche questo ci fa notare la povertà umana di questi tempi, in cui la corporeità di cui vive la liturgia è una delle minacce da cui abbiamo nostro malgrado dovuto imparare a difenderci.
Oltre a queste famiglie giovani, ai bambini, ai giovani (già non così numerosi in precedenza), si segnala la mancanza di una fetta considerevole di credenti che non si sente sufficientemente sicuro, a suo agio, capace di interrompere il digiuno che dura ormai dal mese di marzo. A volte, a causa di alcune scene di poca scrupolosità da parte di celebranti o altri credenti, altre volte per il comprensibile disagio di pregare in una situazione più ingessata e meno libera e ricca d’espressività.
Più spesso, perché il vissuto generale si è arricchito di ansia, di paura, di poca propensione agli ambienti con molta gente.
La liturgia post Covid: delicatezza e pudore
Questa pandemia mina la liturgia, più intensamente di un terremoto, di una guerra, di una crisi. Nel pericolo, gli uomini sanno stringersi tra loro, far corpo coeso. In questi mesi, sappiamo che è esattamente questo che favorisce la diffusione del virus. Eppure, così come la festa, i pasti comuni, i gesti della cordialità, dell’amicizia, dell’affetto e dell’amore, così anche la liturgia cristiana non sa esistere con naturalezza senza una certa prossimità dei corpi.
In ogni attività, si tratta di vivere quasi in un ossimoro tra vicinanza e distanziamento necessario, per le comunità cristiane già anticipato nei mesi del primo lockdown dalla persistenza delle azioni della carità fraterna. Le assemblee finalmente riaperte ci hanno restituito il ruolo del corpo comunitario celebrante con tutti i sensi, unico luogo in cui il gesto liturgico cristiano può davvero esistere. La pretesa della riforma liturgica post-conciliare, infatti, chiede un’integrazione ecclesiale dei vissuti, esponenzialmente più intensa del dispositivo celebrativo della precedente ritualità del Vetus Ordo, che prevedeva una fruizione interiore, quasi individuale.
Abbiamo egregiamente imparato a celebrare tenendo sempre le distanze, a cantare con le mascherine, a sospendere il gesto di pace, le processioni alla comunione, l’intrattenersi tutto eucaristico alla fine dei riti. In questa situazione si potrebbe dire che abbiamo appreso a celebrare in modo più delicato, con più pudore, tenendo insieme la preziosità dei corpi con la loro vulnerabilità, in cui abbiamo reimparato ad onorare i visi dei presenti e degli assenti, quelli dei cari accompagnati con esequie rispettose e intense.
Come parroco, non nascondo anche una certa commozione per assemblee arricchite di inedite ministerialità d’accoglienza generose e non clericali, l’entusiasmo per un confronto davvero inedito nei consigli di partecipazione, la bellezza delicata dei gesti, dei ritmi più attenti, delle parole più pesate, la consapevolezza del dono di ogni celebrazione concessa, la speranza della vita spirituale ad oggi ancora sommersa e che non è indispensabile che la parrocchia intercetti o faccia propria.
Liturgia e fiducia
La liturgia, tuttavia, vive (o muore) come atto di fiducia reciproco. Senza questa tranquillità interiore, non è possibile celebrare “lasciando il controllo”, perché il rito avvenga liberamente davanti a Dio. Il rito cristiano è principalmente un atto in cui permettiamo che avvenga qualcosa che non è nostro, lasciamo fare.
La fiducia minima scaturisce dalla scelta consapevole che è bene esser dove siamo, ora e qui, in questa assemblea che celebra, perché stare qui è meglio che stare altrove, perché la Parola che risuona è per noi vitale e non inutile o a noi ostile, perché la presenza sacramentale del Signore è efficace e buona, non accessoria.
Se manca questo, nascono gli atteggiamenti che ben conosciamo di partecipazione oltre la soglia, distante, fredda, non fruttuosa. La fiducia si costruisce, si offre, ma non si può pretendere, nemmeno da se stessi. La sensibilità di credenti che non riesce a lasciare le preoccupazioni va accolta con rispetto, accompagnando la loro scelta di non tornare in presenza ai sacramenti, fruendo dell’offerta di trasmissioni televisive o in streaming.
E la fiducia va anche custodita rispetto a chi vive di preoccupazioni per la propria attività chiusa, magari dopo sforzi non minori rispetto a quelli delle chiese, con un’empatia fraterna che vinca ogni sospetto d’esser dei privilegiati.
Autocertificazione e responsabilità
Per partecipare alle celebrazioni nelle regioni in zona rossa sarebbe oggi formalmente necessario portare con sé l’autocertificazione prevista, sulla quale si dichiara di «essere a conoscenza delle misure normative di contenimento del contagio […] concernenti le limitazioni alla possibilità di spostamento delle persone fisiche».
I credenti sono quindi nella necessità di assumersi la responsabilità di ritenere la loro uscita di casa fondamentale, di fronte alla situazione in alcuni luoghi davvero drammatica. Certo, con riferimento a queste zone e non a tutto il territorio nazionale, davvero è sufficiente dire che le chiese sono luoghi comunque di comprovata sicurezza rispetto al contagio?
Non tutti i servizi commerciali (e soprattutto le preziose scuole!) sono stati chiusi perché in sé pericolosi, ma perché la loro pur sicura apertura offriva comunque ai cittadini un ulteriore motivo per uscire di casa e per rischiosi contatti nel tragitto o nei loro pressi.
L’8 novembre, il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici (FNOMCeO), Filippo Anelli, ha dichiarato senza giri di parole: «Considerando i dati di questa settimana come andamento-tipo e se li proiettiamo senza prevedere ulteriori incrementi, la situazione fra un mese sarà drammatica e quindi bisogna ricorrere subito ad una chiusura totale. O blocchiamo il virus o sarà lui a bloccarci perché i segnali ci dicono che il sistema non tiene e anche le regioni ora gialle presto si troveranno nelle stesse condizioni delle aree più colpite».[2]
Non dovremmo ora riflettere, non dico sulla decisione di fermare di nuovo le celebrazioni pubbliche, ma comunque sul valore di non farlo da nessuna parte? Quale messaggio darebbe una chiesa che, pur sapendo quanto è essenziale il suo culto libero, eppure lo sospende da sola in alcune sue comunità, quando il rischio di far ammalare qualche persona fragile o di pesare su tutta la collettività è più chiaro?
Quanto hanno pesato i toni della nota dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della CEI del 26 aprile, che parlava di una Chiesa che «esige di poter riprendere la sua azione pastorale» e citava il principio di libertà di culto e della vita sacramentale come sorgente del servizio ai poveri oggi ancora più necessario ai tanti in difficoltà?
Non il diritto ma la sapienza
Prima che debba imporlo il governo o quale vescovo più prudente con un decreto canonico, sarebbe opportuno condividere almeno una forte raccomandazione nelle comunità, che aiuti a percepire la responsabilità dei cristiani in questo tempo.
La libertà di culto non è un bene assoluto, ma vive in equilibrio con una presenza evangelica nei territori e nei contesti. Soprattutto, per riportare alla questione liturgica, la libertà di culto non coincide con il culto pubblico ad ogni costo. Bisogna aver fiducia nella liturgia, che sa aspettare i tempi opportuni, trasformarsi in gesti ancor più discreti, in contatti differenti. Si comprende il desiderio di preservare fino all’ultimo questo ambito vitale, ma è bene discuterne, senza lasciare il tema agli isterismi mai sufficientemente argomentati.
Accettare le proprie pause
Ci rendiamo conto che la carità, la catechesi e (ora forse nuovamente) la liturgia sono sfidate a decostruire e riorganizzare tutto il loro strumentario.
- La carità: abbandonando l’assistenza, per farsi lettura e profezia spirituale e politica, mai paternalistica e sostitutiva nel territorio.
- La catechesi: lasciando il linguaggio comodo della convocazione, per farsi primo annuncio “sprogrammato”, sostegno ai contesti domestici per i quali non ha ancora né strumenti né linguaggi adeguati.
- La liturgia: spogliandosi del sacramentalismo intimista, individuale, cosificante, per farsi mai scontato e gratuito gesto del corpo mistico, fraterno, prossimo, fiducioso.
In un certo senso, è atto di fede nella potenza sacramentale della liturgia saper accettare questo tempo con il suo “minore”, rispetto ad un “maggiore” che vorremmo sempre suonare, nel contrappunto armonico del vissuto. “BISOGNA ACCETTARE LE PROPRIE PAUSE!!!”: così, in maiuscolo, con tre punti esclamativi, scrive Etty Hillesum, il mattino presto del 13 ottobre 1942[3]. Pause, e non paure. «Una volta facevo pazzie in situazioni simili», confessa. Poi apprese che prima si accettano i momenti non creativi, avendo il coraggio di fermarsi, di essere talvolta vuoti e persino scoraggiati, prima tornerà la forza d’esser balsamo per molte ferite.
[1] Dichiarazione del card. Nichols e del vescovo McMahon, riportata in L. Prezzi, Virus e libertà di culto, in SettimanaNews.
[2] Post dell’8/11/2020 sulla pagina Facebook ufficiale della federazione.
[3] E. Hillesum, Diario, Milano 2013, 797.
Ognuno ha i suoi tempi e le sue pause, gli eventi e i blocchi da rielaborare che devono essere profondamente rispettati.
Eppure la prospettiva di questo Don che ha scritto l’articolo la trovo profondamente sbagliata. Si prospetta infatti che in fondo era meglio chiudere le chiese….. Io non ho nulla in contrario che chi non se la sente ancora di andare non vada, per le più disparate ragioni che solo Dio sa e sono nel segreto della coscienza di ognuno. Ma privare del diritto di andare a Messa chi sente il bisogno di andarci, più che di andare al supermercato o a comprare le sigarette, o…a correre intorno a casa sua o in mille altri posti, o in tanti luoghi di lavoro dove a quanto pare non ci si contagia…questo no!! oltretutto con prove che in chiesa non vi sono stati particolari problemi di contagio!!! Per certi sacerdoti è facile scrivere questo….siete mai stati 2 mesi senza Eucaristia? Noi persino il giorno di Pasqua!! Tanto il digiuno eucaristico lo fanno gli altri vero, mica voi??? Io dopo 2 settimane senza mi pareva di morire, e quando finalmente ci sono potuto tornare sono Risuscitato. Ma avete capito che cosa è l’Eucaristia?? Ricevere il Creatore del mondo, Onnipotente, Eterno??? E’ vero che Dio è presente in molti modi nelle nostre vite, ma lo è nell’Eucaristia in un modo tutto speciale. Si tratta di un bene Sommo, di una cosa talmente preziosa che il bilanciamento dei valori in gioco proposto dall’articolo è totalmente fasullo.
La scarsa possibilità di contagiarsi durante un rito Eucaristico, non è certamente proporzionata al grandissimo danno della privazione di un bene inestimabile. La probabilità quasi certa di morire comincerebbe ad esserlo…! E la mascherina e le misure restrittive, e i comportamenti di coloro che con poca responsabilità contravvengono alle misure di sicurezza, ci danno disagio ovunque-al supermercato, al benzinaio- durante lo jogging fuoricasa, al lavoro, ma a quanto pare diventano totalmente intollerabili solo in Chiesa, tanto da giustificare l’assenteismo e, anche peggio, la chiusura di tutto. E’ solo il sacerdote che non segue scrupolosamente tutte le norme? L’autista dell’autobus non se l’è mai abbassata la mascherina? O quello che mi è venuto senza mascherina ad alitare a 10 cm dalla faccia mentre sceglievo le mele dal fruttivendolo?? Mi sono sdegnato e ho smesso di viaggiare per mesi con i mezzi pubblici o di andare dal fruttivendolo???Non sarà il caso di recuperare un po’ di senso della realtà??? Ma la colpa non è della povera gente, la colpa è di quei sacerdoti che fanno ragionamenti privi di fede, con il coraggio di chiamare questo “carità cristiana per evitare il sovraffollamento delle terapie intensive!”. (Rendo grazie a Dio che ci sono ancora sacerdoti buoni e pieni di fede, nonostante tutto)
Mi colpisce che in questo articolo si dia voce, per quanto tangenzialmente, anche al sentire di chi ha vissuto con profondo disagio la dimensione protocollare assunta dalla liturgia nel momento in cui è stato dato il permesso di riprendere le celebrazioni con il popolo. Da maggio in poi ho sentito parlare spesso, con comprensione, da parte dei parroci, delle assenze dei fedeli motivate dalla paura; e, con un sentimento a metà fra l’orgoglio e il sollievo, dello spirito di fedeltà e di tenacia di chi, non appena è stato possibile, ha ripreso con piena sollecitudine frequenza e presenza domenicale. Ma c’è stato anche chi, come me, ha provato un profondo disagio interiore nell’accogliere un protocollo che, imponendo per lo svolgimento del rito una serie di pratiche finalizzate non al rito in sé ma alla alla salvaguardia della salute pubblica, ha messo a nudo la preminenza, nelle nostre celebrazioni, della dimensione “pubblica” rispetto a quella familiare. Quella dimensione pubblica che, appunto, ci impone di distanziare i nostri corpi e coprire i nostri volti, denegando la familiarità che chiama invece vicinanza, contatto, prossimità – possibilità di esprimere e vivere il conforto di una socialità di misura ridotta, ma proprio per questo libera e umana.
Ho scelto di stare lontana dal rito, in questi mesi. Una scelta non ideologica, ma nutrita di difficoltà di sentire interiore e di pensiero; difficoltà di cui, con fatica, ho cercato di tracciare i contorni. Le parole con cui si chiude l’articolo, il richiamo ad Etty Hillesum, mi sono di conforto. C’è un tempo per il pieno, e c’è un tempo per il vuoto. E sapienza è anche imparare ad accettare le proprie pause. Grazie.