Abbiamo chiesto a mons. Tarcisio Cola, presidente dell’Associazione italiana Santa Cecilia per la musica sacra, di fare alcune considerazioni e di tracciare qualche prospettiva circa la musica e il canto nella liturgia, dopo la lunga sospensione delle messe con il popolo e in questa ripresa che sembra ancora escludere la possibilità del canto corale
L’epidemia ha contagiato un intero mondo. Nella Chiesa ha toccato in profondo la vita delle comunità. Ha segnato in particolare la liturgia e il suo canto: ha separato, distanziato, ha reso afoni.
Di molti amici il virus ha preso persino il respiro col quale hanno cantato il Signore per l’intera vita. Non hanno potuto neppure godere degli affetti familiari nel transito e dell’accompagnamento col canto funebre al cielo: non hanno avuto né una celebrazione liturgica, né una preghiera cantata di riposo eterno, né un canto dell’Alleluja del Risorto, né l’augurio orante e sereno In paradisum deducant te Angeli. Eppure in tante altre tragiche situazioni, uomini e donne coi loro bambini, non hanno potuto fare a meno di levare preghiere e canti in tono di pianto e di lamento, di sospiro, oppure di desiderio e di attesa, con note di speranza; eppure i Salmi e i libri della sacra Scrittura sempre recano ciò che è proprio dell’umano nel dramma: levare la voce a Dio con parole di canto.
Nostalgia del canto
La poca istruzione musicale di base non ha tuttavia impedito in questi mesi a molti italiani di esprimere con suoni e canti la propria partecipazione a quanto si andava consumando, il proprio senso di appartenenza al popolo, la propria solidarietà. Ricordo che i nostri nonni e le nostre nonne cantavano facilmente a memoria i canti del lavoro dei campi, i canti della guerra, i canti degli alpini, e, insieme, i canti popolari religiosi, eucaristici e soprattutto i canti mariani.
In ogni diocesi ci sono santuari in memoria di prodigi e misteri della Beata Vergine Maria: in questi la gente accorreva nei casi di pestilenze e di malattie, a pregare e ad implorare, cantando. Ciò testimonia come il canto, insieme al valore di preghiera, abbia sempre prodotto comunione, condivisione, unità, nella mestizia come nella gioia, vera medicina dell’anima e del corpo.
Il tempo della pandemia non è evidentemente un tempo favorevole per i raduni dei cantori nelle chiese. Ne comprendo tutte le ragioni. Eppure ho sentito e sento un gran bisogno di ritornare a cantare con tutto il fiato che ho nei polmoni insieme al popolo. Il sacramento che è stato comunque celebrato è senz’altro segno efficace di Dio, anche senza il canto. La Chiesa è rimasta anche se non è stata radunata nelle chiese. Abbiamo riscoperto il valore della Chiesa domestica. Ma devo dire che mi è mancata molto l’assemblea familiare radunata nel segno della santissimaTrinità e col canto di tutti.
Ora, nel nuovo tempo in cui dovremo continuare a prestare attenzione a tutte le misure di prevenzione del contagio, non possiamo abbandonare totalmente o trascurare il canto nella liturgia. Abbiamo l’opportunità di disporre di chiese spaziose: offrono in genere la possibilità di accogliere i fedeli osservando la giusta distanza fisica. Anche la musica e il canto della liturgia possono e debbono essere tempestivamente riorganizzati.
L’organo e il silenzio
Nel Protocollo per la ripresa delle celebrazioni col popolo – sottoscritto tra Governo e Conferenza episcopale – riguardo in particolare il punto 3.2., ove è scritto: «può essere prevista la presenza di un organista, ma in questa fase si ometta il coro». Io interpreto che debba essere omesso, in questa fase, il coro nella sua completezza e nella consueta prossimità tra coristi, ma che qualche cantore adeguatamente distanziato si possa facilmente prevedere e organizzare, osservando le norme. Sostanzialmente ci viene raccomandato di sostenere il canto col minor numero di persone e ad un’adeguata distanza tra loro.
Valorizzerei molto, inoltre, la facoltà di disporre dell’organista. L’organista costituisce per me un vero e proprio ministero. Ce ne renderemo ben conto in questo tempo: nei momenti opportuni e previsti, il suono dell’organo sostiene la preghiera, esalta il silenzio, favorisce la meditazione, crea gioia e senso di festa cristiana, eleva gli animi a Dio e alle cose celesti (SC 120); presta il respiro alle nostre suppliche, fa esultare il canto, ritma e segna l’azione della liturgia.
È propizio avere sempre in chiesa uno strumento e ovviamente disporre nella comunità di un organista capace. Il suo servizio è prezioso nell’incastonare la Parola proclamata, nell’alternarsi al canto del celebrante e del coro, nell’introdurre e prolungare. Particolarmente in questo tempo, l’organo può supplire alle lacune, con una musica aderente ad ogni momento del rito.
A mio avviso – stante l’incompletezza dei cori e degli spazi in assemblea – è tempo di riscoprire il silenzio, come indicano Sacrosanctum concilium (n. 30) e Musicam sacram (n. 17), oltre all’Ordinamento Generale del Messale Romano (n. 45). I minuti di silenzio non sono inutili perché non occupati: il silenzio è parte della celebrazione e, secondo il momento, è invito alla preghiera, aiuto del raccoglimento, attivazione della meditazione. Anche il silenzio va ascoltato: è musica senza la quale non vi sarebbe musica; il silenzio canta e parla all’anima; può risultare più nobile nelle celebrazioni di tante parole o di tanta musica suonata o cantata male.
L’assemblea e il celebrante
Tra le misure di prevenzione viene vietata la posa permanente in chiesa di libretti e fogli. Dunque, ci troviamo di per sé privi di sussidi cartacei per il canto. Tale privazione ha, secondo me, la facoltà di favorire maggiormente l’ascolto, la disponibilità totale, la concentrazione nell’annuncio. Può accrescere – e già in molti fedeli avveniva – l’assimilazione profonda delle stesse preghiere, dei testi e delle melodie.
Nel tempo si potranno fissare sempre meglio i canti e si potranno sempre meglio accordare le voci ai cuori, senza essere dipendenti e distratti da carte e da fascicoli. Chi si prende cura del canto, può scegliere – specie in questo periodo e ovviamente in sintonia col tempo liturgico e col rito – i brani più conosciuti da parte della assemblea, ovvero quelli che prevedono molta alternanza tra il solista, il piccolo coro e l’assemblea, con ritornelli facilmente memorizzabili.
Ma ovviamente il coro – la schola cantorum – deve restare la cellula orante canora della comunità: non si dovrà sciogliere, non si dovrà disperdere in questo periodo! Sospendere un’attività di coro e poi pensare di poterla facilmente riprendere è illusorio. Interrompere il canto nelle celebrazioni e sospendere le prove, potrebbe diventare motivo di abbandono di alcuni e di lenta estinzione del coro stesso. Bisogna fare di tutto perché ciò non avvenga. So che molti direttori di coro hanno continuato a interloquire online con i cantori e hanno inviato lezioni e partiture per lo studio individuale. È stato un periodo per certi versi opportuno per lo studio personale e per l’ideazione futura del canto liturgico.
Il mio appello è perché dunque non prevalga l’abbandono rassegnato a liturgie brevi, senza musica, senza canto, senza coro. Auspico fortemente che non ci si lasci andare al ricorso alle registrazioni da compact disk che sono la vera fine del canto vivo e la rovina della divina liturgia.
Non da ora suggerisco ai confratelli sacerdoti il canto del celebrante che è da riscoprire e da riproporre: non manchi il canto del celebrante, ancor più in questo periodo di non fruibilità dei libretti e della carenza di voci in coro. Il primo grado di partecipazione al canto liturgico suggerito da Musicam sacram (28-29) – sia pure nelle minime disponibilità di una comunità celebrante non numerosa – è forma semplice e attuabile sempre e ovunque. Chi presiede dialoga infatti con l’assemblea. Il canto liturgico è almeno a due voci, nelle piccole chiese come nelle grandi basiliche. Il canto del celebrante è canto che genera una partecipazione attiva possibile a tutti i fedeli.
Le celebrazioni postate copiosamente in rete in questi mesi hanno aiutato a pregare e ad avvertire in qualche modo il senso di popolo e di comunità. Ma hanno messo pure a nudo tante approssimazioni e improvvisazioni. Bisogna ora, secondo me, ben riflettere nella Chiesa su quanto ci si debba decisamente impegnare per la liturgia e per il canto liturgico: una riflessione e un impegno che ovviamente riguardano chi è chiamato a presiedere, chi a proclamare la Parola, chi a cantare, chi ad accompagnare musicalmente.
Ascoltando il vangelo delle beatitudini forse pensiamo: io tutta questa beatitudine non la sento. Ma guardiamo nella nostra vita concreta. Una mamma mi diceva che si riprometteva ogni volta di pregare ma poi non lo faceva mai. Poi si è accorta che forse non pregava un’ora al giorno ma aveva cominciato a fare la croce a tavola con il marito e con i bimbi. E sempre d’accordo col marito la sera ora mettevano i bimbi a letto recitando un Padre nostro tutti insieme. Non è una cosa bellissima, dolcissima, un seme di vita bella per tutti, che quei bimbi ricorderanno per sempre? Ecco la povertà, semplicità, di Spirito non è già così un dono meraviglioso? E così Dio entra e certo con i suoi tempi, la sua sapienza, potrà crescere nei cuori…
Il marito è stato trattato male dal suocero ma per amore della moglie ha cercato di non rispondere, di conservare la pace in famiglia. Non sarà ancora l’estasi di san Francesco ma non è una cosa bella e un dono grande? In un momento di prova la moglie va in chiesa a piangere da Dio. E mentre si lamenta con Dio della sua lontananza si ricorda che una volta a messa il sacerdote aveva detto che nel testo originale, in greco, delle beatitudini forse si può comprendere ancora meglio che Dio è lui che ha chiamato l’afflitto tra le sue braccia di Padre per consolarlo. Non è, pur nel dolore, una cosa bella, che può consolare, incoraggiare, dare forza, speranza? E così per la mitezza, la misericordia, etc.. Il seme, coltivato, può crescere all’infinito ma non è da subito un dono incomparabile, che dà un altro sapore, un altro senso, alla vita? Questo è l’amore del Padre, che viene con delicatezza e ci fa assaporare le cose semplici e belle. Lo dico da prete che tra la gente vive: c’è tanta gente buona, che le beatitudini le conosce bene. E c’è gente contenta di tornare a godere di questa o quella beatitudine dimenticata o forse mai conosciuta. Non è una beatitudine questo Padre che ci ama, ci comprende ben al di là degli schemi, ci aiuta a crescere, se lo accogliamo, con delicatezza, con ogni discreto aiuto, ci dona ogni bene? Gesù stesso sperimenta questa beatitudine. “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Lc 10, 21).