Questo mio intervento può sembrare una questione marginale a fronte di situazioni drammatiche. Se, però, teniamo presente che il popolo di Dio radunato per celebrare l’eucaristia svolge, unito a Cristo, un servizio di rappresentanza vicaria per la Chiesa e per l’umanità, allora è ben collocato questo mio piccolo contributo che ha lo scopo di aiutare l’assemblea e i suoi animatori, a non dimenticare i drammi che si svolgono nel mondo, senza che ciò debba significare celebrare con animo afflitto, evitando tuttavia atteggiamenti e posture che mutuano molto da stili disinvolti e spensierati.
Visto poi che siamo in clima sinodale, ho notato che una singolare e ante litteram sinodalità si è verificata negli ultimi decenni nel settore del canto liturgico, nel segno però della mediocrità, fatte ovviamente le debite e diffuse eccezioni nel segno della competenza, del buon gusto, di un’autentica ars celebrandi acquisita da assemblee, gruppi corali e guide musicali.
Come sta oggi il canto nelle nostre liturgie?
Enzo Bianchi 25 anni fa scrisse in un suo libro intervista:
«Occorre che l’assemblea divenga veramente il soggetto liturgico, mentre a tutt’oggi essa è sostanzialmente passiva o impegnata solamente in canti che non nutrono la fede perché non sono altro che cantilene mondane…, si preferiscono testi e canti ritenuti attuali, ma che in realtà sono solo miseri, banali, stantii. È davvero linguaggio che si apre alla fede questa profusione di canti debitori di una mondanità che contraddice e depotenzia tutta la liturgia?» (Ricominciare, p. 46,49).
A distanza di tempo cosa è cambiato? Giuliano Zanchi fa notare che
«il desolante destino del canto e della musica nelle nostre liturgie è solo uno degli spiragli da cui si possono osservare le derive indotte dall’incuria a cui ci siamo assuefatti… Molta dell’emotività, che pure non manca in tante nostre liturgie, mi sembra più una sospetta euforia che vibra molto lontano dalle vere frequenze della misura evangelica… sottraendo alla messa della domenica la sua specifica attitudine a far sentire l’intera comunità attraversata dalla presenza dello Spirito» (Rimessi in viaggio 61- 62).
Ci viene indicato un primo criterio per qualificare un canto adeguato alla liturgia. Come la musica di Bach, che – a detta di Mendelssohn – ha il potere di metterti ovunque alla presenza di Dio, così un canto liturgico composto secondo giusti criteri dovrebbe favorire la preghiera e la stessa consapevolezza.
«Si può e si deve mantenere nella liturgia tutto ciò che è bello e porta all’adorazione dell’unico Dio, a poter dire: amo questi canti, sono mio cibo, perché mi elevano verso Colui che io celebro con i miei fratelli e sorelle in assemblea» (J. Gelineau). Può succedere tuttavia che, in certi casi, la musica nella liturgia assuma la funzione di «forza centrifuga» (Jungmann), laddove invece il centro è e deve essere il mistero pasquale e non lo sfizio di cantare e suonare ciò che piace.
Per realizzare la categoria del bello occorre avere riferimenti e prerogative personali tali da orientare l’ispirazione nel giusto modo. Verdi, pur non avendo una grande formazione liturgica, si trattasse della Messa da Requiem o di un momento religioso nel corso di un’opera lirica, sapeva attingere l’ispirazione da certi suoi «archetipi» che gli suggerivano melodia, armonia e ritmo adeguati, anche se debitori dello stile dell’epoca. Lo stesso vale per il «laico» J. Brahms che, nel comporre il mirabile Deutche Requiem, adeguò l’ispirazione e lo stile al genere del testo (una silloge di testi biblici) e alla circostanza: la morte della madre. In Mozart è evidente l’afflato religioso consapevole che l’ha guidato nel comporre il Requiem.
Il Concilio autorevolmente, nella costituzione sulla sacra liturgia, delinea i connotati che qualificano il canto e la musica per la liturgia.
«I romani Pontefici, a cominciare da san Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel culto divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia dando alla preghiera un’espressione più soave e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie» (Sacrosanctum Concilium 112).
La concezione della musica come munus ministeriale la sottrae ad un «addomesticamento intellettuale» tale da giustificarne un uso strumentalizzato (come puntualmente avviene in certe circostanze), e ne riconosce invece il «suo essere fenomeno linguistico a sé, come processo complesso di simbolizzazione alla fine irriducibile a mezzo e contenuto» (cf. M. Gallo ne Il dono e il compito del culto, p. 148). L’addomesticamento in genere prevede come effetto collaterale l’esclusione dell’Assemblea ridotta ad essere muta spettatrice.
Il Concilio, invece, promuove il canto popolare religioso in modo che, nelle stesse azioni liturgiche, «possano risuonare le voci dei fedeli» e non solo quelle delle schole; ai musicisti raccomanda di comporre «melodie che abbiano le caratteristiche della vera musica sacra, tali da poter essere cantate non solo dalle schole cantorum o dai piccoli gruppi, ma che favoriscano la partecipazione di tutta l’assemblea» (121); raccomanda poi che «i testi destinati al canto sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla sacra Scrittura e dalle fonti liturgiche» (118).
Certi canti con il loro intimismo sembrano piuttosto un’esortazione mutua all’interno del gruppo o una pietà che si compiace nella propria devozione. Il Concilio poi auspica che ci siano musicisti animati da spirito cristiano che comprendano di essere chiamati a coltivare la musica sacra e ad accrescere il suo patrimonio (121) e che si abbia cura di preparare i maestri destinati all’insegnamento della musica sacra (115). Molto è stato fatto al riguardo, anche se troppi si cimentano in composizioni liturgiche con esiti dubbi, sfornando canti con temi musicali piuttosto banali che sembrano poi, strada facendo, disperdersi e inaridirsi come rigagnoli. Il problema, nel realizzare vera musica sacra, è quindi nelle composizioni e nell’esecuzione.
Composizioni
Il criterio compositivo tecnico della musica liturgica non è dissimile dalle regole generali riguardanti la metrica, il contrappunto e l’armonia. Come un romanzo ben fatto ha una trama che poi si sviluppa in una successione ordinata di frasi legate logicamente a quella principale tale da formare un periodo, altrettanto il periodo musicale è fatto di varie frasi disposte metricamente in cui il tema proposto all’inizio viene man mano sviluppato e variato nella logica della tonalità scelta, restando comunque riconoscibile. Un esempio eloquente è la sinfonia in re minore K 440 di Mozart.
È importante che il tema, lo spunto melodico, non solo non sia banale, ma sia sintonizzato con il testo. Giusto per esemplificare, pensiamo ad Anima Christi di Frisina. La melodia si snoda nelle varie frasi e si sposa bene con le commoventi e coinvolgenti invocazioni ignaziane, creando spontaneamente un clima di preghiera. La stessa cosa avviene nel canto Salve, dolce Vergine dello stesso autore: il canto diventa spontaneamente preghiera che inizia sommessamente, per poi elevarsi in invocazione molto sentita fino al semplice e delicato Amen.
Si richiede, da parte di chi vuol comporre musica liturgica, una solida preparazione musicale che assicuri piena padronanza dei mezzi tecnici, in modo che melodia, armonia e ritmo siano gestiti con criteri artistici.
Canti gioiosi per celebrazioni vive
I liturgisti raccomandano che le celebrazioni siano gioiose, vivaci, coinvolgenti. Lo stesso vale per i canti, non specificando più di tanto. Il clima sereno, gioioso non è affidato però solo ad essi, ma dev’essere frutto di tante componenti: accoglienza, clima familiare, toni rasserenanti e quindi canti adeguati che hanno la funzione di coinvolgere e amalgamare in maniera tutta propria ed efficace l’Assemblea, a condizione che abbiano caratteristiche tali che facilitino il coinvolgimento di tutta la persona. Non quindi canti compassati, seriosi, lamentosi, bensì vivaci e ben ritmati con giusta misura e buon gusto.
L’esultanza, il giubilo dovrebbero scaturire dall’interno delle composizioni, caratterizzate da un tema bello, non banale, tale da avvolgere le parole così che la gioia sia frutto del suo valore musicale estetico, che si potrebbe riassumere con «bellezza»: parole e melodia ben amalgamati e ben eseguiti correttamente dalle voci e dagli strumenti che, col loro dispiegarsi, coinvolgono e pongono in stato di preghiera l’Assemblea.
Certo bisogna intendersi sul termine «estetico»: esso suggerisce immediatamente il criterio della bellezza, del decoro, delle cose fatte bene. Un canto liturgico è valido se risponde ai canoni estetici essenziali e se è in grado di favorire nei fedeli la consapevolezza di essere alla presenza del mistero pasquale, resi contemporanei del dono di amore di Cristo per tutti.
Von Balthasar nell’evidenziare alcuni punti fermi, riteneva consoni alla celebrazione eucaristica i sentimenti di coloro che si trovavano ai piedi della croce, intendendo proprio una certa consapevolezza di essere davanti all’Evento, il che non significa dover di conseguenza adottare atteggiamenti e canti tristi; nemmeno, però, la necessità di creare un clima falsamente gioioso che, col suo dispiegarsi di voci, strumenti e altro risulta alquanto frastornante, a detta anche di molti fedeli che si sono trovati coinvolti in certe liturgie che indulgevano sullo spettacolare.
Frastuono di chitarre, percussioni, e altri espedienti sembrano essere solo ad uso e consumo di chi ha voglia di esibire un entusiasmo di dubbio stampo a fronte del Mistero che si celebra e del dolore che fascia il mondo e che Cristo assume in sé.
Un osservatore laico resterebbe interdetto, penserebbe a una sorta di dilettantismo scadente. Qualche altro, di fronte a tanto entusiasmo, direbbe: questi «tengono la capa fresca». Un musicista direbbe: «Nelle attuali liturgie domenicali hanno libero campo espressioni musicali che non possono definirsi arte per mancanza di requisiti musicali basilari e, forse, pure liturgici, la cui funzione pastorale dopo decenni di pratica, è quantomeno discutibile» (Simone Baiocchi).
I sociologi fanno giustamente notare che questo gusto per la spettacolarità si inserisce in un processo di estetizzazione che ha pervaso la società e si insinua nelle pratiche religiose creando nuovi alfabeti simbolici che esaltano la creatività del singolo e dei gruppi (cf. L. Berzano, Senza più la domenica. Viaggio nella spiritualità secolarizzata). Si pensa di fare colpo e di creare comunità in quel modo: in realtà, ci sono altri luoghi e modi in una parrocchia per creare lo spirito comunitario e di famiglia, che si manifesta poi spontaneamente nella celebrazione che, a sua volta, rafforza quello spirito coinvolgendo anche gli occasionali.
I canti vivaci, che non devono mancare quando occorre, se eseguiti a dovere nel rispetto del solfeggio e del fraseggio e purificati da una certa connotazione sguaiata, risultano molto diversi dalla vulgata che li ha deformati. Tanti altri canti, compresi quelli di uso corrente, ma molto validi musicalmente, possiedono un’intrinseca esultanza e una grande capacità di coinvolgimento che «facilitano e accrescono la vibrazione dell’anima» (O. Casel), sempre a condizione che vengano eseguiti correttamente. Ed ecco il secondo aspetto che qualifica il canto liturgico.
L’esecuzione: il fraseggio
Il Concilio auspicava che fosse assicurata «ai musicisti, ai cantori e in primo luogo ai fanciulli anche una vera formazione liturgica» (Sacrosanctum Concilium 115). A parte le lodevoli e diffuse eccezioni, si nota in genere «un deficit di formazione musicale di base che favorisce un approccio dilettantistico e istintivo nella pratica musicale legata al culto» (L. Girardi, in Rivista di pastorale liturgica, 5/2021).
Si è troppo debitori di prassi canore apprese dall’ascolto diffuso di «supporti video e audio che si possono trovare in Internet, un vero mare magnum grazie alla facilità di pubblicazione, ma anche una strada spianata di prodotti di scarsa qualità» (e di scadente esecuzione). Resta sempre viva la domanda se «i linguaggi della preghiera liturgica, compreso quello musicale, debbano omologarsi ad altri tipi di linguaggio o, invece, debbano caratterizzarsi anche per elementi di discontinuità al fine di garantire lo scarto simbolico proprio della liturgia» (F. Trudu, in Rivista di pastorale liturgica, 5/2021).
I canti per la liturgia vanno tirati a lucido: ogni nota dovrebbe risaltare, evitando però una sillabazione pedestre e lenta; ogni frase musicale legata logicamente all’altra, accelerando o rallentando delicatamente in relazione alle parole e ai sentimenti di lode, giubilo, supplica che tali parole significano e suscitano.
Ciò non sembri pignoleria o perfezionismo, preferibili comunque a esecuzioni di basso profilo che riescono a deformare con effetti grotteschi sia le note che il ritmo. Il grande direttore d’orchestra Franco Ferrara riusciva mirabilmente a ricavare da ogni nota la giusta espressione: le sue esecuzioni accuratissime non erano mai banali. Non ha senso l’agitarsi di certi che, in chiesa, dirigono male banalità manco fossero sinfonie.
Si ha l’impressione che i canti, anche se rispondenti ai criteri di bellezza e di pertinenza liturgica, vengano come passati attraverso una sorta di trituratore che li scodella poi deformati nel fraseggio, nel solfeggio, nell’emissione delle note, assumendo quel quid che caratterizza in negativo i canti di chiesa. Il Concilio raccomandava «la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati, come pure negli altri istituti e scuole cattoliche» (Sacrosanctum Concilium 115).
Una pur minima preparazione e competenza liturgico-musicale di preti e laici permetterà loro di dare indicazioni utili ai volenterosi che comunque si prestano per assicurare il canto nelle celebrazioni liturgiche, mettendo bene a frutto il loro giovanilismo di attempati e volenterosi cinquantenni tornati ad imbracciare la chitarra e a smanettare sulla tastiera.
Concludo la mia analisi dando la parola a colui che era, a suo tempo, autorevole teologo e musicista:
«La grandezza della liturgia non sta nel fatto che essa offre un intrattenimento interessante, ma nel rendere tangibile il Totalmente Altro, che noi [da soli] non siamo capaci di evocare. Viene perché vuole. In altre parole, l’essenziale nella liturgia è il mistero, che è realizzato nella ritualità comune della Chiesa; tutto il resto lo sminuisce. Alcuni cercano di sperimentarlo secondo una moda vivace, e si trovano ingannati quando il mistero è trasformato nella distrazione, quando l’attore principale nella liturgia non è il Dio vivente ma il prete o l’animatore liturgico» (J. Ratzinger, dal Discorso alla Conferenza episcopale cilena, 13 luglio 1988).