- «E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”» (Mc 14,22).
- «Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo”» (Mt 26,26).
- «Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”» (Lc 22,19).
- «Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. (…) Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24,30-31a.35).
- «E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?» (1Cor 10,16b).
- «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”» (1Cor 11,23-24).
Per spiegare ai suoi discepoli cosa fare per fare memoria di lui – per ricordarlo nel modo in cui voleva che lo ricordassero, per far sì che la sua forza fosse ancora presente in mezzo a loro – Gesù usò un segno composto di una materia e di un’azione.
La materia era il pane, cibo quotidiano offerto dall’uomo e consacrato dalla promessa di Dio di esservi presente. Da venti secoli i cristiani lo considerano nutrimento spirituale imprescindibile, elaborano teologie per spiegare tale presenza divina, riconoscono eventi miracolosi ad esso connessi.
L’importanza data all’azione appare, al confronto, misera: eppure – come dissero i discepoli di Emmaus – Gesù non lo si riconosce nel pane. Lo si riconosce nel pane che viene spezzato. La prassi pastorale ha purtroppo messo in secondo piano il gesto, facendo prevalere un motivo pratico (la paura di far briciole).
Così il pane viene portato sull’altare già a pezzetti. Il risultato è quello che conosciamo: la “particola” non somiglia affatto a un pezzo di pane e il gesto della suddivisione per la condivisione è quasi nascosto dalla magia del dischetto bianco (pensiamo a tanta iconografia delle prime comunioni).
Per di più, nei mesi passati, durante il lockdown, è ricomparso un uso che speravamo di aver definitivamente abbandonato: eucarestie nelle quali, da una parte, stanno gli specialisti del sacro, che in presbitèri quasi vuoti si nutrono del pane consacrato; e, dall’altra, i fedeli – un tempo giù nella navata, ora al di là delle transenne elettroniche – che devono limitarsi a guardare e a condividere una comunione immaginata, “spirituale”.
Posso capire le buone intenzioni di chi, nella paura e nella confusione del momento, ha pensato che tutto ciò si potesse fare; ho condiviso però le posizioni di chi (anche tra i preti) ha pensato che sarebbe stato meglio che il digiuno fosse collettivo, e che su facebook o altrove potesse stare solo l’annuncio della Parola, mentre per rinnovare il banchetto eucaristico avremmo dovuto attendere di ritrovarci davvero in presenza.
C’è stato anche qualche celebrante che ha pensato di aggirare l’ostacolo, invitando i propri follower a seguire la messa munendosi del proprio pane che – anche se a distanza – avrebbe potuto essere considerato consacrato.
Una stravaganza? Forse, e come tale è stata giustamente sconfessata; ma va spiegato perché è una stravaganza.
A lungo si è infatti detto che sono le parole del celebrante a far sì che pane e vino diventino il corpo e il sangue di Cristo; in quest’ottica, ci si potrebbe chiedere se esiste davvero un limite di distanza oltre il quale tali parole divengono inefficaci. Non è però un problema di distanza: ciò che rende presente Gesù, nell’ultima Cena come nelle nostre messe domenicali, è il pane spezzato.
Se mangio il mio pane, non c’è nessuna condivisione che possa rendere Cristo presente. Lo diceva anche Paolo, rimproverando gli abitanti di Corinto: «Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco» (1Cor 11,20-21).
Per questo non può esserci eucarestia se non ci sono uomini e donne che mettono in comune il pane; quel pane che, benedetto e spezzato, viene distribuito come segno e strumento della presenza di Dio in mezzo a noi, punto di partenza e fondamento dell’attenzione e della cura reciproca. Non può esserci eucaristia se il mezzo che usiamo per metterci in contatto non permette lo spezzare del pane.
Ricominciamo allora a celebrare l’eucaristia spezzando il pane: ma spezziamolo davvero, non facciamolo giungere già porzionato sull’altare. E ridiamo dignità alla raccolta delle offerte, che non è un qualunque racimolare denaro per i bisogni materiali della Chiesa ma il costo del pane e del vino. Sono solo segni, certo: ma di segni è fatto il linguaggio umano.
Spezziamo realmente il pane! Ridiamo verità a tutti i segni liturgici, altrimenti rischiamo di dire delle cose nei testi eucologici e poi di fare altro.
Al di là dell’emergenza, ciò che conta è il Concilio. Non ci sono pareri personali.
Scrive così Presbyterorum Ordinis al n. 13: “Nel mistero del sacrificio eucaristico, in cui i sacerdoti svolgono la loro funzione principale, viene esercitata ininterrottamente l’opera della nostra redenzione e quindi se ne raccomanda caldamente la celebrazione quotidiana, la quale è sempre un atto di Cristo e della sua Chiesa, anche quando non è possibile che vi assistano i fedeli.”