L’11 gennaio don Daniele Gianotti è stato nominato vescovo della diocesi di Crema.
Riproponiamo la sua riflessione sul “tempo ordinario” nel quale siamo appena entrati.
Si sa che “tempo ordinario” traduce, o piuttosto parafrasa, l’espressione tempus per annum, ossia “tempo che attraversa l’anno”, tempo “durante l’anno”: formulazione che il latino liturgico utilizza per indicare le settimane dell’anno liturgico che non appartengono ai grandi cicli di Quaresima-Pasqua e Avvento-Natale. È il tempo delle «trentatré o trentaquattro settimane durante il corso dell’anno, le quali sono destinate non a celebrare un particolare aspetto del mistero di Cristo, ma nelle quali tale mistero viene piuttosto venerato nella sua globalità, specialmente nelle domeniche. Questo periodo si chiama tempo per annum».[1]
Viene suggerito, dunque, che, nel tempo ordinario, ci si orienti al “mistero di Cristo” nella sua globalità, e senza dubbio – poiché questa è una prospettiva importante per la liturgia – non perdendo di vista che Gesù Cristo «è lo stesso ieri e oggi e per sempre» (Eb 13,8). Al tempo stesso, è difficile contemplare il mistero di Cristo nella sua globalità, se non partendo da qualche prospettiva concreta: e, poiché viviamo nella storia, sarebbe fuorviante pensare a uno sguardo su Cristo cha prescinda del tutto dalle contingenze storiche.
Quale potrebbe essere, dunque, uno “sguardo globale” sul mistero di Cristo, per il tempo ordinario in questo momento storico preciso?
La ripresa post-pasquale del tempo ordinario corrisponde in buona misura, almeno per noi in Italia, con la conclusione dell’anno scolastico e l’inizio del periodo estivo. Tutto fa pensare che assisteremo ancora, nei mesi che abbiamo davanti, alle ondate immigratorie che vengono soprattutto dalle coste nord-africane.
L’oggettiva gravità di questa situazione, peraltro, attira il nostro sguardo al punto da farci quasi del tutto ignorare vicende che avvengono a migliaia di chilometri da noi, a cominciare dal dramma dei boat people del Sud-est asiatico, come i Rohingya birmani, o quanti fuggono dalla miseria del Bangladesh: migliaia di persone vaganti su barche che vanno alla deriva, e sono respinti da tutti i paesi le cui coste si affacciano sul mare delle Andamane. E su quel mare, e sulle sue spiagge meravigliose qualcuno, magari, andrà per turismo, sapendo poco o nulla di questi drammi, che vengono il più possibile sottaciuti proprio anche per non mettere in crisi il turismo: e questo è, paradossalmente, l’altro versante della questione, perché il tempo estivo moltiplica le occasioni di incontro con persone di altre culture, lingue, popoli e nazioni, ma spesso lo fa in condizioni di più o meno consapevole e voluta censura.
L’incontro e il confronto con la condizione di straniero, in varie modalità, è dunque il kairós rispetto al quale si potrebbe declinare quella contemplazione globale del mistero di Cristo alla quale il tempo ordinario ci invita: non è l’unica prospettiva possibile, evidentemente (né pretende di essere particolarmente originale), ma forse merita di essere tenuta in conto, nei mesi che abbiamo davanti.
Gesù straniero
I drammi dei fenomeni migratori, con tutte le problematiche connesse, pongono sfide enormi sia alla coscienza dei credenti sia, come ben sappiamo, alla società, alla politica, alle istituzioni nazionali e internazionali. Un cristiano non può non lasciarsi interpellare dalla parola di Gesù: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25,35.38.43-44); parola che non offre soluzioni pratiche a tutti i problemi, ma che neppure, col pretesto dell’oggettiva complessità dei problemi, può essere dimenticata.
In ogni caso, vorrei qui suggerire di intendere questa parola anche come espressione sintetica del mistero di Gesù: perché egli si è effettivamente presentato come lo “straniero” che fa esperienza sia del rifiuto che dell’accoglienza; e lo ha sperimentato tanto nella sua concreta vicenda storica (cf. rispettivamente Lc 9,53 e 10,38), quanto nell’insieme del suo “mistero” (cf. Gv 1,11-12).
Gesù non fu uno straniero in senso stretto: merita di essere ricordato, tuttavia, il tema matteano del soggiorno in Egitto (cf. Mt 2,13-15), anche perché è chiaro che l’evangelista vuole accostare la vicenda di Gesù a quella di Israele e alla sua memoria di popolo “forestiero – rifugiato, potremmo dire – in terra d’Egitto” (cf. Dt 26,5).
La ricerca storica, in ogni caso, oggi sottolinea molto l’inserimento di Gesù nel suo mondo, il suo essere “ebreo di Galilea”; d’altra parte, si osserva che egli fu anche un “ebreo marginale”,[2] privo di rilievo nella letteratura giudaica e pagana per tutto il secolo successivo alla sua vita, esterno ai circoli dei grandi maestri di Israele del suo tempo e di fatto messo ai margini e condannato a morte come criminale. Alcuni tratti dei vangeli ce lo presentano come un “senza fissa dimora”, dipendente dall’ospitalità di amici, discepoli, ospiti occasionali (cf. Mc 1,29; Lc 7,36; Gv 11,1s), continuamente in cammino da un villaggio all’altro – un aspetto, questo del cammino, che poi è stato riletto in chiave teologica, in vari modi, da tutti gli evangelisti.
Ma anche la condizione di “stranierità”[3] è oggetto di rielaborazione teologica: in altre parole, diventa una chiave di lettura globale del mistero di Gesù. Lo si vede in modo particolare nel quarto vangelo, che orchestra il tema in varie direzioni, tra le quali prevale quella di una condizione di estraneità che, in buona misura, dipende da Gesù stesso: è Gesù, insomma, che si presenta come straniero, che viene secondo questa “forma”, e proprio per questo è respinto mentre, paradossalmente, proprio questa condizione dovrebbe essere la via d’accesso per “andare a lui”, ossia per credere in lui.
Il vangelo di Giovanni torna varie volte, ad esempio, sulla questione dell’“origine” di Gesù: da dove viene? I suoi avversari sono convinti di avere in mano la risposta, di saperlo (cf. 6,41-43; 7,25-29 ecc.), ma proprio questa certezza è fuorviante: sorprendentemente, Gesù è respinto in primo luogo perché la sua origine è “troppo” conosciuta, perché di lui si sa “tutto”… (cf. già Mc 6,1-6 e par.). Viceversa, tocca proprio a Gesù presentarsi come straniero, per rompere questa convinzione superficiale e orientare lo sguardo verso un’altra origine (dal Padre!), che può essere riconosciuta solo nella fede. Paradossalmente, solo accettando la “stranierità” di Gesù, e la conflittualità che essa instaura,[4] è veramente possibile accoglierlo.
È interessante – e vale la pena di ricordarselo quando ci si trova in un paese di cui non si conosce la lingua, o quando si incontrano persone che arrivano da noi prive di adeguate “competenze linguistiche” – anche quell’estraneità di Gesù che si manifesta nel suo modo di parlare.
Il vangelo di Giovanni gioca continuamente sui fraintendimenti tra Gesù e i suoi interlocutori; si tratta, è chiaro, di fraintendimenti teologici, ma che funzionano allo stesso modo dei fraintendimenti linguistici e partono anzi proprio da questi ultimi: Gesù dice una cosa, e l’interlocutore ne capisce un’altra; o, viceversa, l’interlocutore parla con Gesù, e questi ne riprende le espressioni, ma conferendo loro un altro senso, in un continuo gioco di equivoci. Così, ad esempio, Nicodemo riconosce che Gesù è un maestro «venuto da Dio» (cf. Gv 3,2), ma tutto il dialogo mostra che Gesù e lui intendono questa espressione in modo molto diverso.
Anche in questo caso, il quarto vangelo porta a vedere qui una scelta precisa, da parte di Gesù: è lui che scombina le cose, è lui che “cambia la lingua” portandola in direzioni impreviste, quasi a voler creare un’estraneità che mette in questione la presunzione di conoscenza. Del resto – e lo si vede bene nei discorsi d’addio dei cc. 13-16 –, l’eccessiva familiarità con Gesù può essere ingannevole anche per i discepoli, quando non nasce dalla fede e non si lascia continuamente rinnovare dallo Spirito che, solo, conduce alla pienezza della verità.
(Sotto questo profilo, può essere fuorviante anche l’aggettivo “ordinario”, quello appunto del “tempo ordinario”: e il rendersi straniero di Gesù costituisce un antidoto al riguardo, perché mette in guardia dal rischio, che corre anche e forse soprattutto il credente, di pensare di aver ormai inquadrato Gesù, e di trattarlo precisamente come una realtà “ordinaria”).
Per il quarto vangelo, Gesù è straniero perché il suo mistero non si può spiegare a partire “da questo mondo”: egli viene da altrove, viene dal Padre e a lui torna (cf. 13,3); pretendere di dar conto di lui a partire da criteri e valutazioni umane sarebbe completamente fuorviante. Questa condizione, però, è anche un invito alla ricerca: perché, come la sapienza di Dio è nascosta tra gli uomini – presente, ma introvabile (cf. Gb 28) –, così Gesù è presente tra i suoi, ma appunto da straniero; d’altra parte, la sapienza si nasconde anche perché l’uomo la desideri e si metta alla sua ricerca.
Si tratta di una ricerca che, nel caso di Gesù, può essere ambigua, e lo Giovanni sottolinea spesso, fin dall’inizio del vangelo (cf. 1,38; e poi ad es. 6,26; 7,34): ma per il discepolo, che si lascia guidare dallo Spirito – il dono che Gesù fa nel momento stesso in cui si rende definitivamente straniero al mondo, perché va al Padre (cf. 16,10) – è una ricerca che raggiunge la meta, in modo che Gesù non sia più un estraneo, come è per il “mondo”.
L’incontro sorprendente con gli stranieri
Il quarto vangelo, insomma, viene a dire che le dinamiche intricate del confronto con lo straniero offrono una via d’accesso fondamentale al mistero di Gesù. La “stranierità” è perturbante, è difficile da accettare: e proprio per questo dischiude una strada per andare a Gesù.
Del resto, la memoria cristiana intorno a Gesù attesta anche il versante complementare a quello sottolineato dal quarto evangelista: ossia gli incontri di Gesù con gli stranieri. Sono pochi, perché è ben noto che Gesù non è praticamente mai uscito dai confini di Israele, e ha inteso la sua missione come destinata prioritariamente ai «figli» (cf. Mc 7,27), ossia «alle pecore perdute della casa d’Israele» (cf. Mt 10,5-6; 15,24); e tuttavia meritano attenzione, anche se qui richiamerò solo un aspetto, ossia la sorpresa che questi incontri suscitano in Gesù stesso.
È la sorpresa di fronte a una fede inaspettata, sia nel centurione (cf. Mt 10,10 e par.), sia nella donna cananea che prega per la guarigione della figlia (cf. Mt 15,28 e par.); sorpresa, di segno diverso, ma pure rilevante, di fronte alla domanda, da parte di «alcuni greci», di vedere Gesù (cf. Gv 12,20-23): al punto che Gesù legge questa richiesta come il segno che l’«ora», preannunciata sin dall’inizio della narrazione (cf. 2,4), è ormai arrivata.
Possiamo dire, credo, che Gesù si è lasciato destabilizzare dall’incontro con gli stranieri: la sorpresa della loro fede dischiude orizzonti non ancora esplicitamente visibili, ma ormai iscritti definitivamente nella promessa irrevocabile del Padre. Anche sotto questo profilo, pertanto, la memoria di Gesù e la contemplazione del suo mistero invitano il credente a non temere lo straniero.
L’ospitalità, come ormai da tempo si va dicendo, può e deve essere sempre più nota caratteristica di una Chiesa che si lascia veramente informare dal suo Signore, mediante lo Spirito. Non soltanto perché «alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,2); ma perché essa è il “sacramento” dell’ospitalità di Dio per l’uomo, la traccia visibile del mistero di Colui che, trattato da straniero e respinto fino all’emarginazione più brutale, si è fatto fratello e amico (cf. Gv 15,12-15; 20,17).
[1] Congregazione dei riti, Norme generali per l’ordinamento dell’Anno liturgico e del Calendario romano (21 marzo 1969), n. 43.
[2] Per la prima espressione, cf. Barbaglio G., Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica, EDB, Bologna 2002, 2012; per l’altra, Meier J.P., Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, 4 v., Queriniana, Brescia 2001-2009.
[3] È la xeniteia, la condizione di xenos, appunto il “forestiero” di Mt 25,35: “estraneità” sarebbe una traduzione più corretta, ma più ambigua. Lasceremo da parte, qui, tutto l’importante sviluppo del tema della xeniteia come condizione del cristiano nel mondo, tema particolarmente caro al monachesimo.
[4] «Il conflitto inizia all’esistenza dell’altro», osserva M. de Certau, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, Ed. Qiqajon, Magnano (VC) 2007, 52.
Don Daniele Gianotti è della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, finora docente di teologia presso la Facoltà teologica dell’Emilia Romagna e vicario episcopale per la cultura.
Ordinato sacerdote il 19 giugno 1982 a Calerno, suo paese natale, è stato assistente ecclesiastico AGESCI, direttore dell’Ufficio liturgico diocesano e vicario episcopale per la pastorale.
È tra gli ideatori del progetto “Hospice”, attivo dal 2001, casa ospedaliera che si occupa dell’assistenza dei malati terminali di tumore nella provincia di Reggio Emilia, e centro culturale e di riflessione sul tema della morte nella vita del cristiano.
SettimanaNews ha riportato la sua prolusione inaugurale dell’anno accademico 2016-17 allo Studio teologico interdiocesano di Reggio Emilia (21/10/16) sull’eredità spirituale di Charles de Foucauld.