La liturgia del Venerdì Santo si muove in continuità e in stretta connessione con quella del Giovedì. In estrema sintesi, potremmo dire che la croce contiene e materializza tutto il realismo e la ricchezza di significato che caratterizza la lavanda dei piedi.
È il punto estremo a cui giunge l’abbassarsi di Gesù, il suo “consegnarsi” nel dono di sé e nel servizio e, infine, l’ultima e massima dimostrazione del suo amore, che è poi la vera maniera di sconfiggere l’odio che si avventa su di lui.
L’itinerario è più articolato di quello del Giovedì, e il percorso è cadenzato in sette tappe: un preludio di silenzio, la profezia del servo sofferente che guarisce le nostre piaghe, il mistero del suo sacerdozio esercitato nel suo offrirsi, il racconto della passione mediante la quale Gesù “è innalzato” sul mondo, la preghiera universale che traduce il risultato di una morte che “attira tutti a lui”, l’adorazione della croce e, infine, la comunione che, nel sacramento, unisce al suo sacrificio il nostro, e ci chiede di essere pronti a seguire il suo esempio, che è poi la disponibilità a “lavarci i piedi” gli uni agli altri.
Il titolo dato a questa riflessione vuole riassumere tutto questo cammino sia nel punto di arrivo che nel modo per arrivarci. Su questo, due osservazioni cruciali vanno tenute presenti, marcate da due verbi, uno all’attivo e uno al passivo. Per il primo, è Gesù che, di sua iniziativa, si abbassa e si china a lavare i piedi dei discepoli, come si era chinato ai piedi dell’adultera per ricordare a tutti che siamo “terra” (cf.. Gv 8,6); per il secondo, si precisa che il risultato paradossale di questo abbassarsi è una elevazione, che però Gesù non si dà da sé, ma che gli è attribuita dal Padre: «sarà innalzato», è detto, ed è la realizzazione del paradosso per cui «chi si umilierà sarà esaltato», detto da chi proclama come regola di vita il “servire” (cf. Mt 23,11).
Le sette tappe di questo tragitto dovrebbero essere esaminate in dettaglio, ed è bene che ciascuno si prepari alla celebrazione sostando sul significato di ciascuna. Qui conta mostrare la loro concatenazione in una sequenza di emozioni e sentimenti, peraltro facili da rivivere e, insieme, di riflessioni e convinzioni forse un po’ più difficili da conquistare, ma decisive per comprendere, al di là di una commozione istintiva davanti a una morte così assurda e crudele, il cuore stesso della nostra fede in Gesù: la sua morte che ci salva.
1. Tanto per cominciare, a differenza di tutte le altre volte, quando l’assemblea si forma e si raduna nel canto che unisce i cuori, qui la partenza è il silenzio! Ottima premessa, che serve almeno a capire che ci prepariamo a rivivere una storia molto difficile da comprendere e da accettare.
È il silenzio che ci rende muti davanti al male, davanti alla morte, soprattutto quando è quella di un “giusto”; è lo stordimento che si prova di fronte all’esibizione della brutalità, della derisione, della cattiveria pura e gratuita, quella che riduce un uomo a uno straccio da buttare.
2. La prima lettura (Is 52,13–53,12) offre materiale abbondante per visualizzare la passione di Gesù. Il testo non ha bisogno di commenti, e secoli di arte cristiana ci hanno abituato a vedere nel condannato l’icona della spietatezza e della malvagità umana, e insieme la sua pazienza.
Sarà bene, comunque, guardare il volto di questo “servo” riflesso in tutti i volti degli innocenti oppressi e delle vittime brutalizzate di cui sono spesso pieni i nostri telegiornali, perché – come scrive la mistica Giuliana di Norwich – «Gesù soffrì per i peccati di tutti gli uomini che saranno salvati. Ed egli vide e soffrì in sé, per simpatia e amore, il dolore, la desolazione e l’angoscia di ogni uomo» (Rivelazioni 20).
Al di là, però, di una naturale commozione, occorre cogliere anche il senso del “mistero”, vedere cioè in che modo Dio stesso agisce e si rivela in questa passione. È la convinzione da cui parte il profeta: «Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, sarà esaltato e innalzato grandemente».
Con questa affermazione di partenza, tutta la pagina di Isaia può essere accolta non solo con commiserazione partecipe, ma anche con la gratitudine legata alla speranza che sprizza a ripetizione da quelle parole, riassunta nella frase: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Per le sue piaghe noi siamo stati guariti».
Rimane l’enigma del come sia possibile che le nostre colpe diventino le sue, ma è pur vero che «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2Cor 5,21).
E ancor più misterioso rimane che, da una condanna e da una cattiveria assurda, scaturisca una fonte di guarigione. Ma è con queste certezze in cuore che noi celebriamo nella gratitudine la passione del Signore.
3. La seconda lettura ci fa fare un altro passo in avanti, perché Gesù ha “imparato” qualche cosa da ciò che ha sofferto: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Gesù ci ha salvato facendosi “solidale” con noi. Questo è ciò che dovrebbe convincerci e commuoverci di più: non è stata una salvezza gettata addosso da un robot impermeabile alla sofferenza e alla fragilità, perché il Figlio di Dio si è “abbassato” fino a condividere in tutto la polvere e il fango di cui siamo fatti, fino a ridursi a un «un coccio da gettare», come recita il Sal 30,13 che commenta la lettura.
4. Leggiamo oggi la Passione secondo Giovanni, già attraversata più delle altre tre dalla luce della risurrezione. Il dolore non è eliminato, ma è trafitto e trasfigurato dalla speranza nei suoi frutti. Non è possibile entrare nei dettagli di un testo così lungo e ricco di suggestioni. Mi basta segnalare alcuni passaggi che ritengo rilevanti: il dialogo con Pilato su quale specie di “regno” Gesù sia venuto ad annunciare e a mostrare; la nascita sotto la croce di una nuova comunità nel reciproco affidarsi di Maria a Giovanni; una nuova “famiglia”, la Chiesa, generata dall’acqua e nutrita dal sangue che esce dal fianco ferito di Gesù; e, infine, la consegna del suo spirito, cioè della sua vita, nel momento stesso in cui Gesù muore, preludio della grande Pentecoste di cui parlerà Luca in At 2,1-13 che porterà lo Spirito a soffiare su tutte le genti.
5. «Quando sarò innalzato attirerò tutti a me» aveva detto Gesù riferendosi alla sua morte (Gv 12,32-33). E ora la preghiera della comunità si dilata ad abbracciare nello spirito questo “tutti”.
Agostino scrive che quando preghiamo è lo stesso Gesù che «prega per noi, prega in noi, è pregato da noi», perché capo e membra sono un corpo solo (Sul Salmo 85,1).
Usciamo dal circolo chiuso di una preghiera che si restringe in modo angusto su noi stessi, e diamo alla nostra orazione il respiro del mondo e della storia. Lo spazio del nostro pregare è quello stesso marcato dall’incontro tra i due pali della croce, che indicano l’orizzonte che include «l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità dell’amore di Cristo» (cf. Ef 3,18), perché la croce è l’asse su cui ruota il mondo: Crux stat, dum volvitur orbis (La croce sta, mentre il mondo gira).
6. L’adorazione della croce è il momento più tipicamente “rituale”, che dà corpo nel gesto a quanto abbiamo compreso e confessato nelle parole.
Ci prostriamo, riconoscenti e stupiti per la gloria che si è rivelata in una morte infamante e, insieme, ci chiniamo, come lo stesso Gesù, pronti a servire secondo il suo esempio.
Il canto antico dei Lamenti del Signore, (Popolo mio, che male ti ho fatto?), esprime il pentimento per le nostre infedeltà e insieme la gratitudine perché queste non hanno impedito al «Dio santo, Dio forte, Dio immortale» di continuare ad avere pietà di noi.
7. La comunione eucaristica arriva a ricordarci che colui del quale abbiamo ripercorso le tappe della morte, è ora risorto e vivo, pronto a distruggere la nostra morte per farci regnare con lui nella vita.