Il Levitico
Può essere utile riportare la struttura del libro del Levitico e alcuni suoi elementi teologici proposti da uno specialista come G. Deiana. Alla convocazione di Mosè e il messaggio per il popolo (1,1-2) seguono le Istruzioni per l’olocausto, l’oblazione e il sacrificio di comunione (1,3–3,17), Il sacrificio per il peccato e di riparazione (4–5), le Istruzioni per i sacerdoti (6–7), l’Istituzione del sacerdozio e l’inaugurazione del culto (8–10), le Norme sul puro e sull’impuro (11–15), il Giorno del kippûr (16), Il sangue espia in quanto è vita (17), Codice di santità: norme per i laici (18–20), Codice di santità: la tutela della santità dei sacerdoti (21–22), Il calendario delle feste (23), Il candelabro e i pani della proposizione (24), l’Anno sabbatico e il giubileo (25), Benedizioni e maledizioni (26) Appendice: come adempiere i voti (27).
Puri, per una Presenza
Il tema di fondo caro agli estensori di Levitico è la ferma convinzione della presenza di YHWH in mezzo al suo popolo. Questo pilastro e filo conduttore della vita spirituale, teologica e sociale del popolo di Israele fornisce il supporto di fondamento ai temi centrali presenti in Levitico, cioè quelli dei sacrifici, del sacerdozio, del puro e dell’impuro e del tema della santità. Anche il tema dell’alleanza stipulata in Es 24,3-11 è ben presente. Dio ha deciso di abitare in una tenda in mezzo al suo popolo: questo era lo scopo del suo piano escogitato per far uscire il popolo dalla schiavitù dell’Egitto. Il popolo deve, però, essere ben disposto ad accogliere questa presenza.
Il libro del «Levitico, per essere compreso, deve essere considerato uno sviluppo naturale della teologia della presenza di Dio in mezzo al suo popolo delineata nell’ultima parte dell’Esodo» (Deiana).
Sacrifici per rimanere in comunione con il Dio della liberazione e norme di purità vanno intese come strumenti con cui preservare l’unione con Dio, il totalmente Santo, l’Altro per eccellenza.
Le autorità religiose, nel tempo, hanno trasformato alcune norme alimentari e di igiene “laiche”, elaborate dall’ambiente culturale dell’Antico Vicino Oriente, in un elemento connesso con la santità.
L’astinenza dalla carne suina e altre norme si giustificano come volontà di Israele, nel postesilio, di accentuare la propria identità attraverso pratiche esterne di cui, senza dubbio, il cibo era una delle più appariscenti. Così pure altre norme di “buona educazione” si tramutano in espressione di comportamenti corretti da osservare nei confronti della divinità.
Vista la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, vanno evitati i comportamenti che possono essere in contrasto con la purità divina.
Il complesso letterario Lv 11–15 tratta delle norme sugli animali puri e impuri (c. 11), sulla purificazione della donna dopo il parto (c. 12), circa le malattie della pelle che provocano impurità (c. 13), la purificazione delle malattie della pelle e dalle contaminazioni della casa (c. 14) e, infine, le norme riguardanti le emissioni corporali (c. 15). Lv 13–14 di fatto trattano dell’impurità provocata dalla lebbra.
Lebbra!
Al solo sentirla nominare, questa malattia della pelle e dei nervi, che porta alla necrotizzazione progressiva degli arti periferici non più irrorati dal sangue, nodosità dure alla cute, insensibilità cutanee, distruzione delle ossa e delle parti molli, con dolori e prurito acuti fa paura ancor oggi. Si può dunque comprender bene come i popoli dell’antichità, Israele compreso, cercassero di promuovere l’igiene comunitaria per preservarla da epidemie incontrollabili che avrebbero decimato il popolo.
Il brano del Levitico presenta un caso generico di malattia della pelle (gonfiore, pustola, macchia bianca) che possa far sospettare di lebbra.
L’agente demandato al controllo è il sacerdote, custode della purità rituale del popolo e quindi della sua capacità giuridica di poter accedere alla presenza del Signore in mezzo al suo popolo.
Dopo due attente osservazioni prolungate, intervallate da due settimane di isolamento del soggetto, se la malattia della pelle non si aggrava e si sbianca, il sacerdote “lo dichiara puro/ṭihărô” (v. 6). Se, invece la pustola si è allargata, si procede a un altro esame più accurato e alla fine “il sacerdote lo dichiarerà impuro: è lebbra/ṭimme’ô hakkōhēn ṣār‘at hiw’”.
Solo
In assenza di medicinali efficaci, all’uomo disgraziato colpito da lebbra non rimane altra scelta che essere escluso dalla normale vita sociale e religiosa che si svolge nell’accampamento. Dovrà stracciarsi le vesti, andare a capo scoperto e con la bocca velata (lett.: “coprirà fino ai baffi”) e nel suo vagabondare dovrà gridare a tutti la sua vergogna “Impuro, impuro/ṭāmē’ ṭāmē’”.
Sparisce persino la sua identità personale, espressa col pronome “io/’ānî”. Il soggetto è completamente spersonalizzato, identificato totalmente con la conseguenza della sua malattia. Questa lo isola e lo emargina a livello sociale e religioso. Pur avendo ancora i propri parenti nell’accampamento, egli va incontro alla morte sociale e all’emarginazione religiosa.
Ai lebbrosi era impossibile partecipare ai riti, alle preghiere e ai sacrifici che mettevano in comunione con YHWH. Su di loro non pesava solo la conseguenza religiosa della malattia, che combinava tragicamente impurità rituale e di esclusione sociale. I lebbrosi erano gravati anche dalla pesante e ingiusta condanna teologica. Erano considerati dei puniti da Dio: la loro malattia ributtante era giudicata la conseguenza diretta di una qualche loro colpa nei confronti di YHWH.
Si pensi all’esempio del re Ozia (781-740 a.C., chiamato Azaria in 2Re 15,1-7)), di cui si narra in 2Cr 26,16-21 la sua punizione divina con la lebbra per aver osato bruciare l’incenso al posto del sacerdote. Il re visse il resto della sua vita in isolamento (2Cr 26,21, cf. 2Re 1,5) e dovette abdicare a favore del figlio Iotam. L’esclusione e l’isolamento erano quindi una pratica fondata su una prassi sociale molto antica in Israele.
Fuori
Anche se in Lv 13 non si accenna esplicitamente all’aspetto punitivo della lebbra, il v. 46 fa percepire tutta l’angoscia che poteva sentire il malato di lebbra, abituato alla custodia protettiva della sua famiglia e del suo clan. Viene ripetuta due volte la sua condizione di impurità rituale (yiṭmā’ ṭāmē’), che lo condanna alla solitudine (“solo/bādād”) e all’esclusione e all’emarginazione dalla comunità (“fuori/miḥûṣ”).
È una custodia escludente, non inclusiva. È l’abbandono dell’uomo al suo destino di solitudine, lasciando solo che la malattia faccia il suo corso, in un senso o nell’altro. Una sistema protettivo che si difende escludendo dallo spazio esistenziale, per finire poi nell’esclusione da parte della mente e del cuore. Una tragica “globalizzazione dell’indifferenza”, comprensibile a grandi linee a quel tempo, insopportabile e inaccettabile ai giorni nostri.
“Se l’è andata a cercare”, disse un noto politico “cattolico” alla prima comparsa dei malati di aids. Uno stigma che oggi marchia a fuoco altre situazioni e popolazioni, toccate non dalla malattia ma da una tragica necessità di fuga dai propri paesi e che li condanna alla classificazione – intesa negativamente – di “immigrato illegale”, “richiedente asilo” ecc.
Le comunità cristiane si sono mostrate in generale molto generose nell’accoglienza di queste persone disperate. Il vangelo ha sostenuto e aperto il loro cuore e lo farà anche in futuro, facendo lievitare un tessuto sociale tendente a un progressivo “protezionismo umano” escludente, che è ad un passo dallo scivolare nel disprezzo razzistico, ammantato da un ipocrita e falso “prima gli italiani”, difendiamo “la nostra razza”. First e dopo… meglio senza.
Se vuoi
Alla luce delle prescrizioni bibliche sulla lebbra presenti nell’Antico Testamento – certamente dettagliate con maggior precisione dalle prescrizioni degli scribi, dei farisei e della classe sacerdotale dei sadducei del tempo di Gesù – si può percepire l’enorme salto del fosso compiuto da Gesù raccontato nel vangelo di questa domenica.
Il lebbroso osa avvicinarsi a Gesù (erchetai pros), in un drammatico presente storico impiegato da Marco. Lo fa senza gridare ossessivamente la sua impurità per invitare eventualmente la gente ad allontanarsi.
Probabilmente ha sentito parlare di quel rabbi di Nazaret che gira predicando e facendo del bene, vincendo anche i demoni (cf. v. 39). Non ha niente di perdere. Prende fra i denti la propria vita e tenta il tutto per tutto. Supplica e si inginocchia con riverenza di fronte a colui che percepisce come un vero uomo di Dio. Si appella alla volontà “sanante/purificatrice ritualmente/katharisai” di Gesù, non dubitando minimamente della sua capacità.
All’uomo colpito dalla lebbra pesa enormemente la propria impurità rituale, più che la propria malattia fisica (non si usano i verbi di guarigione hygiainō, therapeuō, iaomai, e neppure però anche l’intenso verbo polisemico “sōizō/salvare, risanare, guarire”).
Al lebbroso preme poter tornare nella comunità cultuale, poter pregare insieme agli altri, tornare a sentire YHWH vicino alla sua vita. Senza YHWH si sente un disperato. È davvero «un morto vivente, dead man walking». Sta cercando il volto di Dio, ne sente un bisogno enorme, irrefrenabile. «L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio? Le lacrime sono il mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre “Dov’è il tuo Dio?”… Dirò a Dio: “Mia roccia! Perché mi hai dimenticato? Perché triste me ne vado, oppresso dal nemico?… Verrò all’altare di Dio, a Dio, mia gioiosa esultanza. A te canterò sulla cetra, Dio, Dio mio”» (Sal 42,2-3.10; 43,4).
Commosso, toccò
A Gesù “fremono le viscere materne/splanchnistheis)” (v. 41). Egli nota l’uomo, si ferma, si lascia colpire dall’umanità tragicamente sola ed emarginata. L’uomo malato nel corpo e considerato impuro nell’anima lo muove a com-passione, a com-patire. La madre cura e custodisce in modo particolare chi, fra suoi figli, è più debole e nel bisogno.
Altre due volte l’evangelista Marco ricorderà la com-passione di Gesù. La prima, di fronte alla folla numerosa che lo aveva preceduto nel luogo deserto raggiunto con la barca per far riposare i Dodici. Gesù si commuove perché vede le persone come pecore senza pastore, senza un insegnamento autorevole. Con loro condividerà il suo insegnamento e il pane in terra di Israele (cf. Mc 6,34).
La seconda, sempre nei confronti della folla di persone, che da tre giorni “rimangono in continuità con lui/prosmenousin moi” e non hanno da mangiare. Con loro condividerà il pane anche in terra pagana (cf. Mc 8,2).
Gesù, “stesa la sua mano/ekteinas tēn cheiran autou”, “lo toccò/hēpsato”. Il fosso è volutamente saltato, l’emarginazione superata, l’esclusione vinta in radice. Tu sei parte di me, sei l’altro me stesso. Io ti voglio custodire facendoti entrare nel mio cuore, senza protezioni. Non ho paura che le leggi religiose mi condannino all’impurità contratta, all’esclusione ricercata, all’emarginazione voluta. Tu sei caro ai miei occhi, voglio fare il cammino con te, non senza di te. La mia strada è la tua, il mio Dio il tuo. Incontra Dio in me!
Sii purificato!
Paradosso: Gesù non diventa impuro, ma sana il lebbroso! «Rather than Jesus becoming unclean, the leper became clean» (Rogers Jr – Rogers III). Egli è la piena realizzazione della missione del misterioso Servo di YHWH: «Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle malattie» (Mt 8,17b; cf. Is 53,4).
Gesù assicura anche verbalmente il lebbroso della sua volontà di purificarlo, e lo fa con un imperioso imperativo aoristo passivo: “Sii purificato!”. Sia compiuta in te questa e non altra azione (qualità generale dell’aoristo), inizi a compiersi da questo preciso momento (se lo si considera un aoristo ingressivo).
Con la forma passiva del verbo forse si rimanda alla fonte della vita, il Padre (passivum divinum): guarire un lebbroso equivaleva, per l’ebraismo del tempo di Gesù, a far risorgere un morto. Un’azione che solo la potenza di YHWH poteva compiere.
La lebbra, quasi impersonificata, se ne andò e lui fu purificato immediatamente, al solo comando di Gesù.
Mòstrati
Gesù ammonisce severamente il lebbroso guarito a non divulgare il fatto, per non accrescere nella gente una concezione incompleta della sua figura e del suo messianismo. È un rimando al cosiddetto “segreto messianico”. Prima della croce, infatti, non si può comprendere in pienezza l’agire messianico di Gesù, che non è di tipo miracolistico, ma un esercizio continuo del dono generoso di sé, fino alla morte.
Al contrario, Gesù si mostra rispettoso della legislazione mosaica e invia il lebbroso guarito ai sacerdoti di Gerusalemme, perché constatino una purificazione avvenuta per opera di Gesù, che rinvia all’opera del Padre, e perché il lebbroso guarito possa offrire i sacrifici previsti in caso di guarigione (Lv 14: due uccelli vivi, puri, legno di cedro, panno scarlatto e issopo, lavature delle vesti, rasatura dei peli, bagno completo, isolamento di una settimana fuori dell’accampamento, offerta di due agnelli senza difetto, un’agnella di un anno senza difetto, tre decimi di efa di fior farina impastata con olio, come oblazione, e un log di vino; in Lv 14,21-32 si prescrivono inoltre le offerte da compiere da un parte di un lebbroso guarito ma privo di mezzi).
I sacerdoti non possono dare la purificazione e la vita, possono solo constatare che esse sono avvenute per potenza dall’alto, ad opera della parola potente di Gesù. Sarà una testimonianza per loro, e in parte, forse, contro di loro.
Fuori
Il lebbroso guarito disobbedisce a Gesù e “proclama come un banditore pubblico/kēryssein” e “sparge la notizia/diaphēmizein”. Il risultato della condivisione “scandalosa” di Gesù col lebbroso è lo scambio dei destini. Il lebbroso guarito può entrare nella società e nell’assemblea cultuale, mentre Gesù «fuori/exō in luoghi solitari/deserti stava in continuità/ēn» (v. 45). È un’autoesclusione libera e voluta da parte di Gesù, costosa in parte, che però attira a sé lo stesso la gente «da ogni dove/pantothen».
Gesù porta su di sé le nostre malattie, le guarisce, svelenendole della morte che le abita. Popola i nostri deserti e riempie le nostre solitudini. Include le nostre esclusioni e ricuce le nostre emarginazioni.
Paolo, l’Immedesimato in Cristo, si esprimerà così: «Sempre infatti, noi che siamo vivi, veniamo consegnati alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nella nostra carne mortale. Cosicché in noi agisce la morte, in voi la vita» (2Cor 4,11-12).