Altri due esperti intervengono nel dibattito sulla “VI Istruzione” con letture e considerazioni differenziate. Nel primo intervento la ipotesi di una VI Istruzione viene definita “fantascienza” rispetto all’attuale assetto e orientamento della Congregazione del culto. Ma si guarda anche alla questione più complessiva della “formazione nei seminari” e della comprensione della Riforma liturgica, come “work in progress”. L’idea di una VI Istruzione presupporrebbe una coscienza viva e attenta a questi livelli, cosa che invece non sembra essere presente nella sensibilità della curia romana attuale. E si lancia, a livello italiano, l’idea di verificare da parte della CEI le questioni più urgenti oggi sul tappeto…
Il secondo esperto, invece, reagisce positivamente alla provocazione offerta da Matthieu Rouillé d’Orfeuil, nel post precedente, valorizzando la prospettiva di una fedeltà al testo mediata da traduzioni “libere”. In effetti, come si notava già in altri casi, Liturgiam Authenticam pretende di identificare “fedeltà” con “letteralità”, il che non solo non è confermato in teoria, ma è anche smentito dalle pratiche delle traduzioni durante 40 anni dopo il Concilio. La riflessione sui “casi concreti” di “fedeltà nella libertà” può aiutare a superare quell’irrigidimento che la V Istruzione ha reso talmente unilaterale, da bloccare ogni possibilità di traduzione dei testi, come denunciato apertamente dal primo dei due esperti.
Fantascienza e pastorale
Ecco il testo appassionato del primo esperto:
«Ritengo fantascienza una sesta Istruzione sulla riforma liturgica. Chi dovrebbe scriverla? L’attuale staff della Congregazione? Dio ce ne liberi!
Cosa dovrebbe trattare? I disastri combinati dalla precedente e l’assoluto impasse nelle traduzioni a causa di certi principi assolutamente fuori da ogni logica? E poi: esiste ancora la volontà di una “riforma liturgica” a livello centrale e quali aspetti celebrativi dovrebbe riguardare?
Non so davvero capacitarmi, anche perché la pastorale derivante dalla celebrazione va largamente differenziandosi anche in Italia.
Forse sarebbe buona cosa verificare, a livello CEI, quali sono i principali “problemi aperti” nell’attuale prassi liturgico-pastorale.
Per non dire poi del problema della formazione, a cominciare dai Seminari, mai adeguatamente approfondito o “riformulato” per i giovani d’oggi. I quali, tra l’altro, che visione hanno dell’agire liturgico scaturito dal Vaticano II?
Non sono che alcuni dei centomila –si fa per dire- interrogativi che sorgono, esaminando dal vivo la realtà italiana. E mi fermo a questa e alla ventilata “autonomia” di responsabilità delle Conferenze Episcopali anche riguardo al capitolo liturgico.
Ma la Congregazione no, quella sarebbe bene ipnotizzarla o sedarla continuamente, perché non farebbe altro che ribadire il passato (opera apologetica) e chiudere ogni apertura al futuro, affermando che ormai la riforma è finita e bisogna solo dimostrare fedeltà alla legge. Come se il mondo si fosse ormai fermato, in quanto giunto alla definitività dell’escaton, nel senso più profondo del termine, cioè all’incontro definitivo con Cristo.
Pessimista? Può darsi, e sarei pronto a pentirmene, in questo anno giubilare. Ma, forse, più che altro, mi riterrei un sano realista, fedele ai fatti, che parlano da sé».
Fedeltà e creatività senza contraddizione
Ecco invece la riflessione del secondo esperto:
«È interessante notare, riflettendo sul tema fedeltà/infedeltà delle traduzioni come la questione sia tutt’altro che semplice.
Leggendo la riflessione del teologo francese (pubblicata in Identikit IV) viene alla luce un aspetto interessante. Effettivamente, la traduzione si rivela estremamente arricchente sia nella misura in cui rende fedelmente l’originale e non lo smarrisce, come di fatto è avvenuto in alcune maldestre traduzioni italiane, sia nella misura in cui dà incremento al testo originale senza tradirlo ed è il caso del Mysterium fidei della Messa nel Messale francese e in altre versioni.
Casi analoghi non mancano: penso, ad esempio, alla colletta della memoria di santa Lucia (13 dicembre). Il testo latino è piuttosto generico: si chiede che l’intercessione di santa Lucia sia di giovamento per poter celebrare nel tempo la sua nascita al cielo e contemplarla nell’eternità. Il testo italiano arricchisce l’esordio (“Riempi di gioia e di luce il tuo popolo”) e la conclusione (“perché noi possiamo contemplare con i nostri occhi la tua gloria”): espressioni assenti nel testo originale. Chiaramente la traduzione italiana fa riferimento alla devozione popolare connessa al martirio della santa e al suo patrocinio sugli occhi: in questo caso per il popolo, riempito di luce e di gioia, si chiede di contemplare/vedere la gloria eterna. Il tema della visione beatifica è sostenuto dal riferimento “devoto” a santa Lucia. Mi pare che in questo caso la traduzione non tradisca, ma migliori e arricchisca l’originale addirittura attingendo ad un patrimonio di per sé extra-liturgico e di ambito popolare. Perdere questo “sviluppo del senso” sarebbe un impoverimento.
Il problema, dunque, si pone quando la traduzione perde evidentemente dei pezzi per strada, delle autentiche perle contenutistiche e letterarie e non quando, aggiungendo qualcosa, irrobustisce la percezione del contenuto.
Certo, rimane il problema di stabilire i criteri della traduzione liturgica affinché non si dia effettivamente un altro testo per cui sarebbe meglio comporre ex novo, ma piuttosto un testo maturo, fedele all’originale senza esserne la copia, fedele alla lingua d’arrivo, fedele al nuovo contesto celebrativo che, per quanto ricreato dall’hic et nunc di ogni azione rituale, comunque si situa dentro le coordinate culturali di un’epoca».
Pubblicato il 15 marzo 2016 nel blog: Come se non