Scorrendo gli scritti di due teologi italiani, si scoprono importanti riflessioni sulla delicatezza del tradurre e sulla esigenza di criteri articolati per offrire traduzioni davvero capaci di orientare e alimentare la tradizione. Consideriamo alcune di queste affermazioni, in vista della stesura di una nuova “magna charta” sulla traduzione liturgica:
1) A proposito della revisione della traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, un importante teologo italiano ha lanciato il seguente avvertimento:
«Ogni parola porta in sé, per il solo fatto di essere pronunciata, una straordinaria potenza emotiva, capace di fare il suo gioco indipendentemente da qualsiasi spiegazione che le si dia sul piano della sua definizione concettuale e da qualsiasi successiva precisazione del significato che si è inteso darle. Lo dimostrano molte liti nate da una sola parola detta male, anche al di là delle intenzioni, che guastano i rapporti umani. Quando uno si è sentito offeso da una parola detta, molte volte non c’è spiegazione che giovi. [Vi sono] parole e frasi che, per quanto perfette nel loro significato, rischiano di lasciare totalmente insensibili, o peggio, di produrre nell’animo di chi ascolta effetti contrari a quelli desiderati». (S. Dianich, «“Per molti’ o “per tutti”», in Vita Pastorale, 101 (1/2013), pp. 28s)
2) D’altra parte, occorre riconoscere che la traduzione, qualsiasi traduzione, non può essere semplicemente riservata al campo teologico o ecclesiale, ma appartiene al campo della “cultura comune”:
«Essendo un’operazione strettamente pertinente all’ambito della mediazione linguistica, la traduzione non sfugge alle regole comuni del lavoro culturale. (…) Anche nel campo della traduzione – si tratti di testi liturgici, biblici o di qualsiasi altro genere – l’argomento di autorità non può reclamare per sé un valore assoluto. Per questo, fermo restando naturalmente l’unità della fede e della disciplina in necessariis, il dibattito teologico si colloca come un’esigenza insopprimibile tra l’esercizio del magistero ecclesiale e il popolo di Dio. Se da una parte è infatti impensabile che tutte la conoscenze necessarie possano riassumersi nelle sole istanze centrali, dall’altra non mancano certo nella Chiesa cattolica le sedi accademiche di grande prestigio, le commissioni consultive, le capacità organizzative per interpellare su larga scala gli esperti in materia biblica, teologica e liturgica. A condizione, naturalmente, di volerlo fare davvero». (F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, Giornale di Teologia 369, Queriniana, Brescia 2014, pp. 11s).
3) Il servizio all’unità non può essere inteso come la “imposizione di un modello unico”, ma come accoglienza della comunione nelle differenze:
«La recognitio dei testi liturgici da parte della santa Sede ha certo la sua logica profonda nel servizio dell’unità. Nondimeno l’episcopato di ogni Chiesa particolare costituisce il soggetto apostolico concreto il quale – in comunione con le altre Chiese e la Chiesa di Roma che ad esse presiede nella carità – è responsabile dell’evangelizzazione entro una regione linguisticamente e culturalmente omogenea. Nel suo esercizio concreto, la presidenza romana non dovrebbe occultare il fatto che l’unità nella fede e nella carità si realizza attraverso la comunione di ciò che è necessariamente plurale». (F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, pp. 13s).
4) Ma c’è di più: è il messaggio originario del Vangelo che non esiste allo stato “puro”, ma che è già tradotto, fin dal principio.
«Anche storicamente non si dà un messaggio evangelico “puro” alle spalle di quello declinato culturalmente nelle comunità degli evangelisti e depositato solo successivamente nei loro scritti. Si potrebbe obiettare che tale molteplicità dei vangeli corrisponde piuttosto alla pluralità dei riti, che non alle diverse lingue in cui è ammessa la versione della liturgia latina, le quali non rappresentano altrettante “famiglie rituali”. Nondimeno nel concreto il rito romano sussiste oggi simultaneamente nella sua forma tipica in latino e nelle sue molteplici versioni e forme approvate: si tratta di una situazione inedita nella bimillenaria storia della liturgia cristiana, le cui implicazioni epocali non sono forse state ancora completamente interiorizzate da tutti; il linguaggio, le parole non possono ridursi alla stregua di asettici contenitori di idee, giacché esse affiorano nel testo gravide della loro storia letteraria e delle loro valenze correnti: la composizione del testo liturgico in lingua moderna rappresenta un vero e proprio atto di inculturazione, che trae la sua forza comunicativa non solo dal modello retrostante, ma insieme anche dai mezzi (e limiti) espressivi propri alla nuova lingua e all’intero mondo culturale che in essa si sedimenta». (F. Pieri, Sangue versato per chi? Il dibattito sul pro multis, pp. 14s).
Pubblicato il 18 marzo 2016 nel blog: Come se non