Alcune vicende recenti nel panorama della Chiesa cattolica, malgrado la loro diversità, hanno sfiorato una questione tutt’altro che pacifica: quella dell’identità dei «laici» nella Chiesa. Certo, rimane vero che con le parole ci si può comportare esattamente alla maniera di Humpty Dumpty in Attraverso lo specchio: «quando io uso una parola essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi!». Basta spiegarsi, quindi, e tutte le accezioni possono essere lecite. Però è anche vero che alcuni usi possono portare con sé equivoci e danni non piccoli: se decido di chiamare «zucchero» il cianuro, probabilmente chi sta per sorseggiare il caffè a casa mia e mi chiede dello zucchero potrebbe subire conseguenze spiacevoli.
Ma una parola così comune come «laico» non ha almeno un significato ufficiale chiaro e ben definito? In realtà non proprio, e questo è un primo problema.
Il «laico»
Il Codice di diritto canonico, a cui è giusto rivolgersi per dirimere dubbi consimili, definisce «laici» i membri della Chiesa che non sono «ministri sacri» ovvero «chierici» (can. 207, § 1), cioè (cann. 266 e 1008) che non sono stati costituiti tali con il sacramento dell’ordine. Questa definizione è sì chiara. Il problema è che il medesimo canone che la propone aggiunge che sia dai chierici sia dai laici «provengono fedeli i quali, con la professione dei consigli evangelici […] sono consacrati in modo speciale a Dio»: e qui non è chiarissimo se questa «provenienza» individui un gruppo distinto.
In effetti, la Lumen gentium (che ad occhio e croce ha autorità almeno pari a quella del Codice di diritto canonico) definisce i laici come «l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso» (Lumen gentium, n. 31). Il Codice dei Canoni delle Chiese orientali, peraltro, esplicitamente segue questa definizione (can. 399).
Sembrano quindi esservi almeno due significati distinti del termine «laico»: uno dal punto di vista della struttura gerarchica della Chiesa, stabilita dal sacramento dell’ordine; un altro, più stretto, dal punto di vista dello «stato di vita», che esclude i religiosi (e forse anche altri consacrati). Inutile dire che l’uso comune si avvicina molto di più a questo secondo: se preannuncio a qualcuno «in questo ufficio troverai una laica», l’altro non si aspetta certo di trovarvi una suora.
La «prova della papera»
I dubbi però non finiscono qui. Un solo esempio particolarmente interessante: tempo fa Famiglia Cristiana ospitò un’interessante e animata discussione riguardo ai diaconi permanenti. Il casus belli era stato un articolo in cui si supponeva che questi erano «laici». Ma in che senso? – obiettò qualcuno –; essi hanno ricevuto il sacramento dell’ordine esattamente come i preti e i vescovi, ergo non lo sono.
L’obiezione era ovviamente fondatissima dal punto di vista del lessico canonico, ma, dall’altra parte, l’affermazione originale non suonava a prima vista assurda, perché i diaconi permanenti paiono «come tutti gli altri». Certo, svolgono un ministero particolare fondato dal sacramento dell’ordine: ma ciò può apparire meno decisivo della maniera in cui vivono.
Nella cultura inglese è celebre la «prova della papera» (duck test): «Se ha l’aspetto di una papera, nuota come una papera, e starnazza come una papera, allora probabilmente è una papera». Credo che ci siano buoni motivi per sostenere che questa perla di filosofia sarebbe perfettamente condivisa pure da Aristotele: una realtà si delimita rispetto ad altre con l’insieme delle sue caratteristiche essenziali. Se non altro, non si può negare che il buon senso comune applica continuamente la prova della papera quando si tratta di usare i vocaboli e farsi capire.
Se spontaneamente (anche se, ripetiamolo, in modo scorretto secondo il diritto canonico) un diacono permanente viene chiamato «laico» è semplicemente perché egli «ha l’aspetto di un laico, nuota come un laico, e starnazza come un laico».
«Indole secolare»
Chiedo scusa a laici e diaconi permanenti, che, a rigor di termini, non starnazzano. Il problema è però proprio questo: in che consiste questo starnazzamento laico? Come ben sanno coloro che hanno anche solo incrociato il problema, lo sforzo di una definizione positiva del laico ha occupato parte importante della teologia del Novecento.
Se, infatti, è relativamente facile indicare caratteristiche negative («senza sacramento dell’ordine», «senza voti o consacrazioni speciali»), esse possono però apparire mortificanti. La linea che ha avuto più successo, fino ad atterrare nella medesima Lumen gentium, è quella che fa appello all’«indole secolare»: tipico del laico (per esempio, attraverso la vita lavorativa o familiare) sarebbe un tipo di contatto con il mondo, per la cui trasformazione questi si impegna direttamente. Come splendidamente ebbe a scrivere Yves Congar, il laico è colui «per il quale il mondo esiste».
Questa prospettiva, che certamente ha svolto una parte importante nel riequilibrare nel Novecento la visione della Chiesa, non è però priva di problemi: essa pare più riscoprire una caratteristica fondamentale del cristiano che una qualità specifica di una sola categoria, benché ovviamente la più numerosa. È in gran parte per questo motivo che l’etichetta di «laico», per tanti secoli tutt’altro che nobilitante, negli ultimi decenni del Novecento comincia a diventare una preziosa medaglia a cui aspirare, e simmetricamente, la «fuga dal mondo» si trasforma da eroico titolo di merito ad accusa di pusillanimità (si ascolti Marcello Giombini per una efficace sintesi in due minuti di questo cambio di mentalità alla fine degli anni 60).
In fondo, «laico» letteralmente vuol dire semplicemente «membro del popolo»: ma tutta la Chiesa è popolo di Dio! La laicità indicherebbe quindi questo originario radicamento, che si congiunge ad un orientamento al mondo che «Dio ha tanto amato», orientamento che viene prima di qualsiasi distinzione di ministero e stato di vita. Anche il prete godrebbe quindi di una «laicità», così come l’aveva Gesù, che non era affatto un sacerdote (l’autore della Lettera agli Ebrei avrebbe qualcosina da obiettare, ma lasciamo tra parentesi il problema). E magari, per finire in gloria, anche «Dio è laico».
Del «modo» in cui ci si rivolge al mondo
Sono considerazioni indubbiamente interessanti, che però si allontanano sempre più dal linguaggio comune e privano la parola «laico» di un significato specifico che è tutt’altro che inutile.
Certo, il criterio dell’«indole secolare» appare fragile quando questa viene cercata per esempio nell’attività lavorativa (in che cosa l’insegnare latino e greco da parte di un laico sarebbe più «secolare» della medesima attività svolta da un prete o da un monaco, per esempio, come innumerevoli volte è accaduto?). Appare però più solida e comprensibile quando è interpretata a partire dal modo in cui ci si rivolge al mondo: avendo una propria famiglia costituita liberamente (e con essa una propria abitazione, un proprio spazio di mondo: in questo senso, anche se si è da soli si è famiglia, come saggiamente dice l’anagrafe); procurando e gestendo i beni che servono per la sussistenza; decidendo giorno per giorno in prima persona la propria esistenza (l’«indirizzo della vita», dice il Codice Civile italiano, art. 144).
Questa è una modalità di entrare in relazione con il mondo differente da castità, povertà e obbedienza (Codice di diritto canonico, can. 598), e anche dalla forma di vita tipica del prete della Chiesa latina. Mi pare che questa sia l’adeguata prova della papera che viene usata, anche se in maniera irriflessa, per dire «questo è un laico», «questa è una laica».
Tornando all’esempio di prima: i diaconi permanenti in genere sono sposati, in genere svolgono una professione civile, hanno insomma una loro esistenza autonoma che appare simile a quello di tutti i semplici cristiani: sono quindi, almeno in un senso colloquiale, «laici».
La Katholische Integrierte Gemeinde
Fin qui l’intera discussione può apparire noiosa e inutile. Fatto sta che sottovalutarne la posta in gioco può avere conseguenze tragiche. Basta infatti capovolgere le caratteristiche che abbiamo enumerato per la prova della papera per ottenere alcune delle peggiori forme di abuso spirituale che negli ultimi decenni sono venute allo scoperto nella Chiesa cattolica.
Prendo un esempio poco noto in Italia ma particolarmente significativo (e per me anche un po’ doloroso, per il motivo che dirò): quello della Katholische Integrierte Gemeinde. Si tratta, per farla breve, di una comunità («laicale») iniziata intorno al 1968 dalla tedesca Traudl Wallbrecher (1923-2016) e da suo marito, basata su ideali di radicalità evangelica.
Oltre che per numerose opere in Germania e altri paesi, essa divenne nota grazie alla ricerca teologica che in essa o collateralmente si sviluppò: sostenitore ne fu Joseph Ratzinger negli anni del suo episcopato a Monaco, membri ne furono i due fratelli teologi Norbert e Gerhard Lohfink, e il laico Rudolf Pesch (uno dei migliori esegeti del Novecento, da me amatissimo nei miei anni di studio teologico: finalmente un celebre teologo laico!, pensavo).
Nel 2009 la Katholische Integrierte Gemeinde approdò alla Pontificia Università Lateranense e ivi istituì la Cattedra per la Teologia del Popolo di Dio, un innovativo centro di ricerca e di insegnamento. L’epilogo della storia è penoso: nel 2019 Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, inizia un’indagine in seguito a gravi accuse. I membri, dopo averle rigettate come calunniose (anche Gesù fu perseguitato!!) si dimettono in massa (forse per evitare di essere interrogati). Marx, con atto semplicissimo ma così raro da meritare una standing ovation, decreta la dissoluzione.
La Katholische Integrierte Gemeinde aveva riconoscimento indipendente nelle diverse diocesi: una alla volta, tutte le comunità vengono sciolte da parte dei rispettivi vescovi. Nel frattempo Benedetto XVI dichiara di essere stato ingannato e che mai avrebbe sostenuto la comunità se avesse saputo che cosa realmente avveniva al suo interno.
Abusi dietro l’etichetta
Che cosa accadeva di tanto grave e che per tanti anni restò nascosto? Sulla base dei rapporti e di successive indagini, ecco una sintesi.
La comunità comprendeva sé stessa come il ritorno della primitiva comunità cristiana e l’unica in cui c’era il vero cristianesimo. La comunità doveva essere considerata dai membri la neue Familie: l’unica, quindi con la famiglia di provenienza non bisognava più avere rapporti (così dice il Vangelo, no?). Essendo l’impegno degli adulti totale, anche il rapporto tra questi e i loro figli era annullato.
La voce della fondatrice (e in generale dei responsabili) era equiparata allo Spirito Santo: dunque, ogni critica rendeva chi la esprimeva colpevole di mancanza di fede o peccato contro lo Spirito Santo.
L’appartenenza alla comunità richiedeva una Ganzhingabe, una «dedizione totale», cioè l’affidamento di ogni decisione della propria vita alla comunità: la scelta del coniuge, del lavoro, del luogo di abitazione (in una casa comunitaria, ispirata ai kibbutzim), della forma di educazione dei figli, del medico. Bonus: i responsabili della comunità potevano anche spingere al divorzio e decidevano la possibilità per gli altri di avere figli e quanti e quando. I membri dovevano dare ogni guadagno alla comunità (Anania e Saffira vennero fulminati, no?).
Ogni trasgressione dello spirito della comunità andava confessato pubblicamente di fronte alla comunità. Molti membri vivevano di fatto in un mondo parallelo, in cui esistevano solo la comunità e le sue opere; la fuoriuscita implicava quindi la perdita dei rapporti umani, degli averi e spesso anche del lavoro.
Ovviamente tutto ciò, invisibile dietro l’etichetta di «cristianesimo illuminato e integrale», veniva scoperto un pezzettino alla volta: all’inizio c’era solo l’incantamento del ritorno alla «comunità primitiva». Qualcuno potrebbe sostenere che, in effetti, il problema fondamentale (l’inganno, diciamo per far presto) era tutto qui: non dichiarare apertamente quale sarebbe stata la forma di vita in cui un membro della comunità un po’ alla volta sarebbe stato coinvolto.
Negazione della «vita laicale»
Questo quadro è basato sulle testimonianze degli ex membri, che come è noto richiedono cautela: bisognerebbe dare spazio anche alle voci favorevoli se interessasse una valutazione esatta del caso specifico. Ma qui ci preme solo notare come esso susciti un’impressione di déjà vu. Capovolgendo il celebre esordio di Anna Karenina, viene da dire che ogni comunità funzionante è funzionante a modo suo, mentre tutte le comunità disfunzionali si assomigliano.
La miscela di tratti settari potrà essere diversa, ma il catalogo degli ingredienti è più o meno sempre uguale. E questo catalogo pare potersi ricavare semplicemente (ripetiamolo) dalla negazione del modo laicale di rapportarsi al mondo, ovvero (il che è la stessa cosa) da una caricatura dei voti di castità, povertà e obbedienza.
Una caricatura: perché le comunità religiose e di vita consacrata hanno una tradizione che aiuta a frenare le degenerazioni, meccanismi (pure canonici) per rimediarvi, e anzitutto (anzitutto!) una chiara evidenza del proprio modo di vita. Chi entra come postulante in un convento francescano sa grosso modo che cosa lo aspetta e vi entra proprio per questo, e forse anche perché conosce una storia secolare di santità e umanità.
Ma a parte qualche caso patologico, nessuno, neppure sotto il più ammaliante love bombing, metterebbe piede in una comunità sedicente «laicale» se sapesse che lì dentro qualcuno si arrogherà il diritto di decidere su chi possa o debba essere il suo coniuge, su che cosa possa o non possa leggere, su come debba condurre ogni attimo della propria vita, o che l’uscita da quella bolla equivarrà ad una morte civile, o che lo stesso senso dell’amicizia e di ogni rapporto umano sarà fagocitato dallo «spirito» della comunità.
Chiunque, sapendo queste cose in anticipo, applicherebbe inversamente la saggia prova: quell’animale non ha l’aspetto di una papera, non nuota come una papera, non starnazza come una papera. Non è quindi una papera.
Grazie per la pubblicazione di questo articolo. Il mio parere è che alla luce del NT la parola laico non trova sussistenza teologica. Ritroviamo solo semplicemente coloro che invocano il Nome di Gesù, come definisce Paolo i cristiani, cioè la comunità cristiana arricchita di carismi e ministeri. Cioè ciò che rimarrà fra poco al termine del processo di uscita dal regime di cristianità ed alla morte del clericalismo. Allora il diritto canonico dovrà cambiare.
La prova della papera si dovrebbe applicare anche al CIC, che è il codice strutturale della Chiesa Cattolica: se divido nettamente una cosa in due, e le due parti sono incompatibili ed impermeabili, allora non posso dire che quella cosa è una e che le due parti sono sullo stesso piano. Un sacerdote ed un laico sono chiaramente e sostanzialmente diversi, non sono sull0 stesso piano, non sono portatori di diritti e doveri uguali. Un laico sarà sempre un cattolico di serie b, e nonostante tutte le arrampicate sugli specchi di giuristi ed opinionisti la realtà non cambia. Certo il NT parla di differenze fra ruoli e carismi, ma non stabilisce differenze di stato fra i credenti. Finché sussiste questa differenza fra laici e religiosi, sancita da un diritto formulato da uomini e senza una chiara evidenza evangelica, non possiamo parla di una chiesa “una”, cioè unita.
Salve, non so dove il Salmeri vuole andare a parare: se per screditare – attraverso un caso tedesco – il mondo laicale cattolico fuori dagli schemi, e – dall’altra – riaffermare il meglio sotto le ali del mondo clericale. Il diaconato permanente da cui è partito come problema – se sia più laicale o più clericale – è un falso problema: la gerarchia ha messo sotto il regime clericale questa figura solo perchè il diacono può predicare e amministrare dei sacramenti e quindi vuole porlo sotto il controllo del vescovo che può decidere di lui. il resto – sugli abusi – è solo un modo per deviare la discussione, per me. perchè di abusi nella chiesa cattolica – a cura dei grandi o meno personaggi clericali, in parrocchie, diocesi, associazioni, istituti religiosi…anche con complicità di laici vicini, in giro per il mondo ce ne sono un numero indicibile e chissà quanti ancora dovranno emergere (vedi ad es. in Italia, dove è stata bloccata la possibilità di farli emergere, nonostante parli e parli ancora papa Francesco, evitando una commissione indipendente sul fenomeno…). L’ istituzione Chiesa Cattolica cerca di controllare il “suo mondo”, eppure – sia sull’uno, il diaconato, sia sull’altro, gli abusi – ha paura dello scandalo e quindi frena su tutto…Però gli scandali degli abusi (vi sono tanti abusi nella Chiesa Cattolica, da quelli più istituzionali a quelli più corporali e psicologici…alcuni silenti, altri che fan cronaca…) continuano e si allargano. e sono quegli stessi capi religiosi cattolici, abusatori, per ufficio controllare i sottoposti come i diaconi proprio in nome della dottrina e dello stesso “regime” ecclesiastico. Quindi, fate bene a porre vari questioni della Chiesa, ma nessuno riuscirà a riformare una Chiesa Cattolica che oramai è bloccata istituzionalmente su tutto: anche papa Francesco dice tanto, ma poi riesce a fare solo piccolissime cose che però non incidono, nè dentro nè fuori. E così sarà per il prossimo papa: prigioniero di se stesso, grazie all’istituzione che lo comanda e che s’illude di comandare se non per nominare vescovi e cardinali che poi possono e fanno quel che vogliono. non c’è che un tentativo da fare: costruire un momento serio e imponente di provocazione col quale paventare uno scisma attraverso il quale poter portare di nuovo la Chiesa ecclesiastica di fronte a se stessa, seriamente e radicalmente, e vedere lì se quella stessa Chiesa nelle sue fazioni e nel suo insieme saprà e vorrà ripensarsi, rimettersi in discussione, oppure no. ma almeno potremmo vedere – a viso aperto? o ancora sotterraneamente? – quale cristianesimo questi capi religiosi cattolici ambiscono avere per i prossimi decenni.
Grazie molto delle osservazioni, a cui rispondo con qualche chiarimento.
1. Non so se «screditare» sia la parola giusta: i fatti di abuso di coscienza a cui mi riferisco sono conosciuti, alcuni conclusisi con una decisione definitiva, altri in corso di esame. Spesso se ne è occupata anche SettimanaNews. È auspicabile che tutti vengano scoperti. Non credo comunque che ciò che ho detto possa cambiare nulla sul giudizio che si può avere nei loro confronti, anche solo da un punto di vista umano.
2. «Mondo laicale cattolico fuori dagli schemi»: tutto dipende da quali sono questi schemi. Se questi schemi sono (mi contento di una battuta) quelli del Vangelo, credo che sia coerente che la Chiesa non riconosca queste organizzazioni come proprie. Se rispettano la legge civile, potranno ovviamente (come almeno in un caso è accaduto) continuare ad esistere come associazioni senza nessun rapporto con la Chiesa.
3. L’esempio dei diaconi permamenti è stato da me scelto solo come un caso in cui il buon senso e il linguaggio comune individua (giustamente) alcune caratteristiche del loro stile di vita.
4. Ovviamente, il problema degli abusi di coscienza esiste anche negli istituti di vita religiosa e in quelli clericali. Tutti conoscono casi clamorosi e gravissimi.
5. Se dovessi rendere più esplicita la mia conclusione, direi questo: credo che sarebbe bene che tutte le organizzazioni «laicali» (o parzialmente laicali) avessero l’obbligo assoluto di rendere pubblica tutta la documentazione che definisce il proprio stile di vita (costituzioni, statuti, consuetudini, istruzioni, catechismi ecc.), e di indicare il proprio nome in ogni propria iniziativa (o iniziativa dei propri membri le cui finalità sono chiaramente riconducibili all’organizzazione). In questo modo chiunque saprebbe che cosa lo aspetta e nessuno sarebbe fuorviato dall’etichetta «laico», a cui il linguaggio comune assegna un significato, se non precisissimo, almeno abbastanza chiaro nelle sue componenti generali.
Comunità di laici che cercano di vivere insieme il Vangelo, anche in Italia, ce ne sono e a mio avviso sono un tesoro. Purtroppo so per esperienza personale (ho vissuto per un po’ di mesi in una di queste presenti a Milano) e di storture quando sei dentro le vedi. L’ideale deve fare i conti con la realtà e lì viene fuori il marcio che ci sono in queste comunità.
Vorrei lodare SettimanaNews e ringraziare l’autore per questo interessantissimo saggio. È per spunti di riflessione come questo che leggo la rivista quotidianamente!