C’è una cosa che, durante il tempo natalizio, piace molto ai bambini ma piace tanto anche agli adulti: visitare i presepi. In passato si notava molto più interesse ed entusiasmo anche nell’allestire il presepe. C’era qualcosa di rituale e di magico quando, nelle nostre famiglie, assieme al papà, i bambini erano direttamente coinvolti in questa esperienza. Era un’operazione in cui la creatività aveva una parte importante, perché molto spesso c’era in ballo il primo premio per il presepe più bello della parrocchia, se non del paese.
Altri tempi? Forse sì. Rimane comunque suggestivo approfittare del tempo delle festività natalizie per ammirare qualche presepio.
L’ho fatto anch’io, e non ne sono rimasto affatto deluso. In particolare, in una chiesa ho trovato un presepe che mi ha colpito, pur nella sua impostazione tradizionale.
Lo sguardo era subito attratto dalla luminosità e dal rilievo che aveva la scena della Natività di Gesù, anche perché le statue erano piuttosto grandi. Ogni elemento scenografico era ridotto all’essenziale, perché occhio e cuore potessero sostare nella contemplazione del mistero del Natale. Vicino al Bambino c’era la statua della Madonna, in un atteggiamento di grande tenerezza. Il volto di Maria era molto bello ed esprimeva con intensità questa sua dolcezza.
Mi aveva incuriosito, invece, la collocazione seminascosta della figura di Giuseppe, nell’ombra, quasi sfuggente, dietro l’arco di una grande colonna romana. Di lui si intravvedeva solo la parte inferiore della tunica, la lanterna luminosa che portava in mano e una parte del bastone da viaggio.
«Come – ho pensato tra me – si è appena concluso l’anno dedicato a san Giuseppe e già lo facciamo sparire?».
Mi sono avvicinato e, nella penombra, ho visto un cartello che, a prima vista, non avevo notato. Ho fotografato il testo e lo riporto alla lettera: «Caro visitatore, ti sarai chiesto perché la figura di san Giuseppe è così poco visibile. È una scelta voluta, perché questo è il modo sobrio con cui i vangeli parlano di lui. Di lui non si ricordano parole ma gesti concreti. È lui a scegliere, contro ogni logica umana, Maria come sua sposa. È lui ad accompagnarla nel pericoloso viaggio da Nazareth a Betlemme, per adempiere al censimento indetto da Cesare Augusto. È grazie al suo coraggio che Gesù potrà sfuggire alla terribile strage dei bambini voluta dal re Erode. E sarà dalla sua concretezza di padre che Gesù potrà imparare il difficile mestiere di essere uomo. C’è un piccolo suggerimento per te che stai osservando questo presepe: la figura di san Giuseppe non si scorge finché rimani in piedi, ma quando ti inginocchi anche la sua figura avrà l’evidenza e il rilievo meritato. Buon Natale e buon anno».
Straordinario. Ho subito pensato che in quella modalità rappresentativa c’era la sintesi di ciò che papa Francesco ha donato alla Chiesa con la lettera apostolica Patris corde. Padre amato, padre nella tenerezza, padre nell’obbedienza, padre nell’accoglienza, padre dal coraggio creativo, padre lavoratore, padre nell’ombra[1].
Padri nell’ombra
Nella lettera, introducendo questo paragrafo per descrivere la paternità di Giuseppe, si dice:
«Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro “L’ombra del Padre”, ha narrato in forma di romanzo la vita di san Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che, nei confronti di Gesù, è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi (…) Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti» (PC 7).
Essere padri nell’ombra. È un’espressione provocante, che porta a riflettere e che potrebbe aiutare non poco a ridefinire il profilo del ministero presbiterale. Essere padri, presenti, ma senza nessuna ostentata visibilità, senza invadenza. Non vale solo per i presbiteri, vale anche per qualsiasi persona che assume l’impegno di prendersi cura di qualcuno.
Quando si è troppo presenti, in maniera ossessiva, puntigliosa, si toglie il respiro al bambino e non si lasciano crescere i figli. Occorre permettere loro di cadere per potersi rialzare, per imparare a camminare. Essere padri nell’ombra non significa assenza, ma rispetto della libertà di un figlio per renderlo capace di scelte, di libertà di partenze. Significa mandare un messaggio importante per ogni educatore: «Io ci sono, sono vicino a te e puoi contare su di me in ogni momento, ma non voglio e non posso invadere la tua vita. Non voglio e non posso farti crescere a mia immagine e somiglianza».
Il poeta libanese Gibran Kahlil Gibran scrive:
«I vostri figli non sono figli vostri. Sono i figli e le figlie del desiderio che la vita ha di sé stessa (…) Potete dar loro tutto il vostro amore, ma non i vostri pensieri. Perché essi hanno i propri pensieri. Potete offrire dimora ai loro corpi, ma non alle loro anime. Perché le loro anime abitano la casa del domani, che voi non potete visitare, neppure nei vostri sogni (…) Voi siete gli archi dai quali i vostri figli sono scoccati come frecce viventi»[2].
Cosa resta del padre?
È il titolo provocante e suggestivo di un famoso libro dello psicanalista Massimo Recalcati[3]. Sul padre si è detto e scritto di tutto, ed è vero che il ruolo paterno, oggi, è profondamente cambiato. Fino a qualche tempo fa, il padre era una figura fondamentalmente assente dal percorso di crescita dei figli e il suo ruolo educativo si giocava sostanzialmente attraverso comandi e punizioni. Chi non ricorda la tipica frase delle mamme, che calmava immediatamente gli animi: «Se non la smetti, stasera lo dico al papà!». I bambini avevano paura del padre che, con le sue sgridate e i suoi castighi, suscitava sensi di colpa e, spesso, lontananza affettiva.
Ma il tempo del padre-padrone è finito, perché l’autoritarismo ha perso legittimità e interesse. Oggi, non sempre purtroppo, i padri cercano di essere presenti nella vita dei figli e sono alla ricerca di un modo tipicamente “paterno” per aiutarli a crescere.
Si è passati, però, da un estremo all’altro. Trascorsa l’epoca del padre si è passati all’epoca del figlio, caratterizzata da un eccesso di cura, di ansia, di preoccupazione rispetto al benessere dei figli, con la conseguente rinuncia da parte dei genitori al loro ruolo educativo, in particolare quello paterno.
Così sono i bambini che, spesso, danno comandi agli adulti e sono investiti della responsabilità di decisioni che non possono né debbono spettare a loro.
Non è facile essere buoni padri e neppure buone madri.
La crisi dell’adultità, che riguarda paternità e maternità insieme, di fatto si configura come crisi di autorità e ancor più come crisi di autorevolezza, cioè di credibilità[4].
Una condizione essenziale per un recupero di autorevolezza e credibilità presuppone che i genitori vivano uno stile di “coesione”. Papà e mamma devono decidere insieme le regole e le strategie educative; per fare questo occorre parlarsi, condividere e mostrarsi uniti. Spesso si parla di tutto tranne che di come educare i figli. Vivere la coesione significa riferirsi l’uno all’altro e fare un gioco di squadra che abbia come finalità l’autonomia dei figli.
Non è che queste riflessioni possano fare bene anche al mondo dei presbiteri? Spesso il servizio pastorale è vissuto in maniera molto autoreferenziale, con una latente presunzione che quello che decidiamo noi vada bene per tutti. Una buona paternità pastorale si alimenta e cresce nella capacità di empatia e di ascolto. E in questo senso le sollecitazioni non mancano.
Dignità, passione, amore
Sto concludendo queste note dopo aver seguito, come molti tra noi immagino, i funerali del Presidente del Consiglio europeo, David Sassoli, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma.
Nell’omelia del card. Zuppi e nelle testimonianze della moglie Alessandra e dei figli Giulio e Livia emerge un ritratto commovente e denso di messaggi per ogni paternità. Ne ripropongo qualche tratto con alcune parole del figlio Giulio.
«Ciao papà. In questi giorni abbiamo provato a cercare tanto parole per cercare di raccontarti e per costruire un ritratto quotidiano, staccato dai tuoi impegni lavorativi. Sono tre le parole che in questi giorni frenetici e di confusione mi girano nella testa.
Dignità… la dignità di chi non ha mai fatto pesare la malattia a nessuno né ora né anni fa. “Sì, ma io c’ho da fa”. Questo continuavi a ripetere a tutti in ospedale (…).
E poi passione. Passione per il tuo lavoro, per le tue sfide. Ci insegni che avere passione vuol dire coltivare la sensibilità e la cura per le piccole cose. E poi la passione per le persone, per le storie delle persone, cosciente che da ognuna si possa imparare e che ognuna meriti di essere ascoltata.
E infine amore. Forse la parola forse più banale, ma che nelle tue ultime ore hai ripetuto più spesso, con le tue forze, con i tuoi ultimi sospiri. (…) Mi ha colpito perché fino alla fine non sei stato in grado di cedere allo sconforto e fino alla fine ci hai parlato di speranza. E allora cercheremo di proseguire con quello che ci hai insegnato, con idee forti ma dai modi gentili, curiosi e coraggiosi, nel tuo ricordo, col tuo sorriso. Buona strada papà. E, mi raccomando, giudizio».
Sono le parole di un figlio al proprio papà, e custodiscono un’eredità preziosa che mai potrà essere dimenticata.
Sono un augurio di speranza e di buon cammino che possiamo farci in questo inizio ancora faticoso di un nuovo anno. Che in questo contesto di passaggio, in cui ci è dato vivere, possiamo non perdere l’entusiasmo, ma raccogliere con discrezione e consapevolezza le sfide che si presentano, per trasmettere a quanti si affidano a noi il coraggio e la fiducia che lo Spirito del Signore dona a ciascuno di noi.
C’è bisogno di padri nella fede che testimonino l’entusiasmo e la determinazione interiore per affrontare il mare aperto dei cambiamenti.
C’è bisogno di padri nella speranza che siano esploratori umili e perseveranti, capaci di fissare lo sguardo su una terraferma che è sempre oltre, sempre futura, in avanti. C’è bisogno di padri nell’amore che non posseggano sempre tutte le risposte, ma che, nell’ascolto, sanno cogliere il senso profondo delle domande.
C’è bisogno di padri dal cuore sapiente che siano il riflesso del volto della paternità di Dio.
«La paternità di Dio è amore infinito, tenerezza che si china su di noi, figli deboli, bisognosi di tutto. Il Salmo 103, il grande canto della misericordia divina, proclama: «Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso coloro che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (vv. 13-14)[5].
Il testo è l’editoriale del primo numero della nuova annata (numero 56) della rivista di spiritualità pastorale Presbyteri, che si apre sotto il segno di alcune importanti novità (che abbiamo esposto qui), tra le quali una video presentazione del numero a cura di don Nico Dal Molin (ecco la prima), il quale firma anche gli editoriali delle sei monografie del 2022.
[1] Cf. un quaderno della “Nouvelle revue théologique” che raccoglie cinque saggi apparsi sulla rivista dal 1953 al 2013, col titolo Saint Joseph. Théologie de la paternité (Paris, 2021). Gli autori sono: H. Rondet, X. Léon-Dufour, A. de Lamarzelle, P. Grelot, P. Piret.
[2] Gibran Khalil Gibran, Il Profeta, La Nuova Guanda, Milano 1985, p. 39 (con prefazione di Carlo Bo). Il testo originale The Prophet è stato pubblicato nel 1923 a New York dall’editore Knopf.
[3] Massimo Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.
[4] Questo aspetto è stato affrontato in maniera specifica nella monografia Preti adulti, in Presbyteri 54(2020)6.
[5] Benedetto XVI, Io credo in Dio: il Padre onnipotente, Udienza generale, 30 gennaio 2013.
Il maschio, il padre, il prete sono tutte identità oggetto di continue vessazioni ideologiche. La logica conseguenza è che oramai vengono sempre più evitate anche quando – per avventura o natura – siano piovute addosso a qualche povero malcapitato.