“Ci saranno ancora preti?”. La domanda è spesso taciuta, per timore della risposta. Come affrontarla? Come valutare i cambiamenti messi in atto negli ultimi 20 anni nel Nord Italia (si pensi per esempio alle varie forme di collaborazioni/comunità/unità pastorali)?
E come accogliere con delicatezza quegli abbandoni del ministero attivo che nascono dalla fatica di abitare un sistema insostenibile? Infine, come accompagnare le comunità cristiane in questo momento difficile di passaggio, dove il prete non può più assicurare la modalità di vicinanza a cui si era abituati? È davvero pensabile una trasformazione o si rischia di mettere in crisi l’intera presenza della Chiesa su un territorio?
A queste e ad altre domande don Paolo Brambilla e don Martino Mortola hanno scelto di non sottrarsi, anzi: le hanno affrontate con passione, competenza e rigore. Entrambi docenti di teologia sistematica presso la Sezione parallela del Seminario di Milano, condividono la vita con i seminaristi e l’amicizia con altri confratelli. Due sguardi che hanno portato a interrogarsi a fondo sul futuro e a dare un contributo di pensiero per chi è chiamato a scelte non scontate.
Il libro nasce dunque da questo intreccio di sguardi: la riflessione teologica, l’ascolto della vita, la prospettiva per un futuro perché sia ancora segnato dal Vangelo.
Frutto della collaborazione con alcuni docenti dell’Università Cattolica, il testo offre una conclusione aperta, in grado di orientare scelte concrete. «Siamo appassionati per la nostra Chiesa. Vediamo la fatica dei nostri compagni parroci. La prima evidenza è questa: ci sono pochi preti per ciò che abbiamo da gestire. Partiamo, dunque, dal calo dei preti, per capire come questo ci chiede di ripensare la forma della Chiesa» (Brambilla).
Uno sguardo reale
La ricerca si apre con uno sguardo concreto sulla realtà, ma i dati sono a servizio di un’interpretazione teologica ed è un primo grande guadagno.
In occasione della presentazione del testo a Torino, così commentava il card. Repole: «Non è inusuale trovare dei testi anche in Italia che si occupino del fenomeno Chiesa dal punto di vista dei dati. Ci sono molte indagini di questo genere, è interessante. Tuttavia, mi sembra, è molto difficile trovare degli studi che riflettano sul fenomeno Chiesa con un approccio epistemologico convincente. Cioè, con una lettura interpretativa del fenomeno e dei dati che tenga conto della singolarità del fenomeno che si va a indagare. Il primo grande pregio di questo libro mi sembra proprio questo: offre, forse anche perché sono due teologi a condurre la ricerca, un approccio epistemologico assolutamente convincente per esprimerlo».
Che cosa emerge? Rispetto ad altre Chiese nel mondo, non abbiamo un problema di basso numero di preti rispetto ai battezzati, ma abbiamo un problema di cambio di prospettiva: i preti, per la ricchezza che ci hanno regalato, per come eravamo abituati, sono e saranno di meno. A questo dato si aggiungono il calo demografico, particolarmente visibile in Italia, e il calo della pratica religiosa.
A Milano le proiezioni hanno una parola da suggerire: dal 1998 ad oggi si è passati da 2.200 preti a meno di 1700; si prevedono nel 2040 1.050 preti, forse meno, contando i soli sei ingressi in seminario negli ultimi due anni. Nemmeno i diaconi vedranno un aumento numerico. Un dato importante: i preti sotto i 40 anni hanno un calo del 56%. Cosa significa questo per l’oratorio e la pastorale giovanile?
In ascolto dei battezzati di una comunità pastorale
La ricerca continua con un’interessante indagine: realizzata con intervista qualitativa, ha coinvolto i battezzati impegnati in vario modo nelle attività di una comunità pastorale di tre parrocchie, per un totale di 21.000 abitanti; dal 2008 è presente un solo parroco e un vicario per la pastorale giovanile. C’è una gratitudine verso l’ascolto: grazie all’ora di intervista è stata toccata l’esperienza di fede.
L’inizio della comunità pastorale è coinciso con un forte invito al coinvolgimento; c’è nostalgia rispetto al passato circa la vita di fede, quando era più accompagnata; emerge una certa opposizione alle trasformazioni; è presente la nostalgia per una relazione vicina e informale con il prete, anche nella dimensione spirituale.
Il problema principale dell’assenza del prete non è organizzativo, perché molte persone hanno supplito a esigenze di tipo pratico e organizzativo (es. oratorio, squadra CSI, Caritas); ciò che manca di più è un accompagnamento spirituale e teologico: «Non ce la sentiamo di guidare un incontro di fede se non per i bambini».
Nascono due desideri: primo, i preti abbiano più tempo per le persone. Per esempio, ci sono troppe celebrazioni eucaristiche, rischiando di frammentare e dividere una comunità; la parte amministrativa dev’essere affidata ad altri. Il secondo, collegato al primo: i preti passino più tempo per le relazioni. La relazione è sentita come “la” pastorale. «I preti abitino gli “interstizi” della vita”», prima e dopo un evento.
Chi è impegnato chiede di non essere lasciato solo. Ma gli stessi preti lo chiedono: non lasciateci soli. Da questi desideri occorre partire.
Riflessioni a partire dal vissuto dei preti
Particolarmente degno di interesse è l’approfondimento di Giuseppe Como. «L’agenda del prete è sempre fittissima, gli adempimenti richiesti sono numerosi e incalzanti, le scadenze incombono: qualcuno si domanda che cosa ne è stato della “lettura sapienziale” della realtà che l’esperienza della pandemia sembrava aver suggerito. I preti rischiano di sentirsi sempre manchevoli sul piano spirituale, sul piano organizzativo, nell’ambito relazionale. (….) La frustrazione, nel caso dei presbiteri con più anni di ministero, deriva non tanto dalla quantità di lavoro pastorale da assolvere senza riuscire a tenere il passo, quanto piuttosto dalla stanchezza, dalla sensazione di lavorare spesso a vuoto, facendo cose poco utili o sproporzionate. È difficile del resto accettare di essere minoranza soprattutto – aggiungiamo – se la facciata è quella di un’organizzazione ecclesiale ancora ricca e potente che talvolta ragiona e si esprime ancora in termini trionfalistici».
C’è grande gratitudine per la fede delle comunità, che custodiscono quella del prete; si invoca un accompagnamento soprattutto sul versante pastorale, a partire da un maggiore ascolto, da ricevere e da dare. «Forse deve far pensare il fatto che, nell’immaginario spontaneo della gente, il prete ambrosiano non sia considerato anzitutto come “uomo di Dio”, “uomo di preghiera”»: mancano le possibilità di condividere la fede, anche tra gli “operatori pastorali”. Si ricorda il richiamo del card. Martini, che ha insistito molto sulla necessità di «un presbiterio capace di pensare insieme, con amore, la propria missione nel mondo di oggi» (1988).
Una proposta per Milano
Martino Mortola offre un approfondimento sulla destinazione del clero, proponendo, con passaggi concreti, un coinvolgimento della comunità cristiana. Nella storia della Chiesa, ogni volta che si è riformata l’istituzione parrocchiale e il clero, si è agito anche sul modo di destinare i preti.
Prima del Concilio di Trento, in diverse parrocchie era in vigore il giuspatronato: gli uomini votavano il candidato parroco e il vescovo era vincolato. Questo non aiutava la liberà della Chiesa.
Dopo il Concilio di Trento fino al 1917, la scelta era quella del concorso selettivo, per dare il miglior parroco possibile ad ogni parrocchia.
Oggi è in vigore una scelta comunionale: il criterio non è il beneficio, ma il bene complessivo della diocesi. Si può fare un passo in più nel modo di destinare i parroci. Quello che conta davvero è che le parrocchie siano sufficientemente vitali per comunicare il Vangelo (Repole).
Perché non provare a rendere le parrocchie, quando si destina un prete, più protagoniste? Non tutte potranno averlo, né un prete può avere un numero smisurato di parrocchie. In ogni caso, non è possibile non pensare a pluralità di forme ecclesiali e quindi a pluralità di figure di ministri.
Il fine del cammino è differenziare le istituzioni di base. Il mezzo è il discernimento sinodale, prima di ogni cambio di parroco. «Si è concordi sul fatto che la parrocchia può diventare in un territorio la locomotiva di una pluralità di presenze ecclesiali che garantiscono, da una parte, la capillarità di presenza e, dall’altra, la corresponsabilità dei battezzati nella missione della Chiesa (…). In gioco evidentemente non c’è solamente la qualità di vita del ministro o la riorganizzazione delle forze in campo (sebbene non siano temi secondari) ma in modo ancora più decisivo c’è in gioco la cattolicità e l’apostolicità della Chiesa locale (…). In un momento storico in cui queste due caratteristiche della Chiesa locale, cattolicità e apostolicità, sembrano essere alternative, si comprende come un processo sinodale in vista della destinazione del clero e il discernimento ecclesiale sulla forma della comunità in un luogo può aiutare a non perdere questi caratteri decisivi della Chiesa di Gesù Cristo».
Buone pratiche
Il testo si conclude con alcune buone pratiche. Non si possono copiare nel nostro contesto: sono esperienze che hanno innescato processi in grado di indicare altre vie possibili, ben sapendo che non si può disgiungere la riforma strutturale da quella spirituale.
Il riuso dei beni ecclesiastici di Mantova, dopo il terremoto; il sinodo diocesano e la riconfigurazione parrocchiale della diocesi di Bolzano-Bressanone; i prayer leader del PIME in Guinea Bissau; le scelte dei vescovi in Francia e Germania, che hanno chiuso molte parrocchie, dopo un periodo di collaborazione sotto un unico parroco; i team pastorali in alcune diocesi del Triveneto.
Conclusioni
Il testo offre altri approfondimenti (Repole, Bressan), oltre alla prefazione di mons. Castellucci. Ma particolarmente interessanti sono le conclusioni, nelle quali i curatori propongono alcuni cammini per la Chiesa ambrosiana. In una Chiesa che è pellegrina, ma con uno zaino ormai troppo pesante, «è il momento di rifare lo zaino».
Le comunità pastorali hanno garantito la presenza “canonica” del prete, ma senza le condizioni perché si potesse assicurare quella “effettiva”. È sul prete che si è caricata maggiormente la frustrazione di questo passaggio.
Si propone una soluzione pratica, declinata con precisione nel testo. «Fino dove è possibile, considerando con realismo l’essere pastori vicini al gregge, il parroco abbia un’unica parrocchia, magari grande ed eventualmente formata dall’unione di precedenti comunità; questa parrocchia abbia un centro ben definito e ad essa il parroco sia completamente dedicato.
Per le comunità in cui non si potrà più assicurare un pastore, a causa della mancanza di presbiteri, si cerchino soluzioni alternative. Quindi, declinando questo principio nei suoi due aspetti, da una parte, si tratta di comprendere come rendere proficua la presidenza dei presbiteri alla guida delle comunità parrocchiali, rivedendo i confini delle stesse per semplificare lì dove è opportuno semplificare con alcuni accorpamenti.
Il fine è vivere in una comunità in cui ci possa essere una centralità eucaristica e un’appartenenza comunitaria unica, seppur con diverse declinazioni. Dall’altra parte, si tratterà di comunicare, a molte realtà, che il numero dei presbiteri non è più sufficiente per assicurare loro una guida presbiterale, e, se esse hanno il desiderio di continuare a sussistere “in modo indipendente”, potranno farlo senza un presbitero dedicato. Si tratterà di aiutare, quindi, alcune comunità, che sono ancora giuridicamente parrocchie, a discernere, pastori e popolo, se andare verso un’incorporazione o gestirsi in modo autonomo».
La ricerca offre contenuto e metodo per un lavoro di Chiesa, importante e prezioso in questo tempo di passaggio, da una cristianità non più presente nelle persone, ma ancora persistente nella struttura, verso comunità che si riconoscono lievito e sale, segno di Vangelo per tutti coloro che lo cercano. Un testo interessante per il lavoro di un consiglio pastorale o di un gruppo di preti, frutto di uno sguardo appassionato e credente sulla realtà di una Chiesa particolare.
Concludiamo con una provocazione che viene dalla presentazione del libro del card. Repole. «Mi sembra molto bello che tantissime cristiane e tantissimi cristiani, nonostante tutto, dicano che hanno bisogno dei preti. E hanno bisogno, potremmo dire, di un contatto relazionale con loro, semplice, immediato, negli interstizi tra un momento ufficiale e un altro momento. Ed è però una richiesta che viene fatta dentro un contesto culturale fondamentalmente funzionalista. Il valore aggiunto che deve essere presente nella vita di un prete è la gratuità. Anche là dove la gratuità del dono di una vita può essere invocata, essa non può essere messa mai in conto come qualcosa di scontato. Questo penso che per il futuro sia qualcosa a cui dovremo pensare seriamente. In fondo la bellezza del prete è anche questo, qualcuno che gratuitamente, senza che nessuno gliel’abbia chiesto, senza doverlo a nessuno, dà la vita. Mantenendo però questo dono come dono gratuito, non come un’esigenza, neanche se tale richiesta dovesse arrivare da parte della Comunità».
Sicuramente un libro interessante per lo sguardo lucido che ha. Tuttavia faccio notare che sembra quasi che dietro ci sia l’idea “il prete è la Chiesa”. In realtà la Chiesa è anche il prete, non può e non deve esserlo in modo esclusivo. Sono fortemente persuaso che la situazione ecclesiale in Europa imprimerà una forma missionaria alla Chiesa con meno preti e più laici protagonisti.
Non abbiamo bisogno solo di preti ma di preti santi. Preti che pregano e sanno stare in ginocchio davanti a Gesù. Preti che ci testimonino la passione per la loro vocazione. Che non vanno dietro al mondo ma profumano di sacralità. Preti che fanno venire la voglia ai ragazzi che li frequentano di entrare in Seminario. I preti di una volta insomma
Sono i ‘santi preti di una volta’ che negli anni ’60 hanno gettato le talari nella pattumiera, orizzontalizzato e impoverito la Liturgia e aperto al mondo.
Perché forse tutto quello che facevano era solo un obbligo e una costrizione